Amici Nel Mondo Nostro


Replying to Film anni 30-40-50-60-70 Italiano ed Europeo

  • Create account

    • Nickname:
  • Enter your Post

    •              
           
       
      FFUpload  Huppy Pick colour  HTML Editor  Help
      .
    •      
       
      File Attachments    Clickable Smilies    Show All
      .
  • Clickable Smilies

    • :huh:^_^:o:;):P:D:lol::B)::rolleyes:-_-<_<:)
      :wub::angry::(:unsure::wacko::blink::ph34r::alienff::cry::sick::shifty::woot:
      <3:XD:*_*:];P:XP:(:=)X):D:>.<>_<
      =_=:|:?3_3:p:;_;^U^*^^*:=/::*::b::f:
      :ABBRACCIO.gif::swear.gif::ciao::b-giorno::bsera::b-notte::donaldduck::juve::YUP0nU1.gif::Utauxhe.png::natale::buon compleanno:
      :lffJF.gif::IfItZ.gif::tfiRr::e si ricomincia::io sono il capo::domenica delle palme::buon sabato::domani::b_serata::hallo::io cero::MERRY CHRISTMAS:
      :Thks6ft::00039029::0077::0JLD9fe::BvdBo::Ut4LVxK::25 aprile::befna:    
  • File Attachments

    • ForumFree Hosting   jpg gif png zip ...

      Descr.:
      Image Hosting: host it!

  •   

Last 10 Posts [ In reverse order ]

  1. Posted 9/7/2015, 00:00
    Amarcord è un film del 1973 diretto da Federico Fellini.

    La notorietà di questo film è tale che lo stesso titolo Amarcord, una contrazione della frase romagnola a m'arcord - "io mi ricordo" - è diventato un neologismo della lingua italiana, con il significato di rievocazione in chiave nostalgica[1][2].

    Il film, che uscì nelle sale italiane il 13 dicembre 1973, fu poi presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1974.[3] Il film, la cui locandina e i titoli di testa sono opera del grafico statunitense John Alcorn, è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare

    200px_Gambini_Amarcord



    Trama



    La vicenda, ambientata dall'inizio della primavera del 1932 all'inizio della primavera del 1933 (riferimento certo visto la corsa della VII edizione della Mille Miglia), in una Rimini onirica ricostruita a Cinecittà, come la ricordava Fellini in sogno, narra la vita nell'antico borgo (o e' borg, come a Rimini conoscono il quartiere di San Giuliano) e dei suoi più o meno particolari abitanti: le feste paesane, le adunate del "sabato fascista", la scuola, i signori di città, i negozianti, il suonatore cieco, la donna procace ma un po' attempata alla ricerca di un marito, il venditore ambulante, il matto, l'avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dalle forme giunoniche, i professori di liceo, i fascisti, gli antifascisti e il magico conte di Lovignano, ma soprattutto i giovani del paese, adolescenti presi da una prepotente "esplosione sessuale".

    Tra questi è messo in particolare risalto il personaggio di Titta Biondi (pseudonimo per Luigi "Titta" Benzi, amico d'infanzia di Fellini) e tutta la sua famiglia: il padre, la madre, il nonno, il fratello e gli zii, di cui uno matto, chiuso in un manicomio. Attraverso le vicende della sua adolescenza, il giovane Titta inizierà un percorso che lo porterà, piano piano, alla maturità.


    Amarcord e l'elemento autobiografico[modifica | modifica wikitesto]

    Amarcord è senza dubbio il più autobiografico dei film del regista riminese: il titolo stesso è un'affermazione e una conferma di ciò - a m'arcord "mi ricordo" - ed è proprio questo che Fellini ricorda attraverso gli occhi del suo alter ego (che per una volta non è Mastroianni, ma Bruno Zanin), il suo paese, la sua giovinezza, i suoi amici e tutte le figure che gli giravano attorno.

    L'elemento autobiografico nell'arte di Fellini, comunque, è senza dubbio quello preponderante, basti pensare a Intervista, Roma ed a I Vitelloni: quest'ultimo caso, può essere considerato il "seguito" di Amarcord: i ragazzi sono cresciuti, i problemi sono altri, ma possiamo sempre riconoscere in Moraldo, il giovane che alla fine del film abbandona il paese natale per andare a vivere in una grande città, il giovane Fellini, che abbandona Rimini verso Roma. Un'ulteriore vena di "passato" la troviamo nelle musiche del maestro Nino Rota: musiche dolci, leggere come i ricordi che accompagnano e mostrano agli occhi degli spettatori.

    1024px-Amarcord_maggio_brancia_lanigro_ingrassia


    Una scena del film con (da sinistra) Pupella Maggio, Armando Brancia, Giuseppe Ianigro e Ciccio Ingrassia

    Il ritorno di Fellini in Romagna si celebra dunque attraverso i piccoli accadimenti di una Rimini in pieno trionfalismo fascista tutt'altro che esaltato. Il ventaglio di una vita si apre nella coralità di un'opera degna del miglior Fellini, non a caso premiato con l'Oscar. Grazie alla collaborazione dello scrittore Tonino Guerra, davanti agli occhi dello spettatore sfila una ricchezza tale di volti e luoghi, divertimenti e finezze, malinconie e suggestioni, da far apprezzare il film a tutto il mondo. Attraverso i toni della commedia venata di malinconia, Amarcord distilla generosamente umori e sensazioni. Tutto ciò è riconoscibile nel film ma, come sottolinea Mario Del Vecchio, è la sostanza poetica che salta agli occhi. I protagonisti di Amarcord, e soprattutto le figure di contorno, non solo sono caricature di altrettante persone colte in un particolare momento storico; piuttosto, sono tipi universali, che vanno oltre la dimensione temporale per diventare immortali come, appunto, la poesia.

    Altri interpreti e personaggi
    Dina Adorni: Signorina De Leonardis, la professoressa di matematica
    Francesco Di Giacomo: Uomo della sicurezza al seguito dell'Emiro
    Carmela Eusepi: La figlia del conte
    Franco Magno: Il preside Zeus
    Citto Maselli: Bongioanni, il professore di scienze
    Carla Mora: Gina, la cameriera
    Lino Patruno: Bobo
    Fides Stagni: La professoressa di belle arti
    Fredo Pistoni: Colonia
    Fausto Signoretti: Il vetturino Madonna

    Nel film recita in un breve cameo, anche il cantante del gruppo Banco del Mutuo Soccorso, Francesco Di Giacomo. In una particolare scena si nota un carabiniere interpretato da Ciccio Ingrassia (che nel film recita il ruolo di Teo). Il Principe Umberto fu interpretato dall'efebico caratterista Marcello Di Falco divenuto poi Marcella Di Folco.

    Amarcord_Gradisca


    Magali Noël interpreta la "Gradisca"
    Il ruolo della "Gradisca" era stato inizialmente affidato a Edwige Fenech, ma poco prima di firmare il contratto Fellini cambiò idea, perché secondo lui Edwige, nonostante la ben nota procacità, era "troppo magra". L'attrice non riusciva a prendere chili, e quindi Fellini scelse Magali Noël, che aveva una fisicità più prorompente, ed era di 16 anni più grande.

    Nella scena del lancio di palle di neve, compare tra i bambini il futuro cantante Eros Ramazzotti[senza fonte]. Oliva, il fratello di Titta, e altri amici sono interpretati infatti da comparse prese tra i ragazzi del quartiere Cinecittà.

    Aristide Caporale (sempre nel ruolo di Giudizio), Dante Cleri, Marcello di Falco, Francesco Di Giacomo, Donatella Gambini, Franco Magno, Fides Stagni e Alvaro Vitali erano già presenti in Roma, film di Fellini precedente a questo.

    Riconoscimenti

    1975 - Premio Oscar Miglior film straniero (Italia)

    1976 - Premio Oscar Nomination Miglior regista a Federico Fellini
    Nomination Miglior sceneggiatura originale a Federico Fellini e Tonino Guerra

    1975 - Golden Globe Nomination Miglior film straniero (Italia)


    1974 - David di Donatello Miglior film a Federico Fellini e Franco Cristaldi
    Miglior regia a Federico Fellini

    1974 - Nastro d'argento Regista del miglior film a Federico Fellini
    Miglior soggetto originale a Federico Fellini
    Miglior sceneggiatura a Federico Fellini e Tonino Guerra
    Miglior attore esordiente a Gianfilippo Carcano
    Nomination Migliore attrice non protagonista a Pupella Maggio
    Nomination Migliore attore non protagonista a Ciccio Ingrassia
    Nomination Migliore colonna sonora a Nino Rota
    Nomination Migliore fotografia a Giuseppe Rotunno
    Nomination Migliori costumi a Danilo Donati

    1975 - Globo d'oro Miglior film a Federico Fellini e Franco Cristaldi

    1974 - National Board of Review Awards Miglior film straniero (Italia)

    1975 - Kansas City Film Critics Circle Awards Miglior film straniero (Italia)

    1975 - Premio Bodil Miglior film europeo (Italia)

    1974 - New York Film Critics Circle Miglior film
    Miglior regia a Federico Fellini

    1975 - Syndicat Français de la Critique du Cinéma Miglior film straniero

    1975 - Premio Kinema Junpo Miglior regia del miglior film straniero a Federico Fellini

    1976 - Círculo de Escritores Cinematográficos Miglior film straniero (Italia)

    amarcord_fellini_5_jpg_w_560_h_365

  2. Posted 15/5/2014, 00:55
    Il sorpasso
    Il sorpasso è un film del 1962, diretto da Dino Risi. La pellicola, generalmente considerata come il capolavoro del regista[1], costituisce uno degli affreschi cinematografici più rappresentativi dell'Italia del benessere e del miracolo economico di quegli anni

    locandina1


    Trama

    A Roma, la mattina del Ferragosto 1962, la città è deserta. Bruno Cortona, trentaseienne vigoroso ma nullafacente e cialtrone, amante della guida sportiva e delle belle donne, vaga alla ricerca di un pacchetto di sigarette e di un telefono pubblico. Lo accoglie in casa Roberto Mariani, studente di legge rimasto in città per preparare gli esami. Dopo la telefonata, Cortona chiede a Mariani di fargli compagnia: i due, sulla spinta dell'esuberanza e dell'invadenza di Cortona, intraprendono un viaggio in auto lungo la via Aurelia, a velocità sostenuta, che li porterà in direzione della Toscana, a Castiglioncello, raggiungendo mete occasionali sempre più distanti. Durante il viaggio verso il nord e verso il mare, arriveranno anche a far visita ad alcuni parenti di Roberto, prima, e alla figlia e all'ex-moglie di Bruno, poi.

    Il giovane Mariani sarà più volte sul punto di abbandonare Cortona, ma sia il caso, sia una certa inconfessabile attrazione, mascherata da una certa arrendevolezza, terrà unita l'assortita coppia di amici occasionali, che significherà per Roberto anche un percorso di iniziazione alla vita. Egli infatti si allontana dai miti e dai timori adolescenziali e inizia la rilettura delle sue relazioni familiari, dell'amore e dei rapporti sociali, sino alla tragica conclusione che si materializza durante l'ennesimo sorpasso avventato: l'auto si scontrerà con un camion e Mariani stesso perderà la vita. Nell'ultima inquadratura, Cortona confesserà, con candida crudeltà, ai carabinieri intervenuti, di non ricordare neppure il cognome del suo passeggero.

    Produzione

    Soggetto

    Originariamente il soggetto era stato scritto per Alberto Sordi nel ruolo di Bruno Cortona e doveva avere come titolo Il giretto[3]. La produzione passò poi a Mario Cecchi Gori che spinse per affidare il ruolo del protagonista a Vittorio Gassman, avendo a quel tempo Alberto Sordi un'esclusiva con Dino De Laurentiis.

    Rodolfo Sonego afferma [4] di essere il vero autore del soggetto che avrebbe poi venduto alla De Laurentiis. La cosa tuttavia non ebbe alcun seguito legale: né Rodolfo Sonego, né la De Laurentiis intentarono una causa, ma Sonego afferma che comunque Il sorpasso, nella realizzazione di Mario Cecchi Gori, era molto fedele al soggetto che egli aveva scritto

    ilsorpasso2


    Cast

    Intervistato nel 2012 per il cinquantenario del film, Jean-Louis Trintignant dichiarò che fu scelto lui perché assomigliava alla controfigura. In effetti Dino Risi, in un testo per L'Unità,[5] aveva raccontato così la scelta: «Cominciai il flm (…) senza sapere chi sarebbe stato il compagno di Bruno Cortona: sapevo solo che doveva essere di piccola statura, biondo e, naturalmente, giovane.» Quindi fu scelta una controfigura con queste caratteristiche. Poi il regista fece arrivare da Parigi l'attore francese, «per me sconosciuto, Jean-Louis Trintignant. Lo vidi e dissi subito: è lui. Gentile, timido, educato, era il perfetto antagonista di Gassman.» Nei titoli di testa, comunque, il nome di Trintignant viene dopo quello della Spaak.

    Una delle due turiste nel cimitero militare tedesco (di Pomezia) è Annette Stroyberg, con la quale Gassman avrà in futuro un'importante relazione sentimentale . Nella scena della partita di ping-pong in spiaggia s'intravede un ventenne Vittorio Cecchi Gori, figlio del produttore del film e futuro produttore lui stesso.

    Riprese

    800px-Catherine_Spaak_nel_sorpasso

    Catherine Spaak e Vittorio Gassman in una scena del film


    Le prime scene [8] a venir girate furono proprio quelle che aprono il film: le riprese furono effettivamente realizzate nel periodo di Ferragosto e siccome Risi non aveva ancora scelto l'interprete di Roberto Mariani, usò una controfigura, sia quando il giovane appare alla finestra, sia nella parte iniziale del viaggio, con il transito in Piazza di Spagna, Piazza del Popolo e Piazza San Pietro: le inquadrature sono sempre in campo lungo, e quando l'auto passa davanti alla macchina da presa, il figurante si copre il viso.

    Le scene iniziali del film, con Bruno Cortona che percorre in auto strade assolate e deserte di una Roma periferica, furono tutte girate nella zona detta della Balduina , il quartiere romano che negli anni Sessanta era abitato da numerosi attori e cantanti e che rappresentò un simbolo del cosiddetto boom economico. Nei condomìni borghesi di recente costruzione, infatti, convivevano impiegati statali e ricchi commercianti, avvocati e importanti imprenditori edili, spesso definiti con disprezzo palazzinari. Quando Cortona fa nuovamente una sosta, questa volta per bere a una fontanella si avvede di un giovane affacciato alla finestra.

    In realtà, come detto, colui che appare alla finestra non è Trintignant, ma una controfigura , scelta con le caratteristiche del giovane che Risi aveva immaginato, ripresa in penombra e in campo lungo; inoltre, il vero palazzo usato per l'abitazione di Mariani si trova in un altro quartiere romano, quindi il dialogo fra i due personaggi è un montaggio di scene girate in tempi e luoghi diversi, con interpreti diversi. La cosa si può capire da alcuni particolari: quando Cortona guarda in alto, la persona pare portare gli occhiali e la finestra è grande, del tipo a tre vetri, solo uno dei quali chiuso; quando è invece inquadrato Trintignant, la finestra è visibilmente più piccola, e di tipo diverso; inoltre dietro alla fontanella – che in teoria è frontale alla finestra – è tutta campagna, ma nella scena in cui Mariani vede la portinaia sul balcone dei vicini, tale balcone risulta dirimpetto alla medesima finestra.

    20111206_il_sorpasso


    La località di Castiglioncello, frazione di Rosignano Marittimo (Livorno), fu scelta da Risi su insistenza di Gassman, che vi era solito trascorrere le vacanze con la famiglia e voleva approfittarne nelle pause di lavorazione: il fatto viene riportato, fra gli altri, nel libro Una grande famiglia dietro le spalle[12] di Paola Gassman, dove l'attrice racconta che proprio per tale circostanza partecipò anche lei alle riprese, debuttando ad appena 17 anni.

    Mario Cecchi Gori, produttore del film, aveva pensato a un finale differente rispetto a quello deciso da Dino Risi, cioè quello di inquadrare i due protagonisti mentre sfrecciavano verso l'avventura, ma questo finale non fu adottato: infatti, i due avevano scommesso che se il giorno seguente all'ultima ripresa ci fosse stato bel tempo avrebbero girato il finale voluto da Dino Risi; in caso contrario avrebbero chiuso il set e adottato il lieto fine di Mario Cecchi Gori. Ma il sole di quel giorno, a detta di Dino Risi, fu bellissimo e splendente e questo comportò la scelta del finale tragico.

    Il forte taglio di critica sociale e di costume, seppure nascosto tra le pieghe comiche e divertenti della commedia, ne fa uno dei manifesti del genere cinematografico meglio conosciuto come commedia all'italiana dove compaiono alcuni innovativi e originali caratteri formali.

    attoresettimana2012_02_5


    I personaggi protagonisti di Bruno Cortona e Roberto Mariani, per esempio, superano abbondantemente la caratterizzazione macchiettistica e caricaturale della commedia. Essi risultano psicologicamente completi e definiti (il regista è laureato in medicina e specializzato in psichiatria [14]), soprattutto Trintignant, che dà vita a un ritratto molto intenso di un giovane timido, perdente, ma maturo nella sua coscienza di classe, attratto da schemi sociali di successo, ma allo stesso tempo incardinato a precisi canoni di comportamento mutuati dal proprio gruppo d'appartenenza, la piccola borghesia romana lavoratrice, che con le proprie virtù familiari si contrappone sia all'alta borghesia rampante e arrivista, sia al sottoproletariato urbano, ancora distante dai grandi processi economici.

    Il duello psicologico Cortona-Mariani , giocato sul filo dei 130 chilometri orari, è uno schema nuovo, non consueto nei film di commedia. Come è del tutto innovativo, rispetto alle altre pellicole di genere, il ricorso all'io pensante del giovane Mariani, mediante il quale veniamo a conoscenza della contraddizione tra pensiero e azione che il ragazzo vive a contatto con Cortona, e soprattutto del percorso d'iniziazione erotica e sociale che egli compie. I personaggi protagonisti, così diversi ma in egual misura positivi e negativi, si attraggono e si respingono tra loro, attraendo a loro volta gli spettatori verso due poli distinti e contrapposti d'identificazione sociale: cosa questa che li rende assai diversi dai personaggi sordiani, protagonisti tipici della commedia, accompagnati in genere da un univoco senso di sottile disprezzo o comica compassione.

    Il sorpasso segna un'ulteriore differenziazione rispetto ad altre pellicole della commedia all'italiana. In questo film la personalità artistica del regista è più marcata e presente, e non si limita alla sola partecipazione o rifinitura del soggetto. La dinamica delle scene e il succedersi dei piani sono estremamente più elaborati, e sono il frutto di una sola mente ideativa. A volte, la ripresa sfuma nel documentarismo [18], e i particolari d'ambientazione sono così definiti da somigliare quasi a un cinegiornale del tempo: così, per esempio, nella scena girata nella sala da ballo in riva al mare, quando il regista si sofferma con insistenza sui passi di twist delle comparse. Qui, il regista non è colui che si pone dietro la macchina da presa e si limita a filmare il lavoro corale di una squadra di artigiani, della quale un gruppo di geniali attori fa parte. Risi concepisce personalmente i piani-sequenza, determina a tavolino i ritmi delle scene e delle battute, e, pur lasciando ampio spazio alla creatività dell'attore, decide a priori l'incisività e lo stacco di alcune di esse. Il risultato è leggero, godibile, divertente, nello stile dell'autore, ma al tempo stesso si propone come testimonianza, documentazione e denuncia, allontanandosi molto dai confini della commedia. In alcuni momenti, come quando il giovane studente tenta di salire su un mezzo pubblico nel porto di Civitavecchia, la rappresentazione sociale diventa ultra-realistica, pressoché pasoliniana.

    800px-Crocco_Il_Sorpasso


    Il sorpasso risulta quindi, come suggerisce del resto il suo stesso titolo, un film assai veloce e ritmato su precisi spunti di accelerazione, e le battute memorabili di Vittorio Gassman chiudono i tanti siparietti che nella pellicola si aprono e si chiudono con continuità, schema questo che ha assai poco di teatrale e molto di cinematografico.

    Altri elementi formali fanno del film un'importante novità. La pellicola infatti è considerata da alcuni un vero road-movie ("pellicola di strada"), il primo del genere in Italia, poiché è strutturale il legame che viene vissuto con la strada nello svilupparsi della vicenda narrativa. È la strada, nel suo rapporto attivo e passivo coi due protagonisti, che segna il percorso del soggetto da un punto di partenza preciso (la Roma deserta di un ferragosto qualunque) sino alla tragica curva di Calafuria, poco dopo il paese di Quercianella, sul lungomare toscano.

    « ... Ogni incontro è effimero, breve tappa di un viaggio senza meta che li spinge poi a risalire sempre in macchina, strumento di deriva e di fuga da una realtà che nonostante tutto continua a opporre la sua resistenza...»

    I Cortona e i Mariani si allontanano brevissimamente dalla strada ma a essa fanno sempre ritorno, ed è la strada, appunto, la rappresentazione scenica di una nazione che si avvia velocemente alla fine di un sogno, quello del benessere collettivo e generalizzato. Il salto che l'autovettura compie nel vuoto, tra lo sguardo incuriosito di bagnanti distratti, è puro simbolismo. Come sono carichi di simboli la vita spezzata del giovane onesto e ingenuo e il pericolo invece scampato dal suo alter-ego Cortona. Essi rappresentano due identità della nazione, giunta a un bivio della propria storia. La prima, quella legata ai princìpi, sarà sedotta e morirà, nella fine di un sogno, lasciando campo libero alla seconda Italia, quella furbesca, individualista e amorale. È forse questa vena pessimistica, questa profonda sfiducia in un certo tipo di uomo italiano, nelle sue reali possibilità, in certi tratti ricorrenti della storia della nostra nazione, e questa critica dura alle sue abitudini e alla sua mentalità, che ricollega il film a quel genere, detto appunto commedia all'italiana, del quale è ritenuto da molti un capolavoro.

    Sorpasso1962


    La Lancia Aurelia nell'episodio finale dell'incidente


    Occorre spendere qualche parola in più sui simbolismi che intorno alla strada si raccolgono. Non a caso è la Via Aurelia [20] il percorso lungo il quale la vicenda si snoda, l'arteria consolare che esce da Roma e si dirige pigramente verso le riviere di Fregene e dell'alto Lazio, perché è questa la strada che più di altre nel corso degli anni sessanta ha rappresentato un mito collettivo e generazionale: una strada verso la vacanza, l'evasione, il benessere in molteplici rappresentazioni. L'Aurelia ha rappresentato, in certo qual modo, una sintesi sociale. Il suo percorso, muovendo dal centro della città, attraversava dapprima i quartieri borghesi della capitale in crescita, sorti a ridosso del centro storico di Roma, quindi sfiorava le borgate popolari ancora fatiscenti, e, correndo velocemente tra le ultime contrade agricole della bonifica laziale, raggiungeva le spiagge popolari della riviera o i piccoli centri delle facoltose Fregene, Santa Marinella, e via via su sino a Capalbio, tra un fiorire di urbanizzazioni selvagge e abusive. La civiltà che i protagonisti incontrano nel loro viaggio è quindi davvero uno spaccato trasversale di quella società romana che collettivamente si metteva in moto ogni domenica per celebrare il rito della festa, tra soste alle stazioni di servizio, lunghe code d'automobili e incidenti frontali.

    Anche l'automobile, una Lancia Aurelia B24 (l'analogia tra il nome della spider e la via consolare non può, anche questa volta, esser casuale) riflette un simbolismo radicale . La macchina, infatti, era uscita dalle officine nel 1956 e rappresentava allora il prototipo di un'idea di eleganza e raffinatezza, ma ben presto si trasformò nell'ideale dell'automobile aggressiva, prepotente, truccata nel motore e negli allestimenti. In alcune scene del film la si scorge infatti in questa sua immagine. La fiancata destra mostra ancora le lavorazioni di un'officina di carrozziere, le riparazioni non ancora riverniciate, le cicatrici che dovevano testimoniare le battaglie sostenute dall'auto e dal suo pilota. Dino Risi sceglie non casualmente una Lancia Aurelia, poiché essa rappresenta proprio la corruzione di un'idea, quella fiducia nel miracolo economico che con gli anni andrà a finire in Italia, lasciando il posto a una società divisa e contraddittoria, nella quale solo i cialtroni opportunisti, come Cortona, e i loro pseudovalori morali diventeranno i soggetti protagonisti di un benessere sociale.

    La colonna sonora è curata da Riz Ortolani; ma le scene più importanti del film vivono invece su alcuni motivi musicali tra i più in voga in quel periodo: St. Tropez Twist di Peppino di Capri, Guarda come dondolo e Pinne fucile ed occhiali di Edoardo Vianello, Vecchio frac di Domenico Modugno e Don't Play That Song (You Lied) di Ben E. King, nella versione cover cantata da Peppino di Capri. La trovata può sembrare oggi banale ai più, ma a quel tempo era molto originale, e fu usata come ulteriore caratterizzazione del personaggio e determinazione del contesto.

    Il sorpasso uscì in Francia col titolo Le Fanfaron e negli Stati Uniti con il titolo The Easy Life. In America, il film "diventò un fenomeno di culto"[23]: Dennis Hopper, il regista del cult movie Easy Rider si è ispirato a Il sorpasso per scrivere il suo soggetto considerato il capolavoro (nonché il capostipite) dei road movie[23].

    Il film non fu accolto con un grande successo di critica. Dino Risi racconta che alla prima erano presenti solo 50 persone [24]. Il successo di pubblico arrivò lentamente grazie al passaparola degli spettatori che avevano assistito alla proiezione. Gli incassi successivi furono eccezionali, il film infatti costò una cifra superiore ai 300 milioni di lire e ne incassò poco meno di due miliardi. La consacrazione della critica arrivò solo in tempi successivi, dopo la metà degli anni ottanta. Il sorpasso fu un successo non solo italiano ma internazionale, tanto che in Argentina alcuni credono che "sorpasso" significhi "spaccone".

    Incassi


    Incasso accertato sino a tutto il 30 giugno 1965 Lit. 1.182.686.541.

    Critica

    « Il sorpasso è un film ben narrato, pieno di notazioni acute e vivaci, ma invaso da un Vittorio Gassman eccessivo come sempre... »
    (Leandro Castellani in Rivista del Cinematografo del 1º gennaio 1963)

    « [...] in un certo senso, quindi, Risi ha sfidato le consuetudini e ha effettuato una sorta di esperimento addirittura sulle clausole e sul corpus vile, del film leggero italiano, da un lato incatenando lo spettatore e dall'altro piegando il film alle proprie esigenze, non tanto di messaggio, quanto di spirito e di umanità. Gassman ha contribuito in maniera rilevante a più di un risvolto del personaggio, che non è esente, nella costruzione e nell'interpretazione, da precise venature autobiografiche... »
    (Giacomo Gambetti su Bianco e nero del 1º gennaio 1963)

    Premi e riconoscimenti
    L'interpretazione valse a Vittorio Gassman un Nastro d'argento e un David di Donatello.
    Il film è stato anche inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, "100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978".

    i003578


    Citazioni e riferimenti
    Nell'episodio finale del film Se permettete parliamo di donne di due anni dopo, Vittorio Gassmann guida un'auto spyder similare a quella utilizzata ne Il sorpasso, il cui clacson emette lo stesso suono, in un'evidente autocitazione del personaggio protagonista di questa pellicola.
    Nel programma televisivo Il caso Scafroglia, trasmesso dalla televisione italiana nel 2002, Corrado Guzzanti realizzò una parodia del film, utilizzando come personaggi principali Umberto Bossi (Bruno Cortona) e Giulio Tremonti (Roberto Mariani).

    Curiosita

    Quando Mariani in auto inserisce il disco Vecchio frac di Domenico Modugno, sull'etichetta c'è scritto "Zebra Film Natale 1961"; e il titolo della canzone è "L' amour et la guerre" dal film di Claude Autant-Lara Non uccidere, differente quindi da Vecchio frac.
    Prima della lunga sosta alla stazione di servizio per fare il pieno di “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana”, si vede svariate volte il simbolo dell'Agip («cane a 6 zampe, amico fedele dell'uomo a 4 ruote» dice Cortona), che è in pratica l'unica società petrolifera riconoscibile nel film.

    800px-CINECITTA9549



    La Lancia Aurelia B24, superstite, usata nel film Il sorpasso esposta a Cinecittà nel 1995 per il centenario del cinema



    La scena del pranzo nel porto a Civitavecchia, mentre Mariani racconta a Cortona un episodio con la vicina di cui è invaghito, è un concentrato d'errori di continuità: infatti, il personaggio di Gassman mangia, beve e fuma contemporaneamente, ma il montaggio di campi e controcampi non è dei più precisi, sia per la posizione dei bicchieri sia per i gesti dell'attore. In particolare, quando Cortona è inquadrato di fronte beve da un bicchiere (il più esterno), mentre quando è inquadrato di spalle usa l'altro (quello di Mariani); inoltre, nell'alternanza di inquadrature, beve appena dopo aver posato il bicchiere, e quando lo posa di nuovo appare improvvisamente con la sigaretta fra le dita della stessa mano...
    Il monte Fumaiolo citato da Roberto Mariani è impossibile da vedersi dalla maremma grossetana, in quanto il monte si trova nell'Appennino. In realtà esiste un monte Fumaiolo anche in provincia di Viterbo, al confine con quella di Grosseto, e quindi visibile da tali zone (fonte Atlante stradale d'Italia Esso). Forse Mariani vuol fare una specie di scherzo a Cortona, inducendolo a credere che sia il Fumaiolo dove nasce il Tevere, ma che, di fronte alla risposta tranchant di Cortona, avrebbe lasciato cadere la cosa.
    Curioso anche il riferimento alla madre del Duce, Rosa Maltoni, nome che oggi passa inosservato ai più, ma che quando fu girato il film, 17 anni dopo la Liberazione, era ancora ben noto: « una maestrina, si chiamava Rosa Maltini – Maltini eh, non Maltoni!...» precisa Cortona.
    Dopo la rissa nel locale notturno, Gassman seduto al tavolo lasciato libero dal “commendatore” risucchia in un sol colpo quasi un intero creme-caramel: dodici anni dopo esibì questa sua abilità in una storica puntata di Canzonissima presentata da Pippo Baudo



  3. Posted 15/10/2013, 04:44
    La Dolce Vitastreaming film completo QUI

    La-Dolce-Vita-Poster-1



    Trama del film La dolce vita:

    Marcello è un giornalista che scrive per un rotocalco articoli mondani, in cui figurano persone efatti noti nell'ambiente di Via Veneto. L'attività professionale lo ha portato ad adottare un sistema di vita molto simile a quello dei suoi personaggi. Così egli passa con indifferenza da una relazione all'altra: mentre convive con Emma non rinunzia ad altre avventure. Ha una temporanea relazione con Maddalena, giovane ricchissima, annoiata della vita, sempre in cerca di sensazioni. L'arrivo di Sylvie, celebre attrice americana, gli fornisce occasione di nuove esperienze sentimentali. Per dovere professionale Marcello si occupa di una falsa apparizione della Madonna, inventata da due bambini dietro istigazione dei genitori. Partecipa ad una festa organizzata da alcuni membri della nobiltà che gli dà modo di accertare il basso livello morale di quell'ambiente. Marcello è amico di Steiner, un intellettuale che riunisce nel suo salotto artisti e letterati. La felice vita familiare dell'amico lo impressiona favorevolmente visto che accarezza l'idea di sposare Emma per iniziare con lei un'esistenza più regolare e tranquilla. Ma qualche tempo dopo Marcello apprende che Steiner, in una crisi di sconforto, si è ucciso, dopo aver soppresso i suoi due bambini. Per superare l'orrore destato in lui dal tragico fatto, Marcello, si getta, senza alcun ritegno, nel turbine della vita mondana. Dopo un'orgia, che ha lasciato in tutti tedio e disgusto, Marcello incontra per caso sulla spiaggia una giovinetta dallo sguardo limpido e innocente, e cerca invano di capire quanto ella gli dice; un canale li divide e non afferra le sue parole, perciò segue i suoi squallidi amici.


    LaDolceVita_1


    CO25


    1055032-ekberg_trevi


    dolce_vita


    la-dolce-vita-Anita



    Trailer

    [IMG][/IMG]


    (Drammatico Streaming), (Drammatico VK), (L Aggiornato), (VK), -Solo Streaming, -Streaming, 1960 Aggiornato, Drammatico Aggiornato, Italia » La dolce vita [B/N] (1960)
  4. Posted 17/9/2013, 23:02
    Pane, amore e fantasia
    Pane, amore e fantasia è un film del 1953 diretto da Luigi Comencini.

    Primo episodio della tetralogia "Pane, amore e...", il film offre un affresco dell'Italia di provincia del dopoguerra. Gli altri sono Pane, amore e gelosia (1954), Pane, amore e... (1955) di Dino Risi e Pane, amore e Andalusia (1958) di Javier Setò.

    280px-Pane_amore_e_fantasia



    Trama

    Il film narra delle vicende di Sagliena, un paesino dell'Italia centrale, nell'immediato dopoguerra[1]. Qui è stato trasferito il maresciallo Antonio Carotenuto (inizialmente fu scelto Gino Cervi[2]), donnaiolo attempato che dovrà adattarsi alla monotona e tranquilla vita di paese. Supportato dalla domestica Caramella, il maresciallo dirige la locale stazione dei carabinieri. Nel paese spiccano i personaggi della Bersagliera, segretamente innamorata del carabiniere Stelluti e quello della levatrice Annarella, che alla fine si fidanzerà col maresciallo.

    pane-amore-e-fantasia


    Il titolo è tratto da una delle battute del film. De Sica si rivolge a un contadino seduto su un gradino intento a mangiare: De Sica: «Che te mangi?»
    Contadino: «Pane, marescià!»
    De Sica: «E che ci metti dentro?»
    Contadino: «Fantasia, marescià!!»

    la-lollo-in-pane-amore-e-fantasia-1953-120600


    Produzione

    L'idea di girare questa "commedia paesana" nacque casualmente da un incontro tra il regista Comencini, tornato da poco dalla Svizzera dove aveva girato un film per ragazzi sulla bambina Heidi, e lo scrittore Ettore Maria Margadonna, che aveva da poco pubblicato una serie di ritratti di personaggi tipici dell'Abruzzo: il maresciallo, la levatrice, il sindaco ecc.: Comencini volle trarre una commedia agrodolce da questo romanzo. Come protagonista del film fu individuato l'attore Gino Cervi; il titolo di lavorazione era "Pane e fantasia". Il soggetto fu rifiutato da diversi produttori perché considerato lesivo dell'onore del corpo dei Carabinieri; intervenne quindi il produttore Marcello Girosi, amico di Vittorio De Sica, che ottenne il beneplacito dell'Arma dei Carabinieri a condizione che il protagonista fosse proprio De Sica[3].
    Il film è stato restaurato da Philip Morris Progetto Cinema in collaborazione con Fondazione Scuola Nazionale di Cinema Cineteca Nazionale e con Titanus, direttore del restauro Giuseppe Rotunno AIC-ASC

    fantasia%2023


    Riconoscimenti


    « La vicenda che stiamo per raccontarvi è immaginaria. Ma è tuttavia una vicenda umana. I personaggi la vivono in veste di Carabinieri, ma non per questo cessano di essere uomini e, come tali, sentono, amano e soffrono al pari di tutti voi. Quando però la loro umanità trascende i limiti delle norme disciplinari inderogabili, sanno ritrovare sé stessi, com’è nella loro tradizione che è il patrimonio luminoso dell’Arma »



    (Didascalia iniziale)


    Gina Lollobrigida ha vinto il Nastro d'Argento alla migliore attrice protagonista.

    Nel 1954 il National Board of Review of Motion Pictures l'ha inserito nella lista dei migliori film stranieri dell'anno.

    Orso d'argento a Berlino 1954. Il film fu nominato nella categoria Miglior Soggetto agli Oscar del 1954.

    Il film fu un grande successo in Francia con 3.865.980 spettatori.

    Le scene del film furono girate a Castel San Pietro Romano (Roma) nell'estate del 1953.

    Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare].

    jpg


    vlcsnap2404691km9
    pane_amore_e_gelosia_vittorio_de_sica_luigi_comencini_006_jpg_wwek
    hqdefault
    donna
    Gina+Lollobrigida+in+%2527Pane%252C+amore+e+fantasia%2527

  5. Posted 19/2/2013, 18:40
    Cinema neorealista italiano e la sua eredità



    ladridibiciclette


    La breve stagione del Cinema neorealista italiano e la sua eredità, è lodata e amata da tutto il pubblico italiano e straniero. Un cinema che si affaccia sulla modernità, che sente l'urgenza di esprimere le nuove condizioni del mondo, scosso da due guerre mondiali sanguinose e devastanti.

    La stagione del Cinema neorealista italiano e la sua eredità affonda le sue radici nella cinematografia fascista degli anni ’30 -’40, che usa il cinema come veicolo di propaganda e di controllo sociale. In questi anni, moltissimi intellettuali di vari schieramenti politici, tra cui Pavese, Gadda, Pratolini, Zavattini, Ungaretti, Buzzati, De Santis, Antonioni, auspicano a un rinnovamento culturale e a un cinema più realistico e sgombro da ogni ideologia. Ma la tensione verso il realismo rimane un’aspirazione insoddisfatta, che non ce l’ha fatta ad affermarsi a causa del regime fascista.

    Una piccola, ma significativa “speranza” arriva dal cinema di guerra italiano, lontano da ogni trionfalismo. Si realizzano film più veri, con scene di guerra dure e ingrate, si colgono i soldati nella loro realtà tragica. Si filma un mondo e un’umanità disperata e sofferente.

    Cinema neorealista italiano e la sua eredità



    Il contesto sociale e politico, così delicato, degli anni del secondo conflitto, porta in modo inevitabile a quello che sarà il Neorealismo italiano. Significativa è l’ultima fase della guerra, durante la salita degli Alleati anglo-americani in Sicilia che intende liberare il Nord-Italia nazifascista.

    Anni dominati dal caos più totale, che si riflettono nella letteratura e nel cinema. Città senza governo, massacri, rastrellamenti, guerra civile al Centro-Nord tra partigiani e nazifascisti, portano a un’inesorabile perdita di ogni sicurezza. E’ proprio in questo contesto vuoto e confuso che nascono i film neorealisti, primo fra tutti “Ossessione” (1943) di Visconti.



    IL NEOREALISMO (1945-1948) :



    Il Cinema neorealista italiano simboleggia un evento ineluttabile, nato dalle macerie della seconda guerra mondiale, che porta con sé una nuova percezione del mondo. Urla, ed esprime, tutto il senso tragico della realtà che caratterizza quegli anni. Perché tutto è cambiato, e niente potrà tornare come prima. Due guerre mondiali che hanno cambiato gli uomini e il mondo.

    I maestri della breve stagione del Cinema neorealista danno vita ai migliori film italiani, mai prodotti fin’ora.
    •Rossellini ne è il padre, con film straordinari sul senso misero della vita: primo fra tutti “Roma città aperta” (1945) , “Germania anno zero” e “Paisà” .
    • Luchino Visconti con “Ossessione” (1943), un melodramma noir di due amanti, Gino e Giovanna, durante la guerra, ci restituisce l’immagine di un realismo di sofferenza e di miseria.
    • Vittorio De Sica col suo cinema povero, ma denso di umanità, come traspare in “Ladri di biciclette” (1948) , una pellicola amara sulla miseria di Roma, coi suoi quartieri poveri e malfamati, fatta di persone disperate e sul lastrico, che racconta di un uomo a cui viene rubata la bicicletta con la quale lavorava.



    Il Cinema neorealista italiano e la sua eredità si caratterizzano da una narrazione frettolosa, confusa e incerta, ma piena di sentimento, di umanità e di idee nuove. Si hanno a cuore le tematiche sociali, si cercano attori veri ed espressivi, anche se delle volte si ricorre alla gente comune. Il regista scende in piazza per osservare e poi mostrare la realtà nuda e cruda. Si filma in ambienti reali, non ricostruiti in studio, com’è solito fare dal cinema hollywoodiano classico. A livello tecnico ci si avvale dello sguardo in macchina (l’attore è come se si rivolgesse allo spettatore, attraverso delle domande o delle affermazioni, il cosiddetto “effetto di interpellazione”) , e della soggettiva (la cinepresa è coinvolta dentro i fatti) .

    Una stagione che precorre la modernità: il Cinema neorealista come cinema dello sguardo, che descrive la vita quotidiana, riflette, pensa e cerca l’attenzione dello spettatore. Un punto di riferimento per il futuro cinema moderno, che a partire dagli anni ’60, prenderà piede in Europa, grazie alla “Nouvelle Vague” francese, in America e nel resto del mondo.



    L’EREDITA’ NEOREALISTA: IL “RINASCIMENTO ITALIANO”



    L’eredità del Cinema neorealista italiano viene raccolta nel cosiddetto “Rinascimento cinematografico italiano” che si ha negli anni ’50- ’60, quando si parla anche di “miracolo economico”. L’ Italia passa da paese agricolo a industrializzato, entrando tra i sette paesi più ricchi al mondo. Il popolo italiano è desideroso di cultura e di un cinema di qualità. Un autentico “Rinascimento”, in quanto sono anni in cui il cinema diventa l’arte più propizia. E l’Italia ha forse il cinema migliore del mondo.



    Le due stagioni che caratterizzano il “Rinascimento italiano” sono:
    •la cosiddetta “Commedia all’italiana”, sviluppatasi dopo il 1955, con autori di grande respiro come Risi, Comencini ,Monicelli, De Sica, che rinnovano il genere comico con una formula vincente e di grande successo. Si prendono personaggi popolari e veri. Si filma in città vere e piene di vita.C’è la riscoperta del teatro popolare italiano, in particolare della commedia dell’arte, con la quale si vanno a recuperare le maschere antiche, che vengono “cucite” addosso ai nuovi attori italiani.E’ il caso di talenti come Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Alla base dei film sfornati dagli autori comici di questo periodo, c’è la critica alla nuova ricchezza italiana, attraverso un’ironia spesso malinconica. E c’è la satira del “boom economico”, del consumismo e delle facili fortune. Due aspetti che demoliscono le illusioni del benessere e indirizzano lo sguardo verso la tragedia che sta sempre in agguato dentro la fortuna.
    • il “Cinema d’autore nuovo” si sviluppa a partire dagli anni ’60, ed è suddiviso in due generazioni: la prima composta da autori che hanno già avuto un’esperienza neorealista e che sono andati oltre il Neorealismo, come Rossellini, Fellini (“La dolce vita” , “Otto e mezzo”) Visconti (“ Senso”, “Il gattopardo”, “Morte a Venezia”) e Antonioni (“L’avventura”) . La seconda generazione è formata da giovani autori che esordiscono negli anni ’60, come Pasolini, Ferreri, Bertolucci, Bellocchio e Olmi che realizzano pellicole spesso ambigue e difficili da capire, dove spesso e volentieri le città diventano le protagoniste del film.



    Il Cinema neorealista italiano e la sua eredità con la sua propaggine è forse la più alta tendenza cinematografica che noi italiani abbiamo mai avuto, e che mai avremo.

    Ha saputo raccontare come nessun altro la tragica realtà di un Paese devastato dal secondo conflitto mondiale e di una popolazione ridotta allo stremo, ma anche la grande umanità e volontà di riscatto che il popolo italiano è stata in grado di dimostrare. Un orgoglio targato casa nostra, lodato e apprezzatissimo anche all’estero.
  6. Posted 4/12/2012, 23:08

    locandina-ladolcevita



    La dolce vita è un film del 1960 diretto da Federico Fellini, vincitore della Palma d'oro al 13º Festival di Cannes e vincitore dell'Oscar per i costumi.

    È uno dei film più famosi della storia del cinema. Viene solitamente indicato come il punto di passaggio dai primi film neorealisti di Fellini ai successivi film d'arte.

    ladolcevita-fontana-di-trevi


    Sintesi:


    Marcello Rubini è un giornalista romano che si occupa di servizi scandalistici, ma coltiva l'ambizione di diventare scrittore. Marcello, cinico e disincantato, è protagonista di sette episodi che narrano la «dolce vita» della Roma a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta.

    Nel primo episodio due elicotteri sorvolano Roma. Il primo trasporta una statua del Cristo, mentre sul secondo si trova Marcello, col fotoreporter Paparazzo, che probabilmente deve scrivere un pezzo sull'avvenimento. I due elicotteri trasvolano un antico acquedotto romano, poi un quartiere popolare seguiti da un gruppo di bambini vocianti, indi si alzano in quota sopra la città, permettendo di osservare i tanti cantieri della capitale, in pieno boom edilizio. I due velivoli passano infine sopra una terrazza. sulla quale prendono il sole alcune ragazze in costume; l'elicottero di Marcello e Paparazzo si sofferma sopra la terrazza ed i reporter tentano di abbordare le ragazze, le quali chiedono dove portino la statua. Il rumore dell'elicottero però copre le loro voci, Solo una comprende che la destinazione del Cristo è il Vaticano, quindi Marcello chiede il numero di telefono alle ragazze che, divertite, glielo negano. Il volo degli elicotteri termina su piazza San Pietro, affollatissima, dove suonano le campane a festa.

    Nella seconda sequenza, Marcello si trova in un locale in stile orientale, per un servizio su una famiglia reale che vi sta mangiando. Mentre Marcello corrompe uno dei camerieri del locale per conoscere i piatti che i principi hanno mangiato, Paparazzo, su indicazione di Marcello, inizia a scattare foto ad una nobile in compagnia di un giovane. Le guardie del corpo intervengono, allontanando il reporter e intimandogli di consegnare il rullino. Uno degli avventori, seduto ad un tavolo con due donne, riconosce Marcello, lo invita a raggiungerlo e gli intima di smettere di creare scompiglio con la sua attività di paparazzo. Al locale arriva una bella donna, Maddalena; Marcello la invita a ballare e a bere, ma lei rifiuta. La donna decide di andarsene; Marcello si offre di accompagnarla, e lei accetta; i due escono dal locale e vengono bersagliati dai flash dei fotoreporter colleghi di Marcello. La coppia si ferma con l'auto in Piazza del Popolo; dopo una chiacchierata incontra una prostituta e Maddalena la invita a seguirli in un giro in auto per poi accompagnarla verso casa, in periferia. Arrivati alla casa della prostituta, ai Cessati Spiriti, Maddalena e Marcello si fanno preparare un caffè. Mentre la prostituta è in cucina, Maddalena e Marcello si accomodano su un letto e fanno l'amore. La mattina dopo il protettore della prostituta sosta davanti la casa per ricevere il denaro della prestazione; Marcello e Maddalena se ne vanno in macchina dopo aver pagato la donna. Nel frattempo Emma, la depressa fidanzata di Marcello che sa dei tradimenti del partner, sta aspettando il compagno a casa. Poiché egli è in ritardo, ella inghiotte delle pastiglie andando in overdose. Marcello la porta quindi in ospedale dove Emma si salva. Mentre aspetta che Emma si riprenda, Marcello chiede ad una suora di poter fare una telefonata: chiama Maddalena ma lei, addormentata sul suo letto, non risponde.

    Nella terza sequenza Marcello è incaricato di seguire nella capitale l'attrice Sylvia, famosa stella del cinema. Marcello intrattiene Sylvia in un locale frequentato da turisti stranieri, il «Caracalla's», un locale in stile pseudo-antico. Marcello fa le prime avances all'attrice. Uscita dal locale molto euforica, Sylvia inizia a passeggiare per le vie di Roma seguita da Marcello e quando vede la fontana di Trevi vi si immerge iniziando una leggiadra danza. Marcello entra a sua volta nella fontana, vincendo la propria timidezza, dichiarandosi innamorato della donna. Quando la riaccompagna in hotel incontra però il fidanzato di lei che, non gradendo le attenzioni riservatele, prima schiaffeggia Sylvia ed in seguito affronta Marcello, stendendolo con un pugno; il tutto davanti ai fotografi che immortalano la scena.

    Nel seguente episodio Marcello è nel quartiere Cinecittà per un servizio fotografico quando davanti alla chiesa di Don Bosco scorge il vecchio e stimato amico Steiner. Steiner si interessa su come stia procedendo la stesura del suo libro ed il giornalista afferma che è quasi finito e che presto glielo farà leggere; quindi lo scrittore elogia Marcello per un articolo che ha scritto e che gli è piaciuto molto, quindi lo invita a cena. Prima di lasciarsi, Steiner invita Marcello a rimanere un poco di tempo ad ascoltarlo mentre suona l'organo con l'assenso del prete, amico di Steiner; lo scrittore si cimenta nella Toccata e Fuga in Re minore di Bach.

    Intanto il popolo romano è in preda ad un episodio di fanatismo collettivo intorno a due bambini che dicono di aver visto la Vergine Maria in un prato fuori città. Marcello accorre per scrivere un pezzo, ma la sua attenzione è distolta dalla fidanzata Emma, che è risentita con lui perché si sente ormai messa in disparte. Alla sera inizia a diluviare ed inizia una calca in cui la folla si contende almeno un pezzo di legno dell'albero vicino al quale è apparsa la Madonna. Tra la folla impazzita c'è anche Emma, che riesce a prendere un ramo, sperando in un aiuto divino che faccia in modo che Marcello le dimostri più attenzione, e finalmente la sposi.

    Nell'episodio seguente Marcello si reca con Emma a casa di Steiner per trascorrere una serata con una eterogenea compagnia. Qui Marcello conosce la famiglia dello scrittore, della quale fanno parte anche due graziosi bambini. Steiner propone a Marcello di presentargli un editore, cosicché il giornalista possa dedicarsi a quello che più gli piace e non dover scrivere per i rotocalchi di gossip.

    Nell'episodio seguente Marcello è in una trattoria sul mare, dopo l'ennesima lite al telefono con Emma, si siede sotto un pergolato per scrivere a macchina; la musica dal juke box è troppo alta e chiede bruscamente alla giovane cameriera di chiuderla. Poi, come rendendosi conto che anche senza musica non riesce a scrivere, Marcello attacca discorso con la ragazzina che sta apparecchiando i tavoli: si chiama Paola, è originaria dell'Umbria, le piacerebbe imparare a scrivere a macchina. Marcello prova una simpatia e tenerezza per le semplici aspirazioni di quella ragazzina.

    Un'altra scena del film vede Marcello ricevere la visita del vecchio padre, riminese. I due si incontrano in un caffè all'aperto di Via Vittorio Veneto, poi decidono di andare in un night insieme a Paparazzo. Nel night incontrano Fanny, ballerina francese conoscente di Marcello. Dopo aver bevuto, i quattro escono dal locale assieme a due ballerine; Paparazzo e Marcello stanno con loro, mentre il padre è invitato da Fanny nell'appartamento della ragazza. Poco dopo però Fanny chiama Marcello: il padre si è sentito male, forse per il troppo bere. In seguito, il padre annuncia al figlio che partirà subito per casa, anche se Marcello vorrebbe che rimanesse ancora presso di lui.

    L'episodio successivo si svolge in un castello nel viterbese: c'è una festa dell'alta società organizzata da una famiglia della nobiltà romana. Al party Marcello incontra Maddalena. Dopo il party i partecipanti al ricevimento esplorano l'abitazione abbandonata limitrofa al castello. Maddalena porta Marcello al centro di una stanza e quindi si dirige in un'altra ala della villa, da cui si può comunicare con la stanza dove si trova Marcello tramite un gioco di echi. Maddalena chiede quindi a Marcello di sposarla, ma mentre Marcello risponde all'eco arriva uno dei nobili che inizia a baciare Maddalena, che non risponde più all'eco di Marcello.

    Nella scena seguente Marcello ed Emma sono in macchina fermi a litigare. Emma si lamenta con Marcello del trattamento di sufficienza da parte del compagno, e lo accusa di non voler bene a nessuno e di pensare solo alle varie donne che incontra; lui si lamenta invece che la donna è la sua croce, che è egoista e che i suoi ideali, cioè quelli tradizionali dell'amore di una coppia sposata e di una vita semplice, sono squallidi e piatti ed afferma come un uomo che vive così in verità sia un uomo morto. Marcello esorta Emma ad andarsene dalla sua vita, ma ella rifiuta; lui la fa uscire dalla macchina con la forza schiaffeggiandola mentre lei lo morde ad una mano. Marcello scappa via con la sua macchina lasciando Emma da sola. La mattina dopo Emma e ancora lì in piedi; Marcello arriva, la fa salire in auto, ed entrambi si dirigono verso casa.

    I due stanno dormendo nel letto quando squilla il telefono; la chiamata è per Marcello e porta una notizia terribile: Steiner ha ucciso i suoi due figlioletti, togliendosi poi la vita. Marcello raggiunge l'appartamento dell'amico scrittore, e la polizia lo fa entrare in quanto amico del suicida. Il palazzo è assediato dai paparazzi; Marcello accompagna il brigadiere a prendere la moglie di Steiner alla fermata dell'autobus per annunciarle la terribile notizia. I due raggiungono la fermata e fanno salire in macchina la donna per raccontarle l'accaduto, mentre uno stuolo di fotoreporter immortala la scena.

    Un altro party cui partecipa Marcello si tiene in una villa sul mare, a Fregene, concludendosi con uno spogliarello collettivo. L'ultima scena del film si svolge sulla spiaggia antistante la villa, dove viene rinvenuta, morta, all'alba, una manta. Sulla riva Marcello sente una voce che lo chiama: è Paola, l'innocente ragazzina conosciuta per caso nella trattoria, che si trova al di là di un fiumiciattolo d'acqua. Marcello si volge verso di lei ma, pur non essendo lontano, a causa del rumore del mare, non riesce a udirne le parole. Lei gli fa dei gesti per farsi capire, ma è inutile. Marcello alza la mano per un ultimo saluto e si allontana per raggiungere il suo gruppo. La ragazzina lo segue allontanarsi.





    I video sono ospitati da youtube e noi ci limitiamo a mettere un codice.
    Dato che non siamo noi a caricare i video e non sappiamo se chi li ha caricati ha il permesso per farlo, puó succedere che i video vengano cancellati da youtube .
  7. Posted 6/2/2012, 17:41
    LILI MARLEEN - Fassbinder (Trama, commento, video con Hanna Schygulla, Lale Andersen e Marlene Dietrich )
    lili marleen


    Ambientato durante il Terzo Reich, a Zurigo, nel 1938
    Trama:Zurigo, 1938. Willie Guntenberg, giovane cantante di cabaret in cerca di successo, sentimentalmente legata all'ebreo Robert Mendelsson, il cui padre aiuta i correligionari a espatriare dalla Germania, incontra il generale tedesco Henkel, che le promette, se la ragazza torna in patria, di farle far carriera. L'occasione di mantenere la parola gli si presenta ben presto poiché il padre di Robert, scoperta la relazione del figlio con un'ariana, per di più tedesca, fa sì che a Willie venga proibito dalle autorità l'ingresso in Svizzera. Willie esordisce, nel locale in cui Henkel le ha trovato occupazione, con la canzone Lilì Marleen, composta per lei dal suo amico musicista Hans Taschner. Mediocre cantante, Willie non ha molto successo; questo arriva, però, quando la sua canzone, incisa su disco, viene trasmessa da "Radio Belgrado", l'emittente nazista destinata ai soldati tedeschi. Se Goebbels condanna Lilì Marleen, definendola "una caramella col sapore di una danza macabra", Hitler, invece, vuole conoscere Willie e le fa dono di un appartamento, in cui la giovane si trasferisce con Hans. Un giorno, Robert si rifà vivo e, per incontrarlo, Willie rifiuta un invito di Henkel, che la fa pedinare. Robert viene arrestato dalla Gestapo e per esser certi che la ragazza non ne abbia colpa, gli amici del giovane ebreo chiedono a Willie di fornirgli notizie sui campi di sterminio nazisti in Polonia. Le SS scoprono che la ragazza collabora con la Resistenza, ma in grazia della sua popolarità si limitano a vietare la sua canzone; Hans viene spedito a combattere sul Fronte Orientale. Durante un incontro organizzato dai suoi carcerieri Robert rivede Willie, ma i due debbono fingere di non conoscersi; si riparleranno per telefono quando Robert, grazie ad uno scambio organizzato dal padre, avrà ottenuta la libertà. Si ritroveranno, infine, a guerra finita, ma sarà troppo tardi, poiché Robert, diventato un famoso direttore d'orchestra, avrà sposato una sua compagna di infanzia, Marika.

    REGIA: Rainer Werner Fassbinder
    SCENEGGIATURA: Rainer Werner Fassbinder, Joshua Sinclair, Manfred Purzer
    ATTORI: Karin Baal, Hark Bohm, Mel Ferrer, Giancarlo Giannini, Adrian Hoven, Udo Kier, Hanna Schygulla, Erik Shumann, Karl Heinz Von Hassel

    PREMESSA


    Dopo la grande messa in scena di "Berlin Alexanderplatz", Rainer Fassbinder torna al cinema con una raffica di tre film in poco più di un anno.
    “Fassbinder has made a lot of movies now he makes a lot of money” (Fassbinder ha fatto un sacco di film ora si fa un sacco di soldi) proclamava 'Variety' del 2 maggio 1979 dopo il successo de "Il matrimonio di Maria Braun". E il tandem Fassbinder-Schygulla diventa l'asso nella manica di produttori e distributori. Tra questi c'è Luggi Waldleitner, uno dei cavalli vincenti del cinema di intrattenimento popolare dell'era Adenauer. Nel quadro di una coproduzione con l'Italia egli USA, offre al regista la sceneggiatura di un film tratto dalle memorie di Lale Andersen, la cantante della famosa canzone "Lili Marleen". Dalle interviste si capirà poi che l'atteggiamento di Fassbinder di fronte all'occasione è stato quello un po' cinico del “perché no?” piuttosto che quello di una meditata scelta. Così lo sventurato progetto, protagonisti la Schygulla e Giancarlo Giannini, viene messo
    lili marleen

    La famosa canzone (scritta nel 1916, musicata nel 1930 e registrata nel 1938) ha ispirato altri 3 film: 2 britannici (1952, 1970) e uno tedesco (1956).
    il film apre idealmente la quadrilogia fassbinderiana sulla Germania che sarà seguita da Lola e Veronika Voss
    Tra tutti i film girati da Fassbinder, Lili Marleen fu l'unico proposto dalla Germania alla Academy Award per la nomination come Migliore film in lingua straniera. Il film non ottenne, comunque, il prestigioso riconoscimento.
    Sebbene di produzione tedesca, il film fu interamente girato in lingua inglese








    COMMENTO


    Al primo livello Lili Marlen era è una specie di fotoromanzo dai mille colori. Il problema è che un secondo livello proprio non esiste. Nonostante parecchi si siano affannati a trovare una qualche giustificazione al pasticciaccio, bisogna aver il coraggio di ammettere che Lili Marleen è un film balordo. Certo, esiste il motivo del nazismo come spettacolo. Ma (per sua fortuna) Fassbinder non è né Coppola né Spielberg, e lo spunto non è sviluppato più che tanto.
    Una traccia poteva essere quella della responsabilità individuale di un artista nei confronti del regime che lo nutre e lo sfrutta; ma questo tema è annullato dalla piattezza della protagonista. A Willie-Lili Marleen mancano la grandezza e l'intrigante genialità di una Maria Braun: il suo "sogno di donna" non si eleva un centimetro da quella che è la sua battuta più significativa: “Io canto solo una canzone”. In un film fiacco e ripetitivo come questo, l'unico motivo di interesse risiede nell'avvento nel clan Fassbinder di un nuovo direttore della fotografia la cui influenza si farà sentire anche nei due film successivi. Si tratta di Xaver Schwatzenberger, che aveva già collaborato a “Berlin Alexanderplatz”. È un autentico maestro del colore e dell'illuminazione. In confronto agli operatori precedenti (al rigore di Dietrich Lohmann e di Jürges, alla classica morbidezza di Michael Ballhaus), Schwatzenberger introduce un tono di consapevole artificiosità che passa dai rutilanti, luminosissimi interni di Lili Marleen al programmatico iperrealismo di “Lola” per giungere allo scintillante bianco e nero de “Il desiderio di Veronika Voss”.
    Hanna+Schygulla,+Giancarlo+Giannini+dans+Lili+Marleen
  8. Posted 17/9/2011, 12:04
    sciuscia_200_273
    Sciuscià

    Sciuscià è un film del 1946 diretto da Vittorio De Sica considerato uno dei capolavori del neorealismo italiano. Tratta tematiche legate ai bambini e alla difficile vita che sono costretti a portare avanti per sopravvivere al complicato dopoguerra. Sciuscià è un termine dialettale napoletano ora in disuso che sta ad indicare i lustrascarpe del dopoguerra (dall'inglese shoe-shine).




    Anno: 1946
    Genere: Drammatico
    Regia: Vittorio de Sica
    Sceneggiatura: Adolfo Franci, Sergio Amidei, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini
    Cast: Franco Interlenghi, Rinaldo Smordoni, Aniello Mele, Bruno Ortensi, Emilio Cigoli, Gino Saltamerenda, Anna Pedoni, Leo Garavaglia, Enrico De Silva, Antonio Lo Nigro, Angelo D'Amico, Antonio Carlino, Francesco De Nicola, Pacifico Astrologo, Maria Campi, Peppino Spadaro, Irene Smordoni, Antonio Nicotra, Claudio Ermelli, Guido Gentili

    l-infanzia-rubata-76034








    sciuscia




    Trama: Pasquale e Giuseppe lavorano come lustrascarpe sui marciapiedi di Via Veneto a Roma. Appena possono corrono a Villa Borghese e con 300 lire affittano un cavallo bianco chiamato Bersagliere e lo cavalcano in due. Con la complicità di Attilio, il fratello più grande di Giuseppe, i due si trovano coinvolti senza volerlo in un furto a casa di una chiromante. Prima di essere arrestati e portati in carcere riescono a realizzare il loro sogno: comprare Bersagliere. Il cavallo sarà affidato alle cure di uno stalliere. I ragazzi vengono rinchiusi in celle diverse e sperimentano l'inganno e la vendetta. Il commissario e il direttore del carcere fanno credere a Pasquale che Giuseppe verrà frustato se lui non rivelerà i nomi dei complici del furto presso la chiromante. Pasquale cadrà nel tranello e parlerà. Quando Giuseppe, ignorando il motivo per cui lo ha fatto, verrà a sapere che l'amico ha fatto il nome del fratello, decide di vendicarsi e rivela a Staffera, l'assistente del direttore, che nella cella di Pasquale è nascosta una lima. Gli eventi precipitano: durante una proiezione cinematografica, Giuseppe e il suo compagno di cella Villa Literno fuggono dal carcere. Pasquale, per la paura di perdere Bersagliere, rivela a Staffera dove sono i due evasi e lo conduce alla stalla dove è custodito il cavallo. Su un ponticello nei pressi della stalla, Pasquale affronta Giuseppe in sella a Bersagliere. Arcangeli scappa, Giuseppe scende dal cavallo e Pasquale comincia a frustarlo, ma Giuseppe inciampa, cade dalla spalletta del ponte e muore. Pasquale, rinsavitosi dalla smania di vendetta, non potrà fare altro che piangere disperato l'amico, urlando al mondo il suo dolore: "Che ho fatto?"; mentre il cavallo si allontana nella notte.

    paisa2


    Produzione

    Prodotto da Paolo William Tamburella per ALFA Cinematografica, il film fu girato negli studi della Scalera in Via della Circonvallazione Appia a Roma, nell'autunno del 1945 per uscire nelle sale il 27 aprile 1946.

    sjff_01_img0439



    La critica

    La criticaGianni Rondolino nel Catalogo Bolaffi del cinema italiano vol. 1 « Insieme ai due film Roma città aperta e Paisà questo di De Sica è stato considerato il terzo capolavoro del neorealismo, sia per il tema affrontato (i ragazzi abbandonati che si danno alla delinquenza in una Roma sconvolta dalla guerra e occupata dalle truppe alleate), sia per lo stile della rappresentazione (una narrazione il più possibile documentaristica con personaggi presi dalla strada e ambienti dal vero. Il film narra la storia tragica di Pasquale e Giuseppe coinvolti in una rapina e chiusi in riformatorio.

    Qui in attesa di giudizio vengono in contatto con altri ragazzi traviati, sono maltrattati e incompresi, la loro stessa amicizia si raffredda. Alla fine mentre fuggono dal riformatorio verso la libertà rappresentata da un cavallo bianco, Giuseppe muore per colpa dell'amico. Sciuscià segna una profonda cesura nella carriera registica di De Sica, quasi una rottura, stilistica e contenutistica rispetto alle opere del 1940/45. Laddove prevaleva in quei film un aleggera vena sentimentale, più spesso comico-sentimentale, qui si fa imperioso uno spirito di denuncia e una profonda sensibilità per i casi più tragici della realtà umana e sociale. Lo stile che non è così secco come quello di Rossellini e ancora si compiace di certi toni un po' facili, acquista tuttavia una maturità d'eloquio che troverà i giusti toni nella tragedia quotidiana di Ladri di biciclette e sopattutto in Umberto D ».

    Riconoscimenti

    1948 - Premio Oscar
    Miglior film straniero (Italia) a Vittorio De Sica (onorario)
    Nomination Migliore sceneggiatura originale a Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola e Cesare Zavattini
    1946 - Nastro d'argento
    Migliore regia a Vittorio De Sica

    sciuscia3






    La recensione

    Vittorio De Sica firma l’ennesimo capolavoro, anche questo insieme a ladri di biciclette e Umberto D., manifesto del neorealismo italiano fonte di grande ispirazione per questo regista dei sentimenti e della gente, pronto a cogliere le testimonianze di un periodo, quello del dopoguerra povero di moneta ma ricco di valori.

    Mentre nei due film appena citati, si esplorava il mondo degli adulti, qui, De Sica ci accompagna nell’infanzia del dopoguerra, quella che sopravviveva arrangiandosi, data in pasto al mondo degli adulti e del lavoro ancor prima di essere pronta e pagandone a volte un prezzo troppo alto.

    La seconda parte del film, quella carceraria, verrà in seguito molto utilizzata come escamotage narrativo e sfondo di commedie e drammi del cinema dell’epoca, citiamo per tutti Nella città l’inferno, di Renato Castellani con una magnifica ed intensa Anna Magnani.

    Sciuscià rappresenta un caposaldo della cinematografia italiana e del movimento neorealista, uno di quei film che ad ogni visione si racconta nuovamente, con una recitazione ingenua e spoglia di inutili virtuosismi, ed una regia conscia di essere solo spettatrice di una realtà che è cornice e quadro, un’opera omnia che racchiude il meglio ed il peggio di un’intera generazione di italiani.
    Ads by Google





    sciuscia2

    fonte cinemaniaco

  9. Posted 8/9/2011, 19:16
    medium_la-grande-guerra
    La grande guerra



    « Io dico che se vinciamo questa guerra con i mezzi che abbiamo, siamo davvero un grande esercito! »
    (Tenente Gallina nel film)



    La grande guerra è un film di Mario Monicelli del 1959, interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman, vincitore del Leone d'Oro al Festival del Cinema di Venezia ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e nominato all'Oscar quale miglior pellicola straniera.

    Prodotto da Dino De Laurentiis, è considerato uno dei capolavori della storia del cinema,ed ottenne un enorme successo anche all'estero, soprattutto in Francia






    Anno: 1959
    Genere: drammatico guerra
    Regia: Mario Monicelli
    Cast: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli, Mario Valdemarin, Bernard Blier, Tiberio Murgia



    Trama: Il romano Oreste Jacovacci e il milanese Giovanni Busacca si incontrano durante la chiamata alle armi della prima guerra mondiale. Seppure di carattere completamente diverso sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare ogni pericolo e uscire indenni dalla guerra.

    Attraversate numerose peripezie durante l'addestramento, i combattimenti e i rari momenti di congedo (insieme ad un gruppo variegato di commilitoni e popolazione civile fra cui la prostituta Costantina, interpretata da Silvana Mangano), in seguito alla ritirata dopo Caporetto vengono comandati come staffette portaordini, mansione molto pericolosa, che viene loro affidata perché considerati come i "meno efficienti" a causa del loro limitato valor militare.

    screenshot-del-film-La-grande-guerra

    Dopo aver svolto la loro missione, si coricano nella stalla di un avamposto poco lontano dalla prima linea, ma una repentina avanzata degli Austriaci li trasporta in territorio nemico, dove vengono presto catturati. Sorpresi ad indossare cappotti dell'esercito asburgico nel tentativo di fuggire, vengono accusati di spionaggio e minacciati di fucilazione. Sopraffatti dalla paura ammettono di essere in possesso di informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave, e pur di salvarsi decidono di passarle al nemico.

    L'arroganza dell'ufficiale austriaco ed una battuta di disprezzo verso gli italiani («...courage?! Fegato dicono... Quelli conoscono soltanto fegato alla veneziana con cipolla, e presto mangeremo anche noi quello!») ridà forza alla loro dignità portandoli a mantenere il segreto fino all'esecuzione capitale, l'uno insultando spavaldamente il capitano nemico («Giovanni Busacca all'ufficiale austriaco: "...e allora...senti un po', visto che parli così... mi te disi proprio un bel gnènt!! Hai capito?!? Facia de merda!!!"») e l'altro che, dopo la fucilazione del compagno, finge di non essere a conoscenza delle informazioni e viene così subitaneamente fucilato poco dopo l'amico.

    La battaglia si conclude poco tempo dopo con la vittoria dell'esercito italiano che rioccupa poco dopo la postazione caduta in mano agli Austriaci, senza che nessuno venga a conoscenza del valore del loro sacrificio.

    la-grande-guerra

    Descrizione

    « Oreste Jacovacci: "Ma che fai aoh, prima spari e poi dici chi va là?"
    Sentinella: "È sempre mejo 'n amico morto che 'n nemico vivo! Chi siete?"
    Oreste Jacovacci: "Semo l'anima de li mortacci tua!"
    Sentinella: "E allora passate!" »
    (dialogo tratto dal film)



    Felice connubio di tragedia e commedia, l'opera è un affresco corale, ironico e struggente, della vita di trincea durante la prima guerra mondiale.

    Le vicissitudini di un gruppo di commilitoni sul fronte italiano nel 1916, sono narrate con un linguaggio neorealista e romantico al tempo stesso, abbinando scansioni tipiche della commedia all'italiana ad una notevole attenzione verso i particolari storici.

    Le pregevoli scene di massa si accompagnano ad acute caratterizzazioni dei numerosi personaggi, antieroi umani ed impauriti, rassegnati e solidali, accomunati dalla partecipazione forzata ad una catastrofe che li travolgerà.

    Monicelli e gli sceneggiatori Age & Scarpelli e Vincenzoni raggiungono l'apice artistico della loro carriera combinando, con impareggiabile fluidità di racconto, comicità e toni drammatici, ed aprendo la strada ad un nuovo stile cinematografico nelle vicende di guerra.

    Memorabile il piano sequenza finale nel quale i due pavidi protagonisti si riscattano con un gesto coraggioso, sacrificandosi l'uno da “eroe spavaldo” e l'altro da “eroe vigliacco”. Quest'ultima figura viene qui concepita in maniera assai originale ed interpretata da un ispirato Alberto Sordi (vincitore del Nastro d'Argento come miglior attore protagonista).

    grandeguerra_archivio_it_801_file_img_popup


    La ricostruzione bellica dell'opera è, da un punto di vista storico, uno dei migliori contributi del cinema italiano allo studio del primo conflitto mondiale.

    Per la prima volta la sua rappresentazione venne depurata dalla propaganda retorica divulgata durante il fascismo e nel secondo dopoguerra, in cui persisteva il mito di una guerra favolosa ed eroica dell'Italia, e per questo la pellicola ebbe problemi di censura al momento dell'uscita nelle sale, e fu vietata ai minori di 18 anni.[7] Fino a quel momento infatti i soldati italiani erano stati continuamente ritratti come valorosi disposti ad immolarsi per la patria. Emblematica ed indimenticabile in questo senso la scena dei festeggiamenti nel paese (subito trasformatisi in silenzioso dolore) e della retorica ostentata da autorità ed intellettuali al rientro delle truppe dalla sconfitta di Caporetto.

    Il film denunciò inoltre l'assurdità e la violenza del conflitto, le condizioni di vita miserevoli della gente e dei militari, ma anche i forti legami di amicizia nati nonostante le differenze di estrazione culturale e geografica. La convivenza obbligata di questi regionalismi (e provincialismi), mai venuti a contatto in modo così prolungato, contribuì a formare in parte uno spirito nazionale fino ad allora quasi inesistente, in forte contrasto con i comandi e le istituzioni, percepite come le principali responsabili di quel massacro.

    il-piave-mormoro

    Origini

    “La grande guerra” nacque da un'idea di Luciano Vincenzoni, influenzato dal racconto “Due amici” di Guy de Maupassant. Pensato inizialmente per il solo Gassman, fu il produttore Dino De Laurentiis a decidere di introdurre anche un personaggio per Sordi.
    La sceneggiatura integrava figure e situazioni provenienti da due libri famosi: Un anno sull'Altipiano di Lussu, e “Con me e con gli alpini” di Jahier.
    Il giornalista e scrittore Carlo Salsa, che aveva combattuto realmente in quei luoghi, prestò la sua opera di consulente, arricchendo la trama, i dialoghi e lo sfondo, di particolari vividi ed originali.

    Le scene per la maggior parte vennero girate in provincia di Udine, Gemona del Friuli, nei dintorni di Venzone, a Sella Sant'Agnese, nel forte di Palmanova e a Nespoledo di Lestizza dal 25 maggio a metà giugno del 1959. Altre scene vennero girate in Campania a San Pietro Infine e nel Lazio lungo il torrente Farfa tra Fara Sabina e Montopoli di Sabina.

    La%20grande%20guerra




    La recensione

    La rappresentazione degli orrori umani propria di ogni guerra ha conosciuto gli albori praticamente all'inizio del secolo con i primi rudimentali cortometraggi, in cui si impose lo schema seguente: protagonista (individuo, pattuglia od esercito), missione da compiere, conflitto, raggiungimento dell'obiettivo, gratificazione eroica finale; quasi sempre il nucleo narrativo era rappresentato e raccontato, durante la missione o l'evento bellico in atto, da un solo punto di vista così da ottenere la formula tanto sfruttata nei film di guerra: esercito buono (del quale fa parte il protagonista eroe) e nemico cattivo solitamente crudele ed efferato. Con il tempo molti registi si sono allontanati, o almeno hanno cercato di farlo, da questi cliché, facendo nascere l'esigenza di una revisione critica degli avvenimenti iniziando a donare ai film quel carattere antiretorico tanto criticato dalla stampa, preoccupata della demitizzazione della storiografia patriottica che da sempre aveva nascosto i massacri compiuti durante le guerre mettendo in risalto soltanto il coraggio ed il sacrificio dei soldati.
    L'impresa di abbattere il tabù culturale del mito della vittoria stava lentamente prendendo forma.

    E' sulla scia di "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, uscito appena un anno prima, che lo sceneggiatore Vincenzoni trova l'ispirazione per scrivere una storia sulla guerra dal titolo "Due eroi"; la curiosità del grande regista Monicelli e l'intraprendenza del produttore italiano di maggiori ambizioni dell'epoca Dino De Laurentis fanno sì che da questa storia i due realizzino una straordinaria tragicommedia dall'indirizzo decisamente anticonformista.

    Siamo nel 1917; in un distretto militare il destino fa incontrare il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) con il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman). La personalità del primo ci è mostrata fin dalle prime battute: l'uomo promette di far riformare l'altro dietro compenso, ingannandolo; lo stesso destino, tempo dopo, fa ritrovare i due in divisa militare su un treno: all'iniziale "scontro" segue la riappacificazione e la loro comune avversione alla guerra li unisce in una profonda amicizia. Inevitabilmente arriva il giorno in cui i due vengono mandati al fronte e nonostante i ripetuti tentativi di imboscamento si ritrovano in trincea.

    Con straordinaria abilità Monicelli introduce lo spettatore, attraverso i due protagonisti, nel mediocre ed impotente universo degli eserciti, dove si manifestano tutti i limiti di uno stato guidato da autorità capaci di fronteggiare la tragedia della guerra soltanto facendola pagare a poveri subalterni impreparati e totalmente demotivati.
    La drammaticità della guerra è descritta a 360 gradi con tutte le sue contraddizioni: il coraggio convive con la paura, la follia con la codardia, la vita con la morte, sentimenti che si mescolano insieme ai dialetti dei soldati unendo le esistenze, primarie e secondarie, in una coralità commovente; ne è un esempio il soldato Bordin, uomo buono e cordiale, disposto, in cambio di poche lire necessarie per sfamare la famiglia numerosa, a partecipare alle missioni più pericolose sostituendo i commilitoni meno coraggiosi oltre le linee. Questa vigliaccheria, rimanendo sempre nelle retrovie e mandando gli altri a rischiare la vita sotto gli assalti nemici, la vivono anche Jacovacci e Busacca ma non consapevolmente; l'incredulità di fronte ad avvenimenti tanto più grandi di loro e l'apatica mediocrità della loro esistenza hanno il sopravvento sulla razionalità e sulla presa di coscienza della loro situazione. L'indifferenza che consegue l'abitudine alla morte, che viene mostrata loro con la fucilazione di una spia o con l'uccisione a sangue freddo di un nemico mentre tutto solo consumava un rancio, è vissuta dai due come una totale negazione dei sentimenti umani, l'orrore che sostituisce l'amore, il senso del dovere in ambito militare rimane confinato in un limbo a loro sconosciuto.

    Il riscatto avviene nel finale, gestito con grande intelligenza da Monicelli, che riesce a raggirare la retorica pericolosamente seducente in questi casi; durante l'ennesimo imboscamento, i due amici si ritrovano in un casale per un rifornimento di materiale, mentre la loro compagnia a pochi chilometri subisce una sonora sconfitta dalle truppe nemiche. Sgomenti ma anche contenti dello scampato pericolo, vengono però fatti prigionieri dagli austriaci ed invitati da uno sprezzante ufficiale a fornire informazioni in cambio della vita sulla dislocazione di un ponte di barche italiano. La loro natura li sta per condurre alla confessione ed al tradimento, ma una frase dell'ufficiale austriaco dal contenuto misto tra ironia e disprezzo fa scattare la molla dell'orgoglio a Busacca che si rifiuta di confessare e viene condotto alla fucilazione; la stessa sorte toccherà a Jacovacci che però, tradito dall'istinto di sopravvivenza, non avrà coscienza della sua morte da eroe, e trascinato davanti al plotone di esecuzione inizierà a gridare "Non voglio morire, io sono un vigliacco, sono un vigliacco!": è il momento più drammatico ma anche più intenso e bello del film.

    Straordinaria la capacità di Monicelli di fornire una regia impeccabile, in grado di bilanciare lo spostamento di grandi masse con l'intensità dei primi piani dei protagonisti che con una sorprendente sequenza di sfumature psicologiche che vanno dal riso al pianto, dalla paura al coraggio, dalla sfrontatezza alla commozione ci regalano un' interpretazione straordinaria, con un Alberto Sordi se vogliamo inedito, pur mantenendo una caratterialità ormai collaudata, ed un Vittorio Gassman in un ruolo a lui abituale di personaggio un po' ipocrita, fannullone e sicuro di sè.
    Nel 1959 il film ha vinto il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia ex aequo con "Il generale Della Rovere" di Roberto Rossellini e l'anno seguente due nastri d'argento: Alberto Sordi come migliore attore e Mario Garbuglia per le scenografie.
    Da sottolineare l'ottima prova di tutti gli altri attori, da Folco Lulli (Bordin) a Romolo Valli (il tenente Gallina), da Nicola Arigliano (Giardino) a Ferruccio Amendola (Deconcini) e soprattutto alla ventata di allegria e spensieratezza che porta, in uno squallido panorama di morte, la prostituta dal cuore d'oro Silvana Mangano.

    La prima guerra mondiale non era mai stata raccontata, salvo mediocri e sporadici tentativi, dal cinema italiano, e che l'abbia fatto Mario Monicelli in questo modo, turbando la sensibilità di molti critici e neanche a dirlo delle autorità militari, incontrando comunque un grande successo di pubblico, dà la dimensione dell'intelligenza e del coraggio di questo grande regista italiano.



    grande_guerra_ufs--400x300

    Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 20/03/2008 fonte filmscoop.it

  10. Posted 2/9/2011, 14:44
    imm
    Roma citta' aperta

    Roma città aperta è un film del 1945 diretto da Roberto Rossellini. È considerato il manifesto del neorealismo e uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale. Inoltre è il primo della trilogia della guerra diretti da Rossellini, seguiranno Paisà e Germania anno zero. Indimenticabile è l'interpretazione di Anna Magnani nel ruolo della popolana Pina. Grazie a questo ruolo, di forte intensità drammatica, diventerà celebre in tutto il mondo. Nel cast figura anche uno straordinario Aldo Fabrizi.

    Genere:drammatico, guerra
    Regia :Roberto Rossellini
    Soggetto :Sergio Amidei, Alberto Consiglio
    Sceneggiatura :Sergio Amidei, Federico Fellini, Celeste Negarville, Roberto Rossellini
    Cast:
    Anna Magnani: Pina
    Aldo Fabrizi: don Pietro Pellegrini
    Vito Annichiarico: Marcello
    Marcello Pagliero: Luigi Ferraris, alias ing. Giorgio Manfredi
    Maria Michi: Marina Mari
    Harry Feist: magg. Fritz Bergmann
    Francesco Grandjacquet: Francesco
    Giovanna Galletti: Ingrid
    Nando Bruno: Agostino, alias Purgatorio, il sagrestano
    Turi Pandolfini: il nonno
    Eduardo Passarelli: brig. metropolitano
    Amalia Pellegrini: Nannina
    Carla Rovere: Lauretta
    Carlo Sindici: il questore
    Alberto Tavazzi: prete confessore
    Akos Tolnay: disertore austriaco
    Joop Van Hulzen: cap. Hartmann




    Trama;A Roma il regime fascista è caduto, gli Alleati hanno invaso l'Italia ma ancora non sono giunti nella capitale, dove la resistenza è più attiva che mai. Manfredi, militante comunista e uomo di spicco della resistenza, sfugge a una retata della polizia e si rifugia presso un tipografo antifascista, Francesco. Il giorno seguente, Francesco dovrebbe sposare Pina, una vedova madre di un bambino. La sorella di Pina, Lauretta, fa l'artista in un locale insieme a un'altra giovane, Marina, legata sentimentalmente in passato a Manfredi. Don Pietro, il parroco locale, non nega mai aiuto ai perseguitati politici e fa da portavoce dei partigiani. Rispettato da tutti, compreso Marcello e la sua banda di piccoli sabotatori, riesce a passare facilmente attraverso le linee nemiche, senza destare sospetti. Manfredi sfugge a un'altra retata tedesca mentre Francesco viene arrestato. Pina grida tutta la sua protesta e cade sotto il fuoco dei mitra. Più tardi Francesco riesce a scappare e si nasconde, con Manfredi, nell'abitazione di Marina. Scoppiano i dissapori e cresce il risentimento della ragazza per Manfredi, tanto che Marina, per ottenere della droga, tradisce l'uomo denunciandolo a Ingrid, agente della Gestapo, al servizio dei comandante Bergmann. Manfredi viene così arrestato durante un incontro con don Pietro ed entrambi vengono fatti prigionieri. Manfredi subisce terribili torture e muore. Don Pietro viene fucilato. Mentre Marina e Lauretta cadono sempre più nell'abiezione morale, Francesco, Marcello e i suoi ragazzi continuano la lotta.


    Produzione
    Girato in bianco e nero e considerato uno dei capolavori del neorealismo, il film è il primo della cosiddetta "Trilogia della guerra", poi proseguita con Paisà (1946) e Germania anno zero (1948).

    Le riprese del film furono fatte in condizioni precarie, sia per il periodo, i tedeschi erano da poco andati via, sia per la scarsa disponibilità del materiale tecnico compresa la pellicola. Non essendo disponibili gli studi di Cinecittà, già spogliata dalle attrezzature e ridotta ad essere un grande rifugio per gli sfollati, che non potevano essere accolti altrove, Rossellini e la troupe improvvisarono le riprese di alcuni interni nel vecchio teatro Capitani, in via degli Avignonesi 32, dietro via del Tritone.

    La scena centrale del film, con la corsa e l'uccisione di Anna Magnani dietro al camion che porta via il marito catturato dai tedeschi, fu girata in Via Raimondo Montecuccoli, al quartiere Prenestino-Labicano, ed è forse la sequenza più celebre del neorealismo nonché una delle più famose della storia del cinema italiano.

    Il film presentato al pubblico, nel settembre del 1945 senza alcuna anteprima, ebbe scarso successo, solo successivamente dopo aver ricevuto vari premi e riconoscimenti fu apprezzato unanimemente.


    romacittaaperta3



    I premi

    Presentato in concorso al Festival di Cannes 1946, ottenne il Grand Prix come miglior film.[1] Vinse anche tre Nastri d'Argento, per la miglior regia, la miglior sceneggiatura e la migliore attrice non protagonista (Anna Magnani).

    Il film ottenne anche una nomination al Premio Oscar come migliore sceneggiatura originale.

    Roma_citt%C3%A0_aperta

    Critica

    « È un film che rievoca il tragico periodo dell'occupazione tedesca di Roma e ne dà un quadro e un giudizio così giusto da suscitare immediatamente in tutto il pubblico il più vivo consenso e per il ricordo della recente tragedia, anche commozione profonda. Lo squallore delle vie cittadine nelle notti di coprifuoco e gli arresti, le torture, i delitti, le bieche figure di Caruso e di Dollmann, tutto qui è ricordato, con oggettività priva di retorica e con implicita valutazione politica così assennata ed equa che il film merita indubbiamente il plauso di tutti gli onesti. Valendosi intelligentemente dell'abilità di due attori popolari come la Magnani e Fabrizi, il regista ha sorretto la semplicità della trama drammatica su sequenze alternanti abilmente note comiche e addirittura grottesche alle scene più forti e strazianti. »
    (Umberto Barbaro, l'Unità, 26-11-1945 )


    Una scena del film con il personaggio di Marina Mari. « La Magnani è immensa. Attrice sensibile, intelligentissima. E non venitemi a parlare di volgarità. La Magnani va collocata, studiata e criticata sul piano del romanesco. Allora si vedrà che, nella sua virulenza plebea, l'attrice deriva proprio dalla tradizione popolare più pura e quindi più nobile. Giovacchino Belli scenderebbe dal suo piedistallo e s'inchinerebbe, con la tuba in mano davanti a lei. C'è un momento nel film in cui il Vammoriammazzato! di Anna Magnani, rivolta a un tedesco, toglie il respiro e rimane nell'aria, tragicamente come una condanna definitiva. »
    (Silvano Castellabeppe, Star, 6-10-1945 )
    « Rappresenta la grande sorpresa italiana del dopoguerra, l'inaugurazione (o meglio, la consacrazione) del neorealismo. Rossellini si propone come il suo corifeo. Non ha alle spalle una ideologia salda o nuova, al massimo si richiama ai valori del cattolicesimo, e forse neppure a quelli. La forza del film risiede nella trasgressione di ogni regola, di ogni consuetudine, di ogni luogo comune culturale. »
    (Fernaldo Starnazza, 'Dizionario del cinema

    50312_65413198944_2638240_n

    Incassi

    Incasso accertato a tutto il 31 dicembre 1952 è stato di £ 124.500.000

    417px-Roma_citt%C3%A0_aperta



    romacittaaperta2

    La recensione

    La verità è spesso scomoda: esiste ancora qualche illustre luminare o esperto - conscio di esporre una tesi impopolare e forse rafforzato (beato lui) dal proprio snobismo - che avanza delle riserve su uno dei massimi capolavori del cinema italiano, e per quanto folle possa sembrare se ne possono persino comprendere le ragioni.
    Non è tanto che a qualcuno il neorealismo non va giù, ma è forse una questione di affinità empatica: può darsi che gli illustri intellettuali di cui parlo si oppongano alla grandezza emotiva del neo-realismo in quanto - a loro modo di vedere - ad esso corrisponde una versione troppo semplicistica e lirica dei fatti. Essi presumono che per confrontarsi con la razionalità sia necessario scendere a patti con l'irrazionale.
    Forse, allora, hanno guardato superficialmente a questo film, che non può e non deve essere collocato in una realtà storica di ferite brucianti come il dopoguerra imminente, o dei romanzi di Vasco Pratolini o Mario Soldati, perché non è solo questo. Non è nemmeno riconducibile in toto al neorealismo classico, per varie ragioni, soprattutto perché questo film è, oltre che amaro, violentissimo.

    E' la Pura Realtà, filtrata senza trucchi cinematografici o simbolismi castranti, ma a sua volta è un Simbolo (questo sì) di tutto ciò che un paese in guerra non è più in grado di combattere: fulcro della vicenda è un ragazzino, figlio di un tipografo impegnato nella Resistenza, che vive la sua esistenza fra i coetanei compagni di giochi e i genitori, e che vede a poco a poco spezzarsi tragicamente il legame familiare a seguito della deportazione del padre in Germania e dalla tragica fine della madre, Pina, mentre - in una sequenza di memorabile impatto - insegue Francesco, il suo uomo, tentando invano di ribellarsi al suo arresto.
    La fatalità degli eventi brucia, ci lascia con un senso doloroso, più che perdita, di muta e rabbiosa rassegnazione. Davanti alle ceneri di un paese (una città?) mutilata e dilaniata da una guerra d'occupazione, lo sguardo freddo e crudele di un nazista segna l'inevitabile conflitto tra la forza dell'istinto e l'impossibile obiettività sul Male assoluto.

    Ma è soprattutto Aldo Fabrizi, nell'umanissimo personaggio di Don Pietro, a rendere l'opera ancora più lancinante e dolente, e ad esprimere il contrasto inarrivabile, ma purtroppo vinto, tra le ragioni della coscienza della fede (o la sua implacabile forza) ed il più "umano" sentimento di odio, disprezzo nei confronti del nemico: la rabbiosa rivendicazione dei suoi occhi, mentre assiste solo apparentemente inerme alla tragica fine dell'ingegner Manfredi (uno straordinario Marcello Pagliero) sottoposto a terribili e fatali torture fisiche, proclama in questo senso uno dei baluardi "storici" della società italiana, l'indissolubile legame a Dio e alla Chiesa.
    E' una crisi di coscienza che ferisce anche più di quanto rivendicato anni dopo dal Bresson di "Diario di un Curato di Campagna" e che esibisce nel "laico" Rossellini tutto l'eco di una speranza inevitabilmente perduta. Egli impreca maledizioni e rancore verso quei miserabili nemici che lo invitano a reclamare Dio, quando lo Spirito osserva impotente la crudeltà degli uomini che egli stesso ha creato.
    Poi, nello stesso istante, la rabbia reclama solo una tragica disperazione per non poter fare nulla davanti a ciò a cui "umanamente" è costretto ad assistere, ed essere biblicamente nelle condizioni di un Cristo immolato sulla croce, mentre chiede, in una rara e improvvisa inversione di spiritualità, "Padre, perché mi hai abbandonato?".

    E' in questi momenti, che "Roma città aperta" si presenta come il meno tradizionalista e "impuro" capolavoro neorealista, nella ferocia delle torture, nella crudeltà mai gratuita ma purtroppo realistica del nazista, nella tragica ilarità dell'amante traditrice, - l'attrice Maria Michi, mentre viene ubriacata e quasi costretta a un (velatissimo) rapporto saffico con una tedesca - e nel brutale conflitto di don Pietro con la sua desistente forza nella Fede.
    Non è (tacciano i dissenzienti) un melodramma popolare. Davanti all'ultima scena, mentre lo sguardo dei ragazzi non trova nemmeno più la forza di piangere per l'ultimo, inevitabile dramma, il cerchio si chiude dolorosamente. Tutto il resto è il domani, ma intanto è stata inferta una ferita lacerante al tradizionalismo imperante, o per meglio dire all'unica ragione per cui sia valsa la pena di vivere, lottare e amare disperatamente.

    roma_citta_aperta_r3_c1

    (fonte recensione filmscoop.it)

Review the complete topic (launches new window)

Top