JOVANOTTI

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  1. la sirenetta
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    Jovanotti on the road
    La casetta di Detroit in cui nacque il pop


    jovanotti

    Me l’avevano detto che avrei trovato una città con una strana atmosfera. Detroit fino a qualche anno fa era la città dei motori, la locomotiva industriale di tutta l’America. Poi la crisi, e ora una città vuota: di giovedì pomeriggio sembra di essere nel film «Io sono leggenda», quello con Will Smith che gira da solo in una New York post-atomica. Molti spazi dove c’erano i negozi ora sono vuoti, tristi come sanno essere solo i negozi smantellati.



    Non ho gli strumenti per analizzare una crisi. Non so che conclusioni trarre. È la fine di un mondo, la fine di una corsa all’oro, si smontano gli accampamenti, si va da un’altra parte. Ma è anche un paesaggio che fa male. Non so cosa dire, balbetta la mia mente, sospesa tra la resa all’ineluttabile e la speranza di una nuova rinascita da queste ceneri (non sarebbe la prima volta).



    Sono venuto a Detroit per suonare, mi ha scritturato un club rock nel centro della città, il Saint Andrew’s Hall, dove - scopro - hanno suonato Bob Dylan, Paul Simon, i Nirvana, i Red Hot Chili Peppers. Eminem qui ha fatto le sue prime esibizioni. Mi sento un microbo. Per me Detroit è la Motown Records come Vinci è Leonardo e Salisburgo è Mozart. Per questo, appena arrivato sono salito su un taxi di un grande uomo nero che teneva lo stereo altissimo. Suonava un pezzo soul, neanche a farlo apposta. «Motown Studios, please» gli ho detto, ed è partito verso una zona periferica di piccole case unifamiliari.



    È un microbo anche lo studio della Motown. Qui hanno inventato la musica pop del Novecento, ma è un microbo, una casetta di legno in periferia in mezzo a mille altre casette di legno: cinque metri di vialetto, due piani, una piccola veranda. È identica alle altre, se non fosse che questa casetta azzurra ora l’hanno trasformata in un museo, finanziato da diverse fondazioni e da gente che è diventata ricca grazie alla musica. Tra loro anche Michael Jackson, che al primo piano ha lasciato un cappello, un guanto glitterato e un assegno da 125 mila dollari. Così sta scritto sulla targa.



    Qui è successo qualcosa di eccezionale, qui è nata una forma d’arte, il pop, partendo dal blues e dal gospel e dal jazz, aggiungendo elettricità, cotonature di capelli, scarpe molto lucide, atteggiamenti cool, camicie sgargianti e una tonnellata di puro talento e mettendo tutto ciò al servizio della leggerezza, per volare sopra le divisioni etniche e sociali creare, come dice lo slogan, «Music for a young America». C’è una guida che ti fa fare un giro per le poche stanze e ti racconta come tutto è cominciato, e chi l’ha cominciato, un ventenne figlio di commercianti afroamericani arrivati dalla Georgia, attratti dal boom della città, in pieno fordismo.

    Si chiamava Berry Gordy (e si chiama ancora, adesso è un anziano gigante dello show-business): ciò che lui ha fatto, partendo da un prestito di 800 dollari ottenuto dai genitori, era tutto nuovo. Al piano di sopra ci abitava lui e sotto, nel garage, c’era lo studio in cui inventò un suono nuovo per il mondo, fatto di echi sulle registrazioni eseguite da un gruppo di ex jazzisti convertiti alla forma-canzone, quell’architettura micidiale di tre minuti in cui ci sta dentro una vita.



    Gordy si era messo in testa di vendere al mondo un suono nuovo, nero ma impossibile da identificare con gli stereotipi dell’arte nera conosciuta fino ad allora. Era il pop, era una rivoluzione, nascevano le hit, canzoni che dovevano vendere milioni di copie ed erano per tutti: bianchi, neri, ricchi, poveri, colti, analfabeti. Una fabbrica di successi, uno dopo l’altro. Diana Ross e le Supremes, Michael Jackson, Stevie Wonder, Smokey Robinson, e via così.



    Con i primi soldi, Gordy compra un’altra stanza e ci mette dentro un maestro di canto, un coreografo per studiare i passi e le posizioni da assumere nei passaggi tv e un’insegnante di stile per trasformare ragazzine nere dei sobborghi in regine di eleganza e di portamento. Regine vere, tipo Diana Ross.

    Passarci un’ora in quello studio a sentir raccontare questa storia è stato bellissimo. Sono uscito di lì che volevo aprire un’etichetta discografica, un bar, un locale, una latteria, una discoteca, una libreria, uno studio di dentista, qualcosa. Pensavo a cosa può fare un individuo con talento e tenacia, quanto può essere rilevante in una società e ispirare tutti gli altri. Un pugno di persone al lavoro, motivate e guidate da una visione, possono esprimere una forza difficile da contenere, se si trovano nel posto giusto.



    La Motown è stata la madre di tutte le etichette discografiche di successo, e ancora oggi la sua è una delle storie più belle d’America. Ancora una volta mi trovo in questo Paese a constatare quanto le storie grandi siano in realtà avventure piccole, che si svolgono in spazi ristretti, scollegati da tutto, dove si respira aria di casa, odore di fumo e di cucina, di mamme che stirano i pantaloni con la piega. Il grande è piccolo. L’America è folk, l’arte è artigianato.



    L’America si nutre del rapporto tra lo spazio sconfinato e l’individuo singolo e in questa tensione perpetua il suo mito. Esseri umani alle prese con l’immensità dello spazio, del tempo: è questa la storia che si ripete, sempre. Il piccolo è potenzialmente grande, le cose vanno fatte, non progettate, nascono facendole, a parlarne troppo svaniscono.



    La Motown è un buco in periferia, e non è un caso speciale, è quasi sempre così. Mette addosso una certa elettricità saperlo, che pare sempre che le cose le facciano gli altri perchè hanno più mezzi, ma mica è vero. Lo ha scritto anche il Cardinal Martini proprio qui su queste pagine, e non possiamo dire che si tratti di un neoliberista della scuola di Chicago: il futuro è di chi se lo prende. Oggi qui a Detroit ho sentito il racconto di un vecchio futuro che qualcuno si è preso, e adesso bisogna capire chi sarà il prossimo a farlo.
     
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10 replies since 19/8/2011, 18:43   1099 views
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