Antiche civiltà,popoli leggendari.... abitanti di continenti lontani. Viaggio nella storia.

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  1. la sirenetta
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    I Druidi

    Nella religione dei Celti, la parola druido denota la classe dei sacerdoti attraverso buona parte dell'Europa centrale e nelle isole britanniche e costituivano l'elemento unificante e i depositari della cultura di quel popolo gallico peraltro così disgregato e discorde sul piano politico.

    Le pratiche druidiche erano parte della cultura di tutte quelle popolazioni chiamate Keltoi e Galatai dai greci e Celtae e Galli dai romani.

    Da quel poco che conosciamo delle pratiche druidiche, esse appaiono profondamente legate alla tradizione e conservative, nel senso che i druidi custodivano gelosamente i loro segreti.

    Ora è impossibile giudicare se questa riservatezza abbia avuto profonde radici storiche e sia stata generata nelle trasformazioni sociali di quel periodo, o se ci sia stata discontinuità con una innovazione importante nella religione druidica.

    Le nostre conoscenze storiche sui druidi sono molto limitate, quel poco è stato offuscato da mistero e mistificazione. Le informazioni di cui disponiamo sono in parte di origine letteraria e la documentazione di Cesare è sicuramente la più ampia e la più organica che si conosca tra quelle pervenute. Inoltre essa è anche attendibile perché Cesare ha soggiornato anni in Gallia ed ha verificato personalmente ciò che poi si trova nelle sue opere. Altre notizie, spesso sotto forma di riferimenti occasionali, sono presenti comunque in diversi autori greci e latini: si tratta di opere pervenuteci frammentariamente (come le Storie di Posidonio) o di testi storici o di geografi vissuti alcuni secoli dopo, quando ormai il processo di romanizzazione aveva fagocitato le tracce originali del passato. Da quel poco che sappiamo delle pratiche dei druidi, queste appaiono profondamente legate alla tradizione e sono inoltre conservative, nel senso che i druidi custodivano gelosamente i loro segreti, infatti le tradizioni druidiche erano costituite da un gran numero di versi imparati a memoria, e risulta che lo studio del corpus di tale tradizione potesse richiedere decine d'anni.

    Cesare descrive questo aspetto molto importante della cultura druidica nel capitolo 14 del VI libro del De bello Gallico. Fa capire che probabilmente la cultura druidica celtica sia stata una cultura misterica. Può darsi che sia esistita una "scuola di druidi" ad Anglesey (Ynys Môn) vicino ai laghi magici; ma cosa vi si insegnasse (poesia, astronomia, o persino la lingua greca) è oggetto di vere congetture.

    Se all'epoca di Cesare i druidi erano ancora nel pieno possesso della loro autorità e dignità, è anche vero che l'intero processo di romanizzazione della Gallia, dopo la sua conquista, portò ben presto alla scomparsa dell'antica religione celtica, con il conseguente indebolimento del prestigio dei druidi. Ritiratisi nelle loro scuole, furono poi perseguitati e soppressi dall'imperatore Claudio, che li considerava dei nazionalisti fanatici: sopravviveranno solo indovini, maghi, e ciarlatani, ma loro arte verrà combattuta dal cristianesimo, in particolare in seguito all'affermazione di San Patrizio.

    Nel Ciclo dell'Ulster, Cathbad, capo dei druido alla corte di Conchobar mac Nessa, re dell'Ulster, era accompagnato da moltissimi giovani discepoli (100 secondo le versioni più antiche). Cathbad è presente alla nascita della famosa eroina Deirdre, e profetizza la sorte della donna, ma viene ignorato da Conchobar. In questa storia epica, intitolata Táin bó Cuailnge, segue questa descrizione della banda dei druidi di Cathbad: l'incaricato solleva gli occhi al cielo e osserva le nuvole e risponde al gruppo attorno a lui. Tutti alzano gli occhi al cielo, osservano le nuvole, e gettano incantesimi contro gli elementi, facendoli combattere fra di loro; e nuvole di fuoco vengono portate verso l'accampamento degli uomini d'Irlanda. Nella stessa storia si dice anche che nessuno alla corte di Conchobar aveva il diritto di parlare prima dei druidi.

    Prima di partire per la grande spedizione contro l'Ulster, in Táin Bó Cuailnge, Medb, regina di Connacht, consulta i propri druidi sull'esito della guerra. Rimandano la marcia di due settimane, attendendo buoni auspici. I druidi hanno anche poteri magici: quando l'eroe Cúchulainn torna dalla terra delle fate dopo aver a lungo errato dietro la fata Fand (che egli non riesce a dimenticare), finalmente riceve una pozione dai druidi, che cancella ogni ricordo delle sue avventure recenti e cancella anche la gelosia dal cuore di sua moglie Emer.

    Ancora più notevole è la storia di Étain. Questa signora, moglie di Eochaid Airem, High King of Ireland ("alto re d'Irlanda"), in una vita precedente è stata l'amata del dio Midir, che la brama ancora e la rapisce. Il re si rivolge al suo druido Dalgn, che impiega un anno per ritrovare il dio e la donna, usando quattro rami di tasso con un'iscrizione di caratteri dell'alfabeto ogham.

    In altri testi i druidi si dimostrano capaci di portare gli uomini alla pazzia. Mug Ruith, leggendario druido di Munster, indossava una pelle di toro e un complesso copricapo di piume di uccello, e aveva la capacità di volare e scatenare tempeste.

     
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  2. la sirenetta
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    I Dervisci

    Col termine derviscio (in persiano e arabo darwīsh, lett. "povero", la cui etimologia resta sostanzialmente sconosciuta) si indicano i discepoli di alcune confraternite islamiche (turuq) che, per il loro difficile cammino di ascesi e di salvazione, sono chiamati a distaccarsi nell'animo dalle passioni mondane e, per conseguenza, dai beni e dalle lusinghe del mondo. Si tratta di un termine afferente a molte generiche confraternite islamiche sufi, anche se tendenzialmente ci si riferisce alla ṭarīqa della Mawlawiyya/Mevleviyè. I dervisci sono asceti che vivono in mistica povertà, simili ai frati mendicanti cristiani.

    Darwīsh in lingua farsi significa letteralmente "cercatore di porte". In campo mistico il termine, più ancora che "mendicante" ha acquistato il significato di colui che cerca il passaggio, la soglia, l'entrata che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale. Il termine generalmente si riferisce a un asceta mendicante oppure ad un temperamento ascetico di colui che è indifferente alle cose materiali.

    Il fenomeno è tipico di tutti i percorsi ascetici mistici, sia ebraici, sia cristiani, sia buddisti, sia induisti.

    In campo islamico alcune confraternite fanno della povertà il loro abito fisico e spirituale, utile ad allontanare qualsiasi vana tentazione di affermazione del proprio Io, a fronte dell'Unico Esistente, Dio. Fra essi, in particolare, la Mawlawiyya (in Turco Mevleviyè), fondata dal grande sufi e poeta Jalāl al-Dīn Rūmī nel XIII secolo o la ormai scomparsa Qalandariyya o la Khalwatiyya.

    La prima - che ebbe anche importanti funzioni liturgiche nelle cerimonie d'incoronazione dei Sultani ottomani - è particolarmente nota nelle aree non di cultura islamica per la spettacolare cerimonia dei cosiddetti "dervisci roteanti" che, nella loro ricerca dell'estasi che li avvicina a Dio, ruotano a lungo su se stessi sotto la guida di un loro pir (lett. "vecchio") che, in turco, è chiamato talora dede (nonno).

    Questi praticanti del Sufismo erano considerati dei saggi. Molti dervisci sono mendicanti che si sono votati alla povertà, alcuni hanno scelto di mendicare mentre altri lavorano, per esempio i Qadiriyya egiziani sono dei pescatori.[senza fonte]

    Esistono varie confraternite sufi, quasi tutte hanno avuto origine da un santo o un maestro musulmano come ʿAlī e Abū Bakr, rispettivamente quarto e primo califfo musulmano. Vivono in comunità monastiche simili a quelle cristiane.

    L'Ordine dei Mevlevi, in Turchia, pratica la celebre danza turbinante come metodo per raggiungere l'estasi mistica (jadhb, fanāʾ). Le danze sacre sono la più antica forma di trasmissione dei "misteri" che sia pervenuta all'uomo dall'antichità, e coloro che sono ammessi a un tale esercizio passano attraverso un insegnamento speciale che prevede una lunga preparazione.

    Oltre alla danza roteante esistono altri tipi di danze, tutte caratterizzate dalla grande attenzione particolari apparentemente insignificanti. Nel loro apprendistato i futuri Dervisci vengono addestrati dai sapienti monaci con tecniche molto raffinate; una di queste prevede l'utilizzo di un marchingegno molto curioso, in tutto e per tutto simile ad un albero: dalla sua base, generalmente in legno, si dipartono due o più rami dai quali a loro volta se ne dipartono altri ancora, e così via per un numero preciso di volte; ogni segmento è collegato all'altro tramite delle sfere, in genere d'avorio, risultando così un meccanismo affine a quello delle articolazioni scheletriche, capace di assumere numerose combinazioni di posizioni. Coll'ausilio di questo speciale strumento i monaci mostrano le posizioni che i discepoli dovranno imitare e sostenere per svariate ore, completamente immobili, con l'obiettivo di imparare a "sentirle" dentro se stessi.

    A questo generalmente si aggiungono delle operazioni mentali da svolgere durante l'esercizio in una determinata successione. Le danze sufi sono molto complesse e necessitano di anni di lavoro per poter essere apprese. La cosiddetta danza roteante o turbinante è una di queste e quella pubblicamente esposta ne è una forma incompleta. In certe tekkè (luoghi di raduno delle confraternite) si è tramandata l'usanza di eseguire queste danze e i più anziani le considerano equivalenti a libri nei quali leggono i misteri del tempo antico. Un approccio simile è rintracciabile nelle danze sacre indiane dove, per fare un esempio, una posizione con la mano rivolta verso il basso anziché verso l'alto e con i piedi orientati in una precisa direzione, deve trasmettere delle informazioni esatte e per questo il pubblico deve essere addestrato alla comprensione della danza, comprensione che in questo caso non può essere lasciata all'impressione soggettivamente suscitata.

    Contemporaneamente alla rappresentazione, un Derviscio compie un particolare esercizio interiore che ha il fondamentale compito di accelerare complessivamente la frequenza del ritmo di lavoro del proprio organismo, e impedire allo stesso tempo di creare squilibri tra le varie parti del corpo, specialmente tra il centro di "coordinazione motoria", il centro "intellettivo" e quello "emozionale". Dopo anni di esperienza, orientando i propri sforzi in questa direzione, pare che un Derviscio acquisisca una speciale proprietà fondata sull'equilibrio raggiunto dall'attività del proprio organismo che prende la forma di uno stato di "super-coscienza" e raggiungibile per attimi via via sempre più duraturi, col fine di renderlo uno stato permanente. Questa è chiamata la "Comunione con Allah". La differenza tra le danze dei Dervisci e quelle rituali afro-americane consiste maggiormente nel fatto che l'obiettivo di queste ultime è l'entrata in uno stato alterato di coscienza scatenato dall'ossessività dei movimenti sincopati dal suono, all'interno del quale il danzatore non ha alcun controllo su di sé, né cognizione delle circostanze creando però, secondo le credenze, un contatto speciale con le "forze superiori".

    I dervisci roteanti a volte non sono altro che danzatori che fanno degli spettacoli per turisti, soprattutto in Turchia, così come i fachiri in India. A questo proposito è utile sottolineare che mentre un tempo in Oriente si sviluppò una religione cosiddetta del "pensiero", e in Occidente una religione fondata sulla Fede, ovvero sul "sentimento", nel Sud del mondo la religione, nelle sue varie forme, ha sempre assunto un carattere più fisico, dove il "Corpo" era il punto di partenza. Spesso infatti si afferma che un vero fachiro e un vero Derviscio siano in sostanza la stessa cosa ovvero, da questo punto di vista, due esempi di lavoro religioso incentrato sul corpo fisico.

    I Rifāʿi, sono dervisci che sovente si esibiscono in pubblico, nei paesi islamici, facendosi trapassare da coltelli, ferri infuocati o inghiottendo carboni ardenti. Spesso sono rinomati come guaritori di morsi di serpenti o di scorpioni.

    Vi sono anche altri gruppi che cantano versi del Corano, suonando tamburi e danzando in gruppi; e altri gruppi invece che prediligono la meditazione silenziosa, questi sono per lo più i gruppi sufi dell'Asia meridionale.

     
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  3. la sirenetta
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    Sanniti

    I Sanniti (o Sabelli) furono un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania settentrionale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise (tranne il tratto frentano), del basso Abruzzo e dell'alta Lucania. Insieme di tribù riunite nella Lega sannitica, estesero nel corso della prima metà del I millennio a.C. la propria area di influenza, fino ad arrivare a comprendere i loro vicini meridionali, gli Osci, ai quali erano linguisticamente molto affini. Nel IV secolo a.C. vennero in contatto con la Repubblica romana, allora potenza in piena ascesa. Tra il 343 e il 290 a.C. le tre Guerre sannitiche sancirono la supremazia dei Romani, incrinata da defezioni e ribellioni nei secoli seguenti, ma mai messa in discussione. I Sanniti furono quindi completamente romanizzati, in un lungo processo che si concluse soltanto nei primi secoli del I millennio d.C.
    I Sanniti definivano Safinim (dalla radice italica Sab-/Saf- presente anche in Sabini e Sabelli, ad esempio) il proprio territorio nazionale, e definendo se stessi col il nome di Safineis. Le differenti denominazioni a noi giunte attraverso la lingua latina si spiegano con la circostanza che in latino arcaico la /f/ intervocalica non era presente, per cui Safinim divenne per assimilazione Samnium, da cui i Romani derivarono il toponimico Samnites per designarne gli abitanti.
    I Sanniti parlavano l'osco, una lingua indoeuropea del gruppo osco-umbro diffusa tra numerosi popoli italici ad essi affini, come i loro vicini meridionali Osci, assorbiti dai Sanniti nel V secolo a.C. Tra graffiti rinvenuti negli scavi archeologici di Pompei sono state rinvenute iscrizioni in osco, ancora vivo quindi nel I secolo a.C.
    La religione svolgeva un ruolo importante nella vita dei Sanniti. Per essi l’esistenza e l’attività nel loro complesso erano connesse con l’attività divina e ne costituivano il risultato. Nella religione dei Sanniti si intrecciavano vari filoni. Gli elementi greci ed etruschi si combinano con animismo, e dunque anche feticismo e magia, antropomorfismo e personificazione di astrazioni, nonché teriomorfismo (l’animale-guida del Ver Sacrum).

    Caratteristica della religione sannita è la polilatria: i Sanniti, al pari di altri popoli italici, usavano lo stesso luogo per il culto contemporaneamente di due o più dei. Tali dei erano inoltre fortemente specializzati. I Sanniti, popolo di agricoltori, concepivano il proprio mondo come popolato di poteri e spiriti misteriosi che ispiravano timore reverenziale e con cui era necessario instaurare buone relazioni. Questi numina non erano necessariamente privi di genere e di rapporti di parentela, benché la concezione di alcuni di essi fosse notevolmente vaga. Probabilmente non venivano immaginati in forma umana, e il loro nome, numero e sesso sono talora incerti. Di questi spiriti, sia benevoli che malevoli, si doveva conquistare il favore ed evitare l’inimicizia. Nella casa era necessario mantenere la benevolenza delle forze immanenti a zone cruciali come la porta, il focolare e la dispensa; nei campi, quella degli spiriti dei confini, delle sommità, delle caverne, dei boschi, dei ruscelli, delle sorgenti e dei luoghi di sepoltura.

    Documento preziosissimo per ciò che riguarda gli elementi della religione sannita è costituito dalla Tabula Agnonensis, una tavoletta di bronzo, risalente al 250 a.C. circa, perfettamente conservata, che misura 27x15 centimetri e che si trova al British Museum. Entrambi i lati recano iscrizioni in osco. Sono qui menzionate 17 divinità, se si contano i due aspetti di Giove, tutte connesse con l’agricoltura, i cui altari si trovavano nell’hortus, uno di quei boschetti sacri molto comuni nell’Italia arcaica.
     
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  4. la sirenetta
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    Nepal: a rischio di estinzione la tribù dei kusunda

    Gyani è nata nella tribù nomade dei kusunda ed è piuttosto anziana. Ha avuto molti alti e bassi nella vita, ma adesso la sua unica preoccupazione è che quando morirà, la lingua kusunda potrebbe scomparire con lei. “Sono l’unica rimasta a sapere la nostra lingua", ha detto Gyani, "quando morirò, non la parlerà più nessuno".
    “La nostra lingua si è ormai estinta”, prosegue Gyani, “tutte le persone della mia età sono morte e adesso non c’è più nessuno in grado di insegnarla alle nuove generazioni”. Gyani è preoccupata per la mancata tutela della lingua kusunda. Ha vissuto in diverse foreste e ricorda soltanto di essere la secondogenita della famiglia, nata nella regione orientale del Nepal circa 73 anni fa. I suoi quattro fratelli sono già morti. La tribù dei kusunda viveva tradizionalmente nella giungla, ma Gyani non vi rimase a lungo. All’età di dodici anni la sua famiglia si stabilì in un villaggio della zona, a Dang.





    In Nepal vivono numerose popolazioni indigene e tribali, ma molte non sono riuscite a organizzarsi per la difesa dei propri diritti. Tra loro ci sono anche i kusunda, altresì conosciuti con il nome di “banrajas”, che letteralmente significa re della giungla. La tribù è adesso sull’orlo dell’estinzione e solo di recente ha iniziato a mobilitarsi per proteggere e sviluppare la propria identità e cultura tribale. Nonostante sia trascorso parecchio tempo da quando i kusanda hanno iniziato a vivere nella società, la loro situazione economica rimane assai critica.

    Quasi un anno fa è stata istituita la Kusunda Bikas Samaj (Associazione per lo sviluppo dei kusunda) nel distretto orientale di Dang per riunire i kusunda di tutto il Paese al fine di favorirne lo sviluppo economico, sociale, culturale, educativo e linguistico. Finora hanno aderito all’associazione 159 nativi kusunda. Secondo il censimento effettuato in Nepal nel 2001, sarebbero 164 le famiglie appartenenti a questa tribù.

     
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  5. la sirenetta
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    Berberi

    Berberi o, nella loro stessa lingua, Amazigh (plurale Imazighen, il nome significherebbe in origine "uomini liberi"), propriamente sono gli abitanti autoctoni del Nordafrica. Per una serie di motivi storici e ideologici oggi tale nome è solitamente riservato solo a quanti, in Nordafrica, parlano ancora la lingua berbera (tamazight). Il nome berbero deriva dal francese berbère, che a sua volta riproduce la parola araba barbar, che probabilmente non fa che continuare la parola greco-romana barbaro (che designava chi non parlava il latino o il greco). Si veda per esempio Sallustio, nel suo Bellum Iugurthinum in cui la lingua dei Libi è definita "barbara lingua"
    Per quanto se ne sa, i Berberi sono il popolo indigeno del Nord-Africa. I fossili umani paleolitici affini ai Berberi propriamente detti, sono noti in paleo-antropologia con il nome di uomo di Mechta-Afalou, una variante del paleo-europoide del tipo di Cro-Magnon databile intorno al 20000 a.C.

    Nell'antichità le popolazioni nordafricane erano note sotto varie denominazioni: gli antichi egizi conoscevano i ṯḥnw (nominati dal "Re Scorpione" di età predinastica, intorno al 3000 a.C.), i ṯmḥw, i Rbw (probabilmente da leggere Libu, "Libi"), i mšwš. Capi dei mšwš divennero addirittura faraoni intorno al 1000 a.C. Nello spirito di riscoperta delle proprie tradizioni che anima da alcuni decenni alcuni intellettuali berberi, molti Berberi oggi fanno iniziare il loro calendario dal 950 a.C., approssimativa data di ascesa al trono di Sheshonq I, iniziatore della XXII dinastia, anche se probabilmente era già libica anche la dinastia precedente.

    In epoca successiva, molti nomi di popoli e tribù ci giungono da storici greci e latini, a partire da Erodoto.

    Popolazioni berbere citate da ErodotoIn particolare, si ricordano i Libi nelle regioni più occidentali, i Numidi nella zona dell'attuale Algeria, i Mauri nell'attuale Marocco, mentre nell'interno vi erano soprattutto i Garamanti e i Getuli.

    A partire dal I millennio a.C., il Nordafrica conobbe la colonizzazione di vari popoli. Da principio Fenici e Greci (Cartagine è fondata intorno all'814 a.C., Oea-Tripoli nel VII secolo a.C., Cirene intorno al 630 a.C.). In seguito fu il turno dei Romani, che contesero ai Cartaginesi la supremazia sulla regione.

    Intorno al III secolo a.C. si cominciano ad avere notizie precise su veri e propri Stati berberi, con propri re e una propria organizzazione: i regni di Numidia e di Mauretania. A quest'epoca risalgono alcune figure celebri come Massinissa, Giugurta, Giuba II, ecc.

    Dopo diverse vicende, che li videro sempre meno autonomi, i regni berberi persero definitivamente la loro indipendenza nel 40 d.C., sotto Caligola.

    Durante la dominazione romana molti Berberi emersero nelle arti, nella politica e nella religione, esprimendosi nella lingua scritta del tempo: il latino.

    Vi furono così:

    scrittori (da Terenzio a Marziano Capella, con personaggi come Frontone, Apuleio, o Tertulliano);

    santi cristiani (dai martiri scillitani a San Cipriano, San Vittore, Sant'Agostino e Santa Monica);

    papi (Vittore I, Melchiade, Gelasio I);

    e perfino alcuni imperatori (dal libico-punico Settimio Severo, fondatore di una dinastia, ai mauri Macrino e Emiliano).

    Dopo essere rimasto per lungo tempo sotto la dominazione romana, il Nordafrica subì nel V secolo le invasioni dei Vandali di Genserico, che costituirono regni nordafricani, finché nel 534, una spedizione condotta da Belisario, inviata da Giustiniano lo riconquistò alla sovranità di Bisanzio. Tale conquista però durò poco più di un secolo, giacché nel VII secolo si affacciarono i nuovi conquistatori, gli arabi.

    La conquista araba del Nordafrica, condotta in nome dell'islamizzazione, si svolse in varie fasi. Da principio, gli eserciti musulmani, dopo avere sottomesso l'Egitto, si portarono ad est della Libia, raggiungendo il sud della Tunisia e fondando la città-accampamento militare (misr ) di Qayrawan. Da lì ʿUqba b. Nāfiʿ partì, intorno al 685, per la sua celebre "cavalcata" che lo portò fino alle sponde atlantiche del sud del Marocco (la tradizione vuole che fosse entrato nell'oceano a cavallo, a significare che aveva conquistato all'Islam tutte le terre fino agli estremi confini occidentali). ʿUqba trovò un forte avversario in Kusayla, un capo berbero da lui catturato e pubblicamente umiliato, che riuscì a fuggire, organizzò la resistenza, lo sorprese a Tahuda, sulla via del ritorno, e lo uccise. Dopo alterne vicende, la resistenza berbera all'invasione araba fu sostenuta da Dihya, regina dei berberi della tribù Gerawa, più conosciuta con il soprannome attribuitole dagli arabi, Kahina, che in arabo significa strega; condusse anch'essa un'aspra campagna e tenne a lungo in scacco gli invasori. Prevedendo la propria sconfitta essa esortò i suoi figli ad allearsi col futuro vincitore in modo da conservare comunque il potere. Di fatto, in un breve volgere di tempo, il Nordafrica fu interamente islamizzato, a tal punto che nel 711 le truppe islamiche che invasero la penisola iberica sotto la guida di Tāriq ibn Ziyād erano costituite in massima parte da Nordafricani.

    La lingua berbera o tamazight appartiene alla famiglia linguistica afroasiatica o camito-semitica. La sua estensione copre tutta l'Africa del Nord, dall'Oceano Atlantico fino all'Egitto occidentale; un tempo sembra che una varietà di berbero fosse parlata anche dai guanci delle Isole Canarie.

    La lingua tamazight è stata duramente repressa negli anni passati dai paesi del Nordafrica che si proclamano "arabi" e procedono a sistematiche campagne di arabizzazione, e ancora oggi,in tali paesi non esistono canali di diffusione scritta od orale prettamente berberi o reti televisive berbere. Una rete televisiva satellitare in berbero è stata invece realizzata in Francia ("Berber TV"). Ultimamente sono nati due canali televisivi in lingua berbera rispettivamente in Marocco (Canale Tamazight) e Algeria (Tamazight TV).

    Gli Imazighen, cioè i Berberi, sono una popolazione europoide dell'Africa del Nord (Tamazgha). Sembra che almeno fino all'età del Bronzo (circa 1200 a.C.), tra le popolazioni berbere fosse piuttosto diffusa la depigmentazione, come carattere genetico, documentata anche da pitture rupestri del Tassili e in iscrizioni egiziane (vedi Popoli del Mare). La depigmentazione sopravvive in forma residuale ancora oggi particolarmente tra i berberi dell'Atlante in Marocco che non raramente hanno occhi azzurri e capelli rossicci, come è anche testimoniato dagli spagnoli per i Guanci delle Canarie.

    Dal momento che al giorno d'oggi è diffusa la concezione che "africano" sia solo chi ha la pelle scura, i Berberi sono erroneamente ritenuti come una popolazione di origine esterna stabilitasi in Nordafrica solo in tempi recenti; e spesso vengono perciò erroneamente assimilati agli Arabi, che sono giunti in queste regioni solo a partire dal VII secolo.
    In realtà per quanto si risalga indietro nel tempo i Berberi sembrano avere popolato il Nordafrica fin dal Neolitico.
    Questo popolo è entrato nella storia già 5000 anni fa: popolazioni berbere sono infatti citate nei testi egiziani fin dal 3000 a.C.

    Giovane donna berbera di Tunisia (XIX)La maggior parte della popolazione in Algeria, Marocco e Tunisia è di origine berbera. Ma i Berberi si trovano anche in Libia, Mauritania, Egitto e in alcuni stati dell'Africa occidentale, soprattutto nel Niger e in Mali (Tuareg). Le popolazioni berbere nella loro lunga storia non hanno mai effettuato guerre di conquista ma solo subito (e spesso contrastato aspramente ed efficacemente) dominazioni altrui; per questo la maggior parte dei documenti che riguardano i Berberi provengono dai loro conquistatori con i conseguenti punti di vista a loro negativi. Oggi dopo l'islamizzazione, si ritrovano quasi stranieri nella loro stessa terra.

    I governi dei paesi del Nordafrica, infatti, amano descriversi come arabi e ignorano quasi del tutto la lingua e la cultura nordafricana, tanto che la lingua berbera non è riconosciuta nella costituzione di quasi nessun paese del Maghreb. E gli Europei si adeguano ai cliché offerti da questi governi, che nei Berberi si limitano a vedere soprattutto pittoreschi elementi folkloristici, utili per attirare i turisti.

    Molte associazioni culturali, in Nordafrica e nei paesi di emigrazione, sono sorte per rappresentare le istanze dei Berberi e per difendere i loro interessi e i loro diritti negati. Dal 1997 esiste un'organizzazione sovrannazionale indipendente. il Congresso Mondiale Amazigh, che mira a rappresentare con una voce unica a livello internazionale le associazioni culturali berbere di ogni parte del mondo.

     
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  6. la sirenetta
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    Tarahumara

    I tarahumara costituiscono una popolazione che risiede nell'attuale territorio del Chihuahua (Messico). Tra di loro si definiscono rarámuri, che significa "pianta idonea per la corsa" in riferimento alla pratica della corsa che è tipica di questo popolo, mentre tarahumara è il termine con cui vennero chiamati dagli spagnoli. Tarahumara identifica anche la lingua parlata da questo popolo.

    Si stima che la popolazione dei Tarahumara si aggiri fra i 50.000 e i 70.000 individui. La maggior parte ha ancora uno stile di vita tradizionale: vivono in ripari naturali come le grotte fra le montagne o in piccole capanne di legno o di pietra. L'agricoltura è basata sul mais e sui fagioli. Praticato è anche l'allevamento e molti Tarahumara sono transumanti.

    Il linguaggio tarahumara è della famiglia uto-azteca. Benché in declino a causa dell'invadenza dello spagnolo, è ancora parlato.

    Le guide spirituali e i dottori sono definiti Owirúame, incaricati della magia bianca. I Tarahumara credono che lo Owiruame si spostasse da un luogo all'altro in forma di uccello, a volte portando con se la propria famiglia, e che recuperasse sembianze umane una volta arrivato a destinazione.

    Esistono poi gli Sokoruame, i quali sono incaricati di praticare la magia nera. Lo sciamano è il guardiano chiamato a sovrintendere alla comunità, propiziando l'equilibrio fra il corpo umano e gli astri.

    Alcuni sciamani impiegano il peyote (hikuli) durante le pratiche curative. Questa pianta allucinogena è di uso esclusivo degli sciamani, che, in quanto detentori del sapere, sono gli unici a conoscere le dosi da impiegare. Il peyote viene anche usato come unguento contro i reumatismi, i morsi di serpente e altri dolori. In certi luoghi il peyote è l'unica medicina adottata; in altri si impiega anche la Bakanoa, una pianta sacra con proprietà curative. Questa è consegnata esclusivamente al luogo in cui è stata trovata, a tal punto le altre comunità non la possono neppure menzionare.

    Il male è talvolta identificato con l'uomo bianco, o il meticcio, i quali rappresentano la volontà di ingannare, il furto, l'invasione delle terre. L'uomo bianco, per i tarahumara, è colui che si approfitta della gente, che non rispetta la terra, che distrugge i boschi, che desidera accumulare ricchezze personali anziché condividerle con il resto della comunità.

    I tarahumara sono molto religiosi ma non vi sono luoghi esplicitamente destinati al culto. Si riuniscono attorno ad un cantore (maynate) e ad anziani incaricati di pronunciare le orazioni, i quali celebrano le cerimonie al suono di sonagli fabbricati con una pianta definita bule. Durante le orazioni, gli anziani raccontano attraverso canti gutturali la vita degli animali della montagna (lupi, coyote, muli e falchi).

    Buona parte delle tradizioni attuali dei tarahumara derivano da tradizioni apprese durante quasi 150 anni di convivenza con i missionari gesuiti nel corso dell'epoca coloniale. Le complesse cerimonie mistico-religiose includono danze e offerte, ed è sempre presente la bevanda tradizionale, una specie di birra di mais denominata tesgüino (da cui prende il nome la festa della tesguinada, in cui si beve profusamente della birra di mais. Ad essa, sono invitati anche i membri più umili della tribù, i gusíwame).

    La presenza dei missionari gesuiti ha fatto si che la religione tarahumara fondesse la figura di Cristo con quella di Onorúame, il creatore del mondo. L'uomo è circondato da entità buone ed altre malvagie (il vento è ad esempio considerato buono, mentre il tornado è malvagio). Ciascun individuo possiede un'anima, ma potrebbe perderla se cadesse sotto l'influsso del maligno.

    Alle credenze dei tarahumara, si sono aggiunti, dopo la colonizzazione, i nomi di Gesú, Maria, Dio, così come l'inferno, il peccato. Nelle orazioni si fa anche uso del rosario e del crocefisso.

    Si può affermare che i tarahumara abbiano difeso le proprie tradizioni culturali con sorprendente tenacità. Da svariati secoli impiegano gli stessi disegni e i medesimi simboli nelle opere d'arte. Inoltre, utilizzano gli stessi utensili tradizionali.

    Ai defunti viene offerto del cibo, utile nel corso del viaggio senza ritorno, e per aiutarli a salire in cielo vengono celebrate tre o quattro feste, a seconda che il defunto fosse uomo o donna.

    Per i tarahumara la danza è una forma di preghiera; tramite la danza implorano perdono, propiziano la venuta della pioggia (per il cui scopo esiste un ballo specifico denominato dutuburi), ringraziano per la pioggia e il raccolto. Danzando, aiutano il Repá betéame (letteralmente, “quello che vive sopra”) a non essere vinto dal Reré betéame (quello che vive sotto).

    La musica su cui vengono effettuate le danze è quella del ritmo costante prodotto dai sonagli. Vengono così eseguiti, anche con unzione religiosa, la danza del Tutugúri, il Yúmare e la danza del peyote.

    Il ballo Tutugúri è propiziatorio e generalmente viene eseguito durante la notte, specialmente nell'epoca del raccolto. Viene ballato tutta la notte e all'alba vengono consumate le offerte che erano state collocate in prossimità dei germogli. In questi balli la musica è unicamente quella dei sonagli accompagnati dal canto del sacerdote, mentre nel ballo definito Matachine, che risale all'epoca coloniale, esiste anche l'accompagnamento di chitarra e violino.

    Nella tradizione tarahumara, Dio creò il popolo rarámuri, mentre il diavolo creò gli chabochi. La leggenda vuole che Dio si sia arrabbiato con i rarámuri i quali erano colpevoli di aver perso una sfida con gli “chabochi”. Per questa ragione Dio condannò il popolo rarámuri alla povertà, mentre garantì ricchezza agli “chabochi”.

     
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  7. la sirenetta
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    TUNNEL NEOLITICO COLLEGHEREBBE SCOZIA A TURCHIA


    La scoperta potrebbe rivoluzionare il campo dell’archeologia e portare a una revisione della storiografia antica, così come potrebbe scontrarsi contro la cittadella accademica o sgonfiarsi alla prova dei fatti. Non abbiamo infatti ancora dati sufficienti per inquadrare la notizia diffusa dall’archeologo tedesco Heinrich Kusch che ha dato alle stampe il suo libro Secrets Of The Underground Door To An Ancient World.

    Dopo la scoperta nel 1994 di Gobleki Tepe risalente a 12 mila anni fa e destinata a riscrivere la storia del Neolitico, ora emerge un’altra costruzione megalitica, altrettanto misteriosa: una rete di un migliaio di tunnel sotterranei che avrebbe collegato la Scozia alla Turchia – dove, guarda caso, si trovano proprio gli scavi di Gobleki Tepe, al confine dell’Iraq…
    Dopo la scoperta in varie parti d’Europa, tra cui Austria e Germania, di tratti di tunnel, scavati nella roccia, presumibilmente risalenti al Neolitico, Kusch avrebbe dedotto che intorno al 10000 a. C. una popolazione sconosciuta avrebbe costruito i tunnel, o perlomeno avrebbe dato vita al progetto di un mega tunnel sotterraneo che avrebbe unito l’Europa alla Turchia.
    Il Dr. Kush ha infatti dichiarato al German Herald che in Baviera sarebbero stati rivenuti ben 700 metri di questa rete sotterranea, mentre in Austria 350 metri, ma in tutto si tratterebbe di un migliaio di tratti di galleria.
    Se non possiamo ancora accertare l’esistenza di un unico tunnel sotterraneo scavato nella roccia e al di sotto del livello del mare, è innegabile l’esistenza di diversi tratti di gallerie risalenti, secondo gli studiosi, al Neolitico. Ora, viene da domandarsi il perché di queste immani costruzioni, gli strumenti utilizzati per scavare gallerie sotterranee e il tempo impiegato.

    In merito al primo interrogativo gli studiosi sembrano orientati a spiegare l’architettura neolitica come una forma di rifugio della popolazione dai “predatori” in superficie: uno stratagemma simile non trova però riscontro in studi o scoperte precedenti.
    In secondo luogo, quanto tempo potevano passare rifugiati sottoterra i nostri avi senza canaline o condutture d’aria?
    I passaggi sotterranei misurano all’incirca 70 cm, ma in alcuni punti si allargherebbero lasciando spazio a delle vere e proprie “camere” dall’utilizzo sconosciuto, che farebbero però pensare alla Camera del Re e alla Camera della Regina della Piramide di Cheope. Un inutile esercizio di sincretismo archeologico? Forse, ma anche nel caso della Grande piramide ci troviamo di fronte a dei veri e propri enigmi, come la mancanza di cartigli o iscrizioni, la presenza dello Zed, e la difficoltà di accesso alla Camera della Regina. La rete sotterranea poteva avere anche una funzione “iniziatica” come probabilmente aveva la Grande Piramide, o serviva soltanto come passaggio da un luogo all’altro del pianeta? E in questo caso, che importanza dovremmo dare alle leggende che narrano di costruzioni sotterranee e di popoli che abitavano nelle viscere della Terra? Gli uomini del Neolitico potrebbero aver “imitato” delle creature che vedevano entrare e uscire della grotte o da nascoste entrate al mondo infero?
    In attesa di una conferma da parte dei geologi, la data di costruzione della rete sotterranea sembra coincidere con quella del sito di Gobleki Tepe. Ciò farebbe almeno supporre che possa essere esistita una popolazione anti diluviana più evoluta del classico “uomo del Neolitico”, come abbiamo imparato a conoscerlo dalle conclusioni dell’archeologia accademica. Senza con questo dover necessariamente rispolverare il mito di Atlantide, Lemuria o Mu, non è così inverosimile teorizzare che siano esistite popolazioni scomparse con il Diluvio (riportato dai miti e dalle religioni classiche e accertato dalla geologia) autrici di quelle vere e proprie “anomalie” del sistema storiografico che stentano a farsi ricomprendere sotto la categoria di civiltà “primitive”.
    Non è certo perché avevano a disposizione “molto tempo libero”, come alcuni archeologi hanno ipotizzato, che culture classificate come “primitive” avrebbero potuto dare vita a una rete sotterranea di tunnel o ai megaliti di Gobleki Tepe, dotati soltanto di selci e molta pazienza. Il tentativo di banalizzare le scoperte contemporanee perché la loro portata storico-simbolica sfugge ancora ai nostri cervelli positivisti, è ridicolo. Ed è un insulto a quelle popolazione che hanno impiegato decine o centinaia di anni per dare vita a complesse costruzione, il cui fine ancora ci sfugge per nostra limitatezza, non a causa loro…
    Se negli ultimi trent’anni stanno emergendo dei reperti – e in questo senso vanno ricomprese anche le ossa di scheletri di Giganti rivenute in tutto il mondo – che sfidano il sapere comune e che non sono per questo “catalogabili” negli schemi che ci siamo fissati finora, forse, sono quelli stessi schemi – per quanto difficile e doloroso possa essere – che dovrebbero essere riveduti. Dal punto di vista storico, antropologico, filologico questi reperti non possono essere stipati a forza in categorie che non li possono contenere. Questa è una violenza che uno storico per quanto convinto delle proprie “credenze” e di quanto appreso fino ad ora, dovrebbe rendersi umilmente conto.
    In secondo luogo ci si dovrebbe chiedere quali strumenti siano stati utilizzati ben dodicimila anni fa per scavare questa rete sotterranea e se, come sostiene l’archeologo tedesco, in seguito sorsero in prossimità delle entrate alle gallerie luoghi di culto e Chiese.
    L’esistenza di queste gallerie era forse conosciuta anche in un recente passato? E se così fosse, perché questo segreto è rimasto letteralmente “sepolto” fino ad oggi?

    segni dal cielo

     
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  8. la sirenetta
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    Amazzonia: non ci sono più notizie degli indios «scoperti» in gennaio


    Non c’è pace in Amazzonia. Dalla fine della settimana scorsa non si hanno più notizie della tribù brasiliana che non aveva mai avuto contatti con il mondo esterno e che era stata filmata per la prima volta a gennaio di quest’anno al confine tra Brasile e Perù. Secondo il governo brasiliano, gli «indiani incontattati» potrebbero esser stati messi in fuga da trafficanti di droga peruviani; gli stessi che hanno attaccato l'avamposto di sicurezza creato dal governo di Brasilia proprio per proteggere l'isolamento degli indigeni.

    RESTI - A lanciare l’allarme è stato il capo della Fondazione nazionale degli indios brasiliani (Funai), Carlos Travassos. L’uomo si è recato sul fiume Elvira, dove sabato scorso è stato ritrovato lo zaino di uno dei trafficanti, che conteneva una freccia spezzata e venti chili di cocaina. «Le frecce sono come una carta di identità per i nativi che vivono isolati. Riteniamo che i peruviani abbiano costretto la tribù a fuggire. Siamo molto preoccupati», ha riferito Travassos alla stampa. In un messaggio a Survival International, movimento per i popoli indigeni, José Carlos Meirelles, ex capo della postazione di guardia afferma: «Noi resteremo qui, qualunque cosa accada, finché lo Stato brasiliano non avrà deciso di risolvere il problema una volta per tutte. Non per proteggere noi, bensì gli indiani».



    AMAZZONIA SPORCA DI SANGUE - La vicenda ha risvolti ancora poco chiari. Altri funzionari del Funai hanno dichiarato che l’avamposto sarebbe stato attaccato alla fine di luglio. Poi si teme che l'Elvira, lungo il cui corso si trova la postazione di protezione, venga usato per far uscire la cocaina dal Perù verso il Brasile. Una squadra di ricerche, composta da cinque uomini dell’ente governativo, è tornata sul campo il 5 agosto, dopo l’intervento della polizia federale. E il giorno successivo, i funzionari hanno riferito di non sapere più dove fossero finiti gli indigeni. Non è chiaro dunque il periodo in cui sarebbe avvenuto l’assalto. Inoltre, stando a quanto riportato dal Guardian, le autorità hanno arrestano un portoghese, Joaquim Antônio Custódio Fadist, già condannato per traffico di droga. Ma non solo. In passato erano stati espressi timori sulla penetrazione illegale e massiccia di taglialegna dal versante peruviano del confine.

    UN PARADISO CONTAMINATO - Non è la prima volta che la foresta più vasta del mondo vive avvenimenti truci, legati alla criminalità, il traffico di droga, il disboscamento selvaggio e lo sfruttamento delle terre. Tra maggio e giugno una serie di omicidi, a danni di sei ambientalisti, ha sconvolto la regione. E se la polizia non ha certezze sui colpevoli e sui mandanti, ora qualche riflettore internazionale (in Europa, la faccenda è stata seguita ben poco dai media) è di nuovo puntato sulla regione. Gli indigeni «incontatatti», inoltre, a differenza degli ambientalisti e delle loro azioni, hanno sempre suscitato interesse nella stampa e le loro immagini hanno fatto il giro del globo. In Brasile esistono almeno 67 tribù che non hanno contatti con il resto del mondo. E, per salvaguardarle, il governo brasiliano ha proibito, salvo autorizzazione, di entrarci in contatto per evitare contagi da malattie infettive (anche banali) alle quali i nativi non sono mai stati esposti. Oggi, però, si teme che qualcosa di ancora più infettivo – il traffico di droga – li abbia toccati da vicino, sporcandoli con le sue atrocità e il suo scarsissimo rispetto per la vita umana e per l’ambiente.

     
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  9. la sirenetta
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    La fine del mondo c’è già stata
    Noi siamo ciò che resta

    Fra cinque miliardi di anni il Sole esaurirà il suo combustibile e si espanderà in una gigante rossa travolgendo la fragile teoria dei suoi pianeti. Ma forse già prima la nostra galassia avrà iniziato a scontrarsi con quella di Andromeda, in una meravigliosa danza stellare che durerà milioni di anni e alla quale nessun umano, forse, potrà assistere. La specie umana, secondo i parametri evoluzionistici, è ancora una bambina: ha «soltanto» 190-180 mila anni. Non solo, essa è rimasta l’unica su questo pianeta da pochissimo tempo, da quando cioè si sono estinte le altre specie umane che popolavano il globo. Secondo i dati più recenti, se un ipotetico osservatore fosse caduto sul nostro pianeta soltanto 40 mila anni fa - una minuscola parentesi del tempo evolutivo - avrebbe incontrato almeno quattro specie umane: i nostri predecessori sapiens, sparsi in tutto il Vecchio Mondo e in Australia, dopo ripetute uscite dall’Africa; i robusti e intelligenti Neandertal, in Europa e Asia occidentale; l’ominino pigmeo dell’isola di Flores, in Indonesia; e il misterioso Homo di Denisova, sui Monti Altai, di cui conosciamo soltanto pochi resti ossei e frammenti del codice genetico.

    Perché allora siamo rimasti soli, e così di recente? Forse nel nostro inizio, tanto espansivo e ingombrante, era già scritta la fine degli alter ego umani. E pensare che noi mammiferi non ci saremmo diversificati in questo modo se i dinosauri (tranne i loro discendenti uccelli) non fossero stati sorpresi da una ben nota catastrofe da impatto, entrata ormai nell’immaginario collettivo. Ma spesso non si ricorda che a loro volta i dinosauri erano i discendenti fortunati di altre «estinzioni di massa» che avevano travolto i dominatori dell’era precedente. Mai dormire sugli allori: nell’evoluzione, la fine del mondo di qualcuno è l’inizio del mondo di qualcun altro.

    Secondo uno dei massimi esperti in materia, il paleontologo Michael J. Benton, in almeno un frangente, alla fine del Permiano, per un pelo la Terra non l’ha fatta finita una volta per tutte con i suoi abitanti: a seguito di un’ecatombe senza precedenti, causata da eruzioni vulcaniche su larga scala, si estinsero il 90% degli organismi marini e il 70% di quelli terrestri. Nella desolazione che seguì, i pochi sopravvissuti impiegarono milioni di anni per riprendersi e per tornare a diversificarsi. Dunque la fine del mondo c’è già stata, in più occasioni, e ogni volta tutto è ricominciato.

    Detto ciò, è pur vero che nel breve arco di tempo che ci separa dalla nostra nascita africana solo noi abbiamo scatenato un’evoluzione culturale e tecnologica rapidissima, tanto che qualcuno pensa che la prossima volta l'asteroide saremo noi. In effetti, contando quante specie abbiamo condotto all'estinzione alterando e distruggendo gli ecosistemi finora, il tasso di decimazione è paragonabile a quello delle cinque maggiori estinzioni di massa del passato. I più pessimisti pensano che questa «sesta estinzione» si tradurrà prima o poi in un’auto-estinzione: saremo i primi a segare da soli il ramoscello evolutivo su cui poggiamo, una poco encomiabile impresa alla quale assisteranno perplessi insetti, batteri e altre specie di successo.

    I fattori solitamente indicati come possibili cause della fine sono numerosi, alcuni più fantasiosi, altri meno: dall’idea di un’intelligenza artificiale che si rivolge contro il genere umano, alla collisione della Terra con una cometa, dal rischio di una pandemia improvvisa e definitiva, agli attacchi terroristici. E poi ancora, guerre nucleari e biologiche, improvvise glaciazioni, ma soprattutto crisi climatiche. Ad accompagnare la discussione, gli aspetti più etici e filosofici del problema: qual è la nostra responsabilità qui e ora per una catastrofe che si potrebbe verificare in un lontano domani? Siamo capaci di un investimento etico per un esito così lontano nello spazio e nel tempo, i cui beneficiari saranno persone sconosciute e di generazioni a venire? Perché molte civiltà e culture in passato sono andate incontro al loro collasso senza fermarsi prima, ignorando segnali evidenti di crisi? E poi, come sarà il mondo quando la specie umana non ci sarà più? Stando alle proiezioni più affidabili, sarebbe un rifiorire di biodiversità.

    Sapere che la fine del mondo c’è già stata, e che noi siamo in equilibrio come surfisti su ciò che resta dell’ultima, potrebbe aiutarci a rendere un po’ più sobrio e positivo il nostro punto di vista. In virtù del principio (a noi italiani peraltro familiare) in base al quale ci si rimbocca le maniche solo quando il rischio è palese e imminente, alcuni scienziati e filosofi difendono oggi la più ottimistica possibilità escatologica secondo cui la giovane specie sapiens sopravvivrà a lungo e magari si diffonderà nella nostra e in altre galassie poco prima che la Terra divenga inospitale. Se poi questo sarà un bene o meno per le altre galassie, è tema per i post-apocalittici che sopravvivranno alla fine del mondo immaginaria del 2012.

    la stampa
     
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  10. la sirenetta
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    Nostri antenati sesso con i Neanderthal

    Incontri fugaci, storie vere e proprie o forse anche solo semplicemente sesso: i nostri antenati si intrattenevano con i Neanderthal e anche con i Denisovans e queste storie, per quanto possano un po’ dispiacerci vedendo la ricostruzione fisica di questi ominidi, sono stati per noi umani di oggi una vera fortuna.

    PIU’ ROBUSTI - Gli attuali esseri umani portano nei loro cromosomi sessuali un frammento di dna dei Neanderthal e di un’altra specie di ominidi, i Denisovans. Più precisamente i primi hanno contribuito fino al 4 per cento dei genomi eurasiatici, mentre i secondi hanno contribuito a circa il 4-6 per cento della popolazione melanesiana. E proprio grazie a questa eredità l’uomo moderno ha potuto combattere molte patologie. Fu grazie a questi incontri, rapporti o forse anche amori infatti che noi oggi siamo molto più robusti .

    LO STUDIO - Lo sostiene una ricerca pubblicata su Science che individua anche il gene chiave che probabilmente molte volte ci ha salvato la vita. Peter Parham, professore di biologia e immunologia alla Stanford University School of Medicine insieme al suo team si è focalizzato sul gene Hla e ne ha studiato le implicazioni sugli umani moderni e il suo ruolo cruciale nelle patologie immunomediate. La rara variante di questo gene che ci parla della mescolanza che si verificò con i Denivosans si chiama HLA-S *73, mentre la variante che rivela gli incroci con i Neanderthal è la HLA-B51.

    RAPPORTI CERTI– Una recente ricerca dell’Università di Montreal stabiliva con certezza che i Neanderthal e gli umani si siano incrociati sessualmente dopo la migrazione dall’Africa, tra 50.000 e 80.000 anni fa. E questo frammento di Dna, che si trova sul cromosoma X umano e ci ricorda di queste passate relazioni, è presente nel 9 per cento degli esseri umani in tutto il mondo, ad eccezione dell’Africa. Ora il pool di ricercatori guidati dalla Stanford University ha cercato di capire cosa ci abbiano trasmesso questi incontri ed è giunto alla conclusione che il gene modificato Hla ha generato una forte risposta immunitaria ai microrganismi patogeni. Ma i ricercatori devono ancora fare luce su molte questioni. La cosa certa è che se i nostri antenati non si fossero intrattenuti con i Neanderthal e con altri ominidi la specie umana sarebbe più vulnerabile.

     
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  11. la sirenetta
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    Insubri

    Gli Insubri erano una popolazione celtica stabilitasi in Insubria dove fondarono Milano (Mediolanum), insieme ai Boi, ai Lingoni, ai Taurini e ai Gesati, furono sconfitti nel 225 a.C. dall'esercito romano, guidato dal console Emilio Papo, nella località di "Campo Regio" presso il promontorio di Talamone. Due anni dopo i Romani insieme ai loro alleati Cenomani entrarono nel territorio degli Insubri, che furono nuovamente sconfitti a Clastidium (Casteggio). Nel 221 eliminato l'esercito dei Gesati, guerrieri celti sacri famosi perché combattevano completamente nudi, con il solo torques al collo , i consoli Cneo Cornelio Scipione e Marco Claudio Marcello occuparono Milano e i Galli Boi, i Lingoni e gli Insubri dovettero accettare l'alleanza con Roma, mentre gran parte del loro territorio veniva incamerato dai Romani, che vi fondarono le colonie di Cremona e Piacenza.
     
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  12. la sirenetta
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    P1020247_200x150

    Messico, scoperto tempio Maya di 2000 anni fa

    Gli studiosi dell'Istituto nazionale messicano di Antropologia e Storia hanno scoperto un Palazzo Maya di 2000 anni fa a Plan de Ayuda. I Maya sono stati una delle civiltà antiche più fiorenti dell'America centrale e hanno lasciato incredibili testimonianze architettoniche della loro cultura.

    Edited by la sirenetta - 12/9/2011, 10:14
     
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  13. la sirenetta
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    Un'estate assieme al popolo Saharawi


    A riportare d'attualità la vecchia questione di questa etnia cacciata dalla sua terra sono i bambini. Che arrivano a gruppi di 300/400 a passare l'estate in Italia, ospitati da varie associazioni, come "Sahara Libre", che li strappano dai 60 gradi del deserto, gli permettono di usufruire di screening sanitari e visite mediche, gli offrono due mesi di allegria e vacanza

    "Il tè - sussurra Djoumani, un giovane Sahrawi che lavora presso la delegazione del Fronte del Polisario in Italia, mentre porge un bicchiere fumante - è l'immagine del nostro popolo. Per farlo così buono e denso, ci vuole pazienza". E di pazienza, questo popolo spezzato tra territori occupati, zone liberate e campi profughi in Algeria ne ha avuta davvero molta. A sud del Marocco, schiacciata tra Mauritania e Oceano Atlantico, per l'Unione Africana, molti stati africani, un buon numero di stati centro o sud americani, c'è la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD). Per l'ONU, invece, la UE, il Vaticano, l'Europa intera, gli Stati Uniti e il resto dell'occidente, c'è il Sahara Occidentale, una regione del Marocco.

    Una lunga vicenda. La storia di questa fetta di terra interamente desertica, ma ricca di fosfati, petrolio e materie prime, a ridosso del mare più pescoso di tutta l'area, ha dell'incredibile. Palleggiato prima tra Spagna - che nel '75, a pochi mesi dalla morte di Franco, ha ottenuto un raffreddamento delle pretese marocchine su Ceuta e Melilla - e Marocco - che da quel momento ha preso spietato possesso dell'area -, ignorato dal mondo che conta, preso in giro dall'ONU che gli ha promesso nel '91 un referendum immediato ancora inadempiuto sull'autodeterminazione in cambio di un cessate il fuoco, il popolo dei Saharawi attende che qualcuno si accorga di lui. Non gode della ribalta della Palestina, pur avendo il 90% dei suoi territori occupati e subendo atrocità, omicidi di massa, repressioni da decenni, non attira discussioni o dibattiti in consessi transnazionali, vive per la maggior parte in esilio o in diaspora, ma - se si eccettua la Spagna - in occidente risulta invisibile.

    Il muro lungo 2.700 chilometri. "Ci sarebbe un metodo per far sapere al mondo che esistiamo - spiega senza mezzi termini Sidamhed Bachir, un giovane Saharawi da molti anni in Italia - smettere di essere pacifici". Sì perché il Fronte del Polisario, la compagine politica che ha composto un parlamento, un governo, tiene regolarmente elezioni libere e amministra la popolazione dei campi di Tindouf (circa 400.000 persone) ha fin qui imposto di insistere sul dialogo e perseguire la via diplomatica. Le giovani generazioni, però, cresciute al di là del Muro della Vergogna - 2.700 km, il più lungo al mondo pagato con soldi occidentali - bombardate al fosforo o al napalm, o ammassate nei campi profughi, ancora in attesa di quel referendum che sancirebbe la nascita di uno stato, sono stufe. Una parte di queste, assieme a donne, vecchi e bambini, ha deciso di richiedere pane e rispetto pacificamente accampandosi in 20.000 a Gdeim Izik, nei pressi di El Aiun, la capitale dei territori occupati dal Marocco, nel novembre scorso, innescando, secondo molti osservatori, quelle rivolte che di lì a poco avrebbero incendiato il Maghreb e il Medio Oriente.

    "L'accampamento della dignità". Ma quando hanno registrato l'ennesima scarsissima accoglienza da parte del Marocco delle loro istanze se non addirittura lo sgombero violento di quello che avevano ribattezzato l'"accampamento della dignità", hanno cominciato a ripensare alle armi. "Se ne parlerà al Congresso di dicembre prossimo - dichiara Omar Mih, il Rappresentante del Fronte Polisario in Italia -, anche se io spero che i fucili restino nelle caserme. Qualcuno dice che il nostro più grande errore nel '91, in piena guerra, fu quello di accettare il cessate il fuoco proposto dell'ONU in cambio di un imminente referendum, ma io ho ancora fiducia". La speranza è tutta riposta nell'incontro svoltosi a ridosso della penultima settimana di luglio a New York tra il ministro degli esteri marocchino e i rappresentanti della RASD. È il settimo dall'inizio del 2011 "e finché ci si parla c'è speranza".

    Assieme a "Sahara Libre". A riportare la questione Sahrawi d'attualità, come da circa 30 anni a questa parte, sono i bambini. Vengono a gruppi di 300/400 a passare l'estate in Italia, ospitati da varie associazioni che li strappano dai 60 gradi del deserto, gli permettono di usufruire di screening sanitari e visite mediche, gli offrono due mesi di allegria e vacanza. "Ma per questi bambini che hanno la loro causa nel cuore - spiega Marco Ciccotelli, responsabile di Sahara Libre 1, una delle associazioni - questa è soprattutto l'occasione di parlare del proprio popolo, delle sue sofferenze, dei soprusi, della dura vita dei campi". Non a caso, il progetto si chiama "Bambini Sahrawi. Ambasciatori di pace 2011"; accoglie oltre 300 ragazzini dai 3 ai 12 anni grazie all'ospitalità di 12 regioni. Quaranta di loro sono disabili, mentre 30 celiaci. "Sono bambini con mille difficoltà, costretti a crescere lontano dalla loro ricchissima terra - riprende Ciccotelli - ma mantengono una grande dignità e un forte attaccamento alle loro tradizioni. La sera, prima di andare a letto, ci chiedono di indicargli la direzione della Mecca per inginocchiarsi e pregare".

    L. Attanasio
     
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  14. la sirenetta
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    LEMURIA E MU

    La 'leggenda'di Lemuria balzò alla 'ribalta'negli anni '60 e '70 del XIX° secolo. Un gruppo di geologi inglesi aveva notato una strabiliante somiglianza tra fossili e strati sedimentari trovati in India (Stow e Blandford) e in Sud Africa, risalenti al Periodo Permiano.Venne quindi ipotizzato sempre più alacremente che potessero essere esistiti dei ponti di terra emersa, forse anche continenti, che col tempo erano sprofondati negli abissi.

    Questi reperti erano quindi datati a 250 milioni di anni fa. In effetti, nel 1887, Neaumayer parla chiaramente di una penisiola, che chiama 'Indo-malgascia', che doveva unire l'India e il Sud Africa. Contemporaneamente, tale ipotesi poteva ben combinarsi con gli studi del naturalista E.Heinrich Haekel, per spiegare la 'distribuzione'di una famiglia di lemuri e di animali e piante fossili, sia India che in Sud Africa che in Madagascar. I 'lemuri'sono animali notturni strettamente associati alle scimmie che non sono estinti, ma vivono in notevole numero in Madagascar, un'isola costituita da un altipiano che-migliaia di anni fa- faceva parte di un continente. Un biologo inglese, P.L.Slater, coniò il termine 'Lemuria', per associazione.Originariamente questo 'pseudo-continente'si doveva situare nell'Oceano Indiano, ma alcuni 'mistici'pensarono di appropriarsi di questa idea e 'trasferirono'la localizzazione di Lemuria nell'Oceano Pacifico,che divenne quindi la misteriosa e mitica sede di una civiltà perduta.

    I Lemuri, per i Romani, erano le anime o gli spiriti dei defunti.

    MU è la dodicesima lettera dell'alfabeto greco e, per i Latini, la "M"significava "mille"; se vi si apponeva sopra un trattino, la cifra diventava un "milione"...

    Quando venne avanzata la teoria della 'deriva dei continenti' e quella della 'tettonica a placche', vennero 'scientificamente'spiegati i fenomeni della distribuzione di strati, fossili e lemuri e quindi l'ipotesi di un antico continente perduto sembrò svanire in una bolla di sapone.

    James Churchward, un colonnello dell'esercito britannico, nel 1874 si trovava in India e conobbe un sommo sacerdote, presso un monastero locale. Questi gli avrebbe fornito importanti 'rivelazioni'su un continente 'perduto',MU, che mise in un libro e rese pubbliche in "The lost continent of MU",in italiano "Mu:il continente perduto".

    In certi documenti custoditi negli archivi del tempio Indiano,inviolabili e intoccabili, sarebbero scritte cose incredibili, dice Churchward nel libro, rievocando le confidenze che avrebbe ricevuto dal monaco,che narravano di un contiente perduto nel Pacifico e tali scritti sarebbero stati composti dai NACAAL-una comunità religiosa mandata dalla Madreterra nelle colonie per insegnare le sacre scritture,la religione e le scienze. Churchward ipotizzava che MU fosse all'apice dello splendore all'incirca 50.000 anni fa e poneva il suo sprofondamento negli abissi circa 13.000 anni fa,con i suoi 64.000.000 di abitanti.

    M. Uberti
     
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  15. la sirenetta
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    I Templari di Tomar. In Portogallo sopravvive una delle leggende più mistiche e affascinanti della storia.

    In Portogallo sulle tracce del Santo Graal. Non si tratta di un bizzarro annuncio pubblicitario ma di un suggestivo percorso turistico alla scoperta di quella parte del paese lusitano che ancora oggi conserva intatti i resti dei leggendari Templari. Quando l’ordine dei Cavalieri, che contribuì alla formazione del regno del Portogallo combattendo contro i musulmani, fu omaggiato dal primo Re Afonso Henriques con alcuni appezzamenti tra i fiumi Mondego e Tago, essi decisero di costruire sul monte di Tomar (1160) il proprio castello e convento, trasformando la cittadina in roccaforte delle loro tradizioni, culturali e artistiche.
    Quel che successe qui d’altronde non avvenne in altre parti: nel 1312 l’ordine fu soppresso per volontà del Papa Clemente V su spinta del Re di Francia Filippo il Bello, ma in Portogallo i Templari riuscirono a convertirsi in Ordine di Cristo sopravvivendo così alla loro abolizione.

    Il tour ideale alla ricerca degli antichi Maestri può partire da Alcobaça dove si trova il monastero dell’ordine cistercense che adattò i racconti pagani sul Santo Graal agli insegnamenti cristiani. Inserita nel Patrimonio dell’Umanità l’opera nacque con il regno e conserva linee tipiche di un primo gotico. Facendo tappa nel Parque Natural das Serras de Aire e Candeeiros e ammirando il Castello di Almourol, al centro di un isolotto in mezzo al Tago, si giunge a Tomar, dove forte riecheggia la storia dei Templari. La chiesa di Santa Maria do Olival fu realizzata come pantheon templare e qui furono sepolti molti Maestri dell’Ordine, tra diversi segni che si riferiscono a Salomone e stelle di David.

    Il convento eretto in onore della Santa Iria e del suo martirio nel vicino fiume Tago “nasconde”, secondo la leggenda, un richiamo al Re Artù nella figura di un toro che guarda verso nord, in direzione della costellazione del Boötes (cacciatore) di cui fa parte la stella Arturo. L’affascinante bellezza della Mata dos Setes Montes, con la cappella che spunta dalla folta vegetazione del Jardim de Urganda e luogo secondo le tradizioni dove si sarebbero svolti i riti iniziatici dell’ordine, fa da preludio al Castello dei Templari e al Convento del Cristo che si trova al suo interno.

    Ispirandosi alle fortificazioni in Terra Santa i Cavalieri costruirono nella loro Tomar una fortezza militare le cui mura ricordano quelle di Gerusalemme a protezione del Santo Sepolcro. Seguendo il tracciato si arriva al Convento, con la cappella e l’altare circolari, memoria vivente delle sue diverse fasi storiche: la romanica dei Templari, la gotica, la manuelina e rinascimentale fino al manierismo e al barocco.

     
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