Film anni 30-40-50-60-70 Italiano ed Europeo

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  1. Oceanya
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    Roma citta' aperta

    Roma città aperta è un film del 1945 diretto da Roberto Rossellini. È considerato il manifesto del neorealismo e uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale. Inoltre è il primo della trilogia della guerra diretti da Rossellini, seguiranno Paisà e Germania anno zero. Indimenticabile è l'interpretazione di Anna Magnani nel ruolo della popolana Pina. Grazie a questo ruolo, di forte intensità drammatica, diventerà celebre in tutto il mondo. Nel cast figura anche uno straordinario Aldo Fabrizi.

    Genere:drammatico, guerra
    Regia :Roberto Rossellini
    Soggetto :Sergio Amidei, Alberto Consiglio
    Sceneggiatura :Sergio Amidei, Federico Fellini, Celeste Negarville, Roberto Rossellini
    Cast:
    Anna Magnani: Pina
    Aldo Fabrizi: don Pietro Pellegrini
    Vito Annichiarico: Marcello
    Marcello Pagliero: Luigi Ferraris, alias ing. Giorgio Manfredi
    Maria Michi: Marina Mari
    Harry Feist: magg. Fritz Bergmann
    Francesco Grandjacquet: Francesco
    Giovanna Galletti: Ingrid
    Nando Bruno: Agostino, alias Purgatorio, il sagrestano
    Turi Pandolfini: il nonno
    Eduardo Passarelli: brig. metropolitano
    Amalia Pellegrini: Nannina
    Carla Rovere: Lauretta
    Carlo Sindici: il questore
    Alberto Tavazzi: prete confessore
    Akos Tolnay: disertore austriaco
    Joop Van Hulzen: cap. Hartmann




    Trama;A Roma il regime fascista è caduto, gli Alleati hanno invaso l'Italia ma ancora non sono giunti nella capitale, dove la resistenza è più attiva che mai. Manfredi, militante comunista e uomo di spicco della resistenza, sfugge a una retata della polizia e si rifugia presso un tipografo antifascista, Francesco. Il giorno seguente, Francesco dovrebbe sposare Pina, una vedova madre di un bambino. La sorella di Pina, Lauretta, fa l'artista in un locale insieme a un'altra giovane, Marina, legata sentimentalmente in passato a Manfredi. Don Pietro, il parroco locale, non nega mai aiuto ai perseguitati politici e fa da portavoce dei partigiani. Rispettato da tutti, compreso Marcello e la sua banda di piccoli sabotatori, riesce a passare facilmente attraverso le linee nemiche, senza destare sospetti. Manfredi sfugge a un'altra retata tedesca mentre Francesco viene arrestato. Pina grida tutta la sua protesta e cade sotto il fuoco dei mitra. Più tardi Francesco riesce a scappare e si nasconde, con Manfredi, nell'abitazione di Marina. Scoppiano i dissapori e cresce il risentimento della ragazza per Manfredi, tanto che Marina, per ottenere della droga, tradisce l'uomo denunciandolo a Ingrid, agente della Gestapo, al servizio dei comandante Bergmann. Manfredi viene così arrestato durante un incontro con don Pietro ed entrambi vengono fatti prigionieri. Manfredi subisce terribili torture e muore. Don Pietro viene fucilato. Mentre Marina e Lauretta cadono sempre più nell'abiezione morale, Francesco, Marcello e i suoi ragazzi continuano la lotta.


    Produzione
    Girato in bianco e nero e considerato uno dei capolavori del neorealismo, il film è il primo della cosiddetta "Trilogia della guerra", poi proseguita con Paisà (1946) e Germania anno zero (1948).

    Le riprese del film furono fatte in condizioni precarie, sia per il periodo, i tedeschi erano da poco andati via, sia per la scarsa disponibilità del materiale tecnico compresa la pellicola. Non essendo disponibili gli studi di Cinecittà, già spogliata dalle attrezzature e ridotta ad essere un grande rifugio per gli sfollati, che non potevano essere accolti altrove, Rossellini e la troupe improvvisarono le riprese di alcuni interni nel vecchio teatro Capitani, in via degli Avignonesi 32, dietro via del Tritone.

    La scena centrale del film, con la corsa e l'uccisione di Anna Magnani dietro al camion che porta via il marito catturato dai tedeschi, fu girata in Via Raimondo Montecuccoli, al quartiere Prenestino-Labicano, ed è forse la sequenza più celebre del neorealismo nonché una delle più famose della storia del cinema italiano.

    Il film presentato al pubblico, nel settembre del 1945 senza alcuna anteprima, ebbe scarso successo, solo successivamente dopo aver ricevuto vari premi e riconoscimenti fu apprezzato unanimemente.


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    I premi

    Presentato in concorso al Festival di Cannes 1946, ottenne il Grand Prix come miglior film.[1] Vinse anche tre Nastri d'Argento, per la miglior regia, la miglior sceneggiatura e la migliore attrice non protagonista (Anna Magnani).

    Il film ottenne anche una nomination al Premio Oscar come migliore sceneggiatura originale.

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    Critica

    « È un film che rievoca il tragico periodo dell'occupazione tedesca di Roma e ne dà un quadro e un giudizio così giusto da suscitare immediatamente in tutto il pubblico il più vivo consenso e per il ricordo della recente tragedia, anche commozione profonda. Lo squallore delle vie cittadine nelle notti di coprifuoco e gli arresti, le torture, i delitti, le bieche figure di Caruso e di Dollmann, tutto qui è ricordato, con oggettività priva di retorica e con implicita valutazione politica così assennata ed equa che il film merita indubbiamente il plauso di tutti gli onesti. Valendosi intelligentemente dell'abilità di due attori popolari come la Magnani e Fabrizi, il regista ha sorretto la semplicità della trama drammatica su sequenze alternanti abilmente note comiche e addirittura grottesche alle scene più forti e strazianti. »
    (Umberto Barbaro, l'Unità, 26-11-1945 )


    Una scena del film con il personaggio di Marina Mari. « La Magnani è immensa. Attrice sensibile, intelligentissima. E non venitemi a parlare di volgarità. La Magnani va collocata, studiata e criticata sul piano del romanesco. Allora si vedrà che, nella sua virulenza plebea, l'attrice deriva proprio dalla tradizione popolare più pura e quindi più nobile. Giovacchino Belli scenderebbe dal suo piedistallo e s'inchinerebbe, con la tuba in mano davanti a lei. C'è un momento nel film in cui il Vammoriammazzato! di Anna Magnani, rivolta a un tedesco, toglie il respiro e rimane nell'aria, tragicamente come una condanna definitiva. »
    (Silvano Castellabeppe, Star, 6-10-1945 )
    « Rappresenta la grande sorpresa italiana del dopoguerra, l'inaugurazione (o meglio, la consacrazione) del neorealismo. Rossellini si propone come il suo corifeo. Non ha alle spalle una ideologia salda o nuova, al massimo si richiama ai valori del cattolicesimo, e forse neppure a quelli. La forza del film risiede nella trasgressione di ogni regola, di ogni consuetudine, di ogni luogo comune culturale. »
    (Fernaldo Starnazza, 'Dizionario del cinema

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    Incassi

    Incasso accertato a tutto il 31 dicembre 1952 è stato di £ 124.500.000

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    La recensione

    La verità è spesso scomoda: esiste ancora qualche illustre luminare o esperto - conscio di esporre una tesi impopolare e forse rafforzato (beato lui) dal proprio snobismo - che avanza delle riserve su uno dei massimi capolavori del cinema italiano, e per quanto folle possa sembrare se ne possono persino comprendere le ragioni.
    Non è tanto che a qualcuno il neorealismo non va giù, ma è forse una questione di affinità empatica: può darsi che gli illustri intellettuali di cui parlo si oppongano alla grandezza emotiva del neo-realismo in quanto - a loro modo di vedere - ad esso corrisponde una versione troppo semplicistica e lirica dei fatti. Essi presumono che per confrontarsi con la razionalità sia necessario scendere a patti con l'irrazionale.
    Forse, allora, hanno guardato superficialmente a questo film, che non può e non deve essere collocato in una realtà storica di ferite brucianti come il dopoguerra imminente, o dei romanzi di Vasco Pratolini o Mario Soldati, perché non è solo questo. Non è nemmeno riconducibile in toto al neorealismo classico, per varie ragioni, soprattutto perché questo film è, oltre che amaro, violentissimo.

    E' la Pura Realtà, filtrata senza trucchi cinematografici o simbolismi castranti, ma a sua volta è un Simbolo (questo sì) di tutto ciò che un paese in guerra non è più in grado di combattere: fulcro della vicenda è un ragazzino, figlio di un tipografo impegnato nella Resistenza, che vive la sua esistenza fra i coetanei compagni di giochi e i genitori, e che vede a poco a poco spezzarsi tragicamente il legame familiare a seguito della deportazione del padre in Germania e dalla tragica fine della madre, Pina, mentre - in una sequenza di memorabile impatto - insegue Francesco, il suo uomo, tentando invano di ribellarsi al suo arresto.
    La fatalità degli eventi brucia, ci lascia con un senso doloroso, più che perdita, di muta e rabbiosa rassegnazione. Davanti alle ceneri di un paese (una città?) mutilata e dilaniata da una guerra d'occupazione, lo sguardo freddo e crudele di un nazista segna l'inevitabile conflitto tra la forza dell'istinto e l'impossibile obiettività sul Male assoluto.

    Ma è soprattutto Aldo Fabrizi, nell'umanissimo personaggio di Don Pietro, a rendere l'opera ancora più lancinante e dolente, e ad esprimere il contrasto inarrivabile, ma purtroppo vinto, tra le ragioni della coscienza della fede (o la sua implacabile forza) ed il più "umano" sentimento di odio, disprezzo nei confronti del nemico: la rabbiosa rivendicazione dei suoi occhi, mentre assiste solo apparentemente inerme alla tragica fine dell'ingegner Manfredi (uno straordinario Marcello Pagliero) sottoposto a terribili e fatali torture fisiche, proclama in questo senso uno dei baluardi "storici" della società italiana, l'indissolubile legame a Dio e alla Chiesa.
    E' una crisi di coscienza che ferisce anche più di quanto rivendicato anni dopo dal Bresson di "Diario di un Curato di Campagna" e che esibisce nel "laico" Rossellini tutto l'eco di una speranza inevitabilmente perduta. Egli impreca maledizioni e rancore verso quei miserabili nemici che lo invitano a reclamare Dio, quando lo Spirito osserva impotente la crudeltà degli uomini che egli stesso ha creato.
    Poi, nello stesso istante, la rabbia reclama solo una tragica disperazione per non poter fare nulla davanti a ciò a cui "umanamente" è costretto ad assistere, ed essere biblicamente nelle condizioni di un Cristo immolato sulla croce, mentre chiede, in una rara e improvvisa inversione di spiritualità, "Padre, perché mi hai abbandonato?".

    E' in questi momenti, che "Roma città aperta" si presenta come il meno tradizionalista e "impuro" capolavoro neorealista, nella ferocia delle torture, nella crudeltà mai gratuita ma purtroppo realistica del nazista, nella tragica ilarità dell'amante traditrice, - l'attrice Maria Michi, mentre viene ubriacata e quasi costretta a un (velatissimo) rapporto saffico con una tedesca - e nel brutale conflitto di don Pietro con la sua desistente forza nella Fede.
    Non è (tacciano i dissenzienti) un melodramma popolare. Davanti all'ultima scena, mentre lo sguardo dei ragazzi non trova nemmeno più la forza di piangere per l'ultimo, inevitabile dramma, il cerchio si chiude dolorosamente. Tutto il resto è il domani, ma intanto è stata inferta una ferita lacerante al tradizionalismo imperante, o per meglio dire all'unica ragione per cui sia valsa la pena di vivere, lottare e amare disperatamente.

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    (fonte recensione filmscoop.it)
     
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