LE DONNE nella cultura degli Indiani d’America

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  1. Oceanya
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    LE DONNE nella cultura degli Indiani d’America


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    In quasi tutte le tribù native americane, le donne erano il motore economico della tribù e garantivano il buon andamento della vita quotidiana. In alcune tribù come gli Apache la famiglia era matriarcale.
    I loro compiti erano innumerevoli: scuoiavano animali, affumicavano la carne, confezionavano tutti gli indumenti, anche i mocassini, erano espertissime conciatrici di pelli: riuscivano a renderla morbida come un tessuto (una donna riusciva a conciare 4 pelli di montone all’anno), e poi raccoglievano la frutta, pestavano il mais e il miglio, cucinavano, montavano e smontavano le tende, e, naturalmente, accudivano i figli.


    Le donne indiane avevano molta cura dei loro piccoli e non si limitavano ad assicurare loro la sopravvivenza: facevano di tutto per rendere la vita bella e piacevole.
    Per quanto riguarda i piccoli del il popolo delle Pianure, probabilmente nessuna infanzia è stata più felice: non c’erano bambini più coccolati, viziati, protetti e liberi.
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    Senza scuola, senza orari, senza disciplina convenzionale i bambini attraverso il gioco apprendevano le arti, la tecnica, le tradizioni, la cultura collettiva.
    Ed erano tutte le donne della tribù a prendersi cura del bambino, fino alla sua adolescenza. Le donne erano anche quelle che massaggiavano i bambini più volte al giorno soprattutto nei gelidi inverni delle pianure, erano quelle che per riparare i piccoli dal gelo, usavano il grasso di bisonte, e che pensavano a raccogliere il muschio fresco e assorbente che fungeva da pannolino per i più piccoli.
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    Erano ancora le donne a realizzare (di solito durante la gravidanza) e a servirsi poi, caricandoli poi sulle spalle, bellissimi porta-enfant di morbida pelle di cerbiatto arricchita di piccolissime perline multicolori. Tra le puerpere c’era molta solidarietà: se una non aveva abbastanza latte per nutrire il proprio bambino, ce n’era sempre un’ altra che ne aveva in eccesso e che fungeva da balia.
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    La sera, per far addormentare i piccoli cantavano lunghe nenie. Per i problemi meno importanti, come coliche o dolori per la dentizione, erano sempre le donne a fungere da pediatre e curare il bambino con erbe medicinali, (gli analgesici più usati erano la salvia e le foglie di salice). Il cibo era sempre pronto e abbondante, conservato cotto in modo da poter essere servito in qualsiasi momento. Infatti non era destinato soltanto al consumo della famiglia, ma di chiunque arrivasse, forestieri o parenti. Nella vita sociale degli indiani il saper preparare e servire il cibo era molto importante. Attraverso l’offerta e la condivisione del cibo, si rinsaldavano i vincoli tra l’uomo di famiglia sia con i capi del gruppo, che con i parenti della moglie.

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    Tutti i compiti delle donne erano considerati onorevoli e dignitosi. Nessun lavoro era ritenuto servile .
    In effetti le donne erano oggetto di premure e di attenzioni: a cominciare dal mattino quando il marito spazzolava i capelli alla moglie (con una coda di porcospino attaccata ad un impugnatura decorata), le faceva le trecce e le dipingeva il viso (se dopo divenne una questione di moda, all’inizio questo cominciò per il fatto che molte donne lakota avevano una carnagione bellissima e molto delicata che mal sopportava il vento caldo e il sole bruciante delle pianure).

    Il matrimonio era tenuto in grande considerazione presso i Sioux. La celebrazione (se così si può chiamare) consisteva nel fatto che il fidanzato andava a prendere la ragazza nel tepee dove alloggiava con la sua famiglia e la portava nella loro tenda (preparata precedentemente dalle donne imparentate con la sposa). Lei dava subito dimostrazione di essere a casa sua: accendeva il fuoco al centro della tenda, sedendosi al posto della moglie a destra del focolare, di fronte si sedeva il marito, nel posto proprio del capofamiglia. Senza altre formalità erano marito e moglie. Il matrimonio doveva essere consenziente, poteva esserci un accordo tra la famiglia di lei e quella dello sposo oppure si poteva fuggire mettendo entrambe le famiglie di fronte al fatto compiuto o ancora, in casi estremi, la donna veniva rapita direttamente, senza perdere tempo. Anche se spesso si creavano chiacchiere e “inciuci”, non appena la sposa rimaneva incinta, tutto si metteva a tacere. Una madre conquistava automaticamente il massimo del rispetto collettivo.
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    La professione di madre era tenuta in grande considerazione e rispetto al punto che nel momento in cui la donna si rendeva conto di essere incinta, troncava i rapporti sessuali con il marito (cosa che non creava tensioni né contrasti: le premure dello sposo rimanevano immutate). Una volta avuto il bambino, i genitori si preoccupavano di non metterne in cantiere un altro almeno fino a quando il precedente non avesse raggiunto l’età di 5-6 anni in modo che potesse avere tutte le attenzioni possibili e che la donna non si stancasse troppo. La moglie non prendeva il nome del marito né del suo clan.
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    I bambini appartenevano al clan della madre. Se la cerimonia del matrimonio era piuttosto semplice e diretta, il corteggiamento era invece un rito lungo e complicato: un metodo molto diffuso era quello di mettersi sulla via dell’acqua e aspettare che le donne passassero per attingere l’acqua o per lavare i panni, afferrare il lembo della sottana o colpirla a distanza con dei sassolini. Se lei rallentava il passo significava che il corteggiatore aveva il permesso di affiancarsi e parlarle, se non era interessata lo avrebbe ignorato . Altro tipo di corteggiamento era quello della coperta: i corteggiatori si presentavano dopo il tramonto davanti al tepee della famiglia di lei e chiedevano di sedersi accanto alla ragazza, avvolgendola nella coperta.
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    Se lei gradiva, la conversazione si prolungava, e non era raro che ci fosse qualche “approfondimento” reciproco della conoscenza del corpo dell’altro. Ma sempre da seduti. Era vietato sdraiarsi sotto la coperta. Se lei non gradiva, il corteggiatore veniva congedato in fretta. La violenza sulle donne esisteva, ma era molto rara, forse anche perché la vendetta da parte della vittima era piuttosto dura e definitiva: le donne lakota, addestrate fin da piccole all’arte della macellazione, maneggiavano il coltello con molta facilità. Si può immaginare come potessero usare quest’abilità…ma questa pratica non conveniva a nessuno: la donna che riusciva a compiere questa vendetta era tenuta a mantenere l’uomo castrato fino alla sua morte.
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    Per il divorzio nessun ricatto, nessuna spesa e nessuno avvocato: così come l’entrata della donna sanciva il suo ruolo di sposa, l’uscita dal tepee con le proprie masserizie significava la rottura del legame matrimoniale. Al marito non restava altro che “suonare il tamburo”: si portava al centro dei cerchi di tende e gridava “questa donna non è più mia. Chi la vuole se la prenda” .

    Se era la moglie a essere stanca del marito, lo buttava semplicemente fuori dal tepee e, se voleva, accoglierci un altro uomo non doveva dare nessuna spiegazione. Nessun “avvocato” neanche per la spartizione dei beni: giacché la terra non apparteneva a nessuno, non c’erano né terre né proprietà da dividere.

    Semplicemente alla donna spettavano oltre la tenda (che già era sua), un cavallo da carico, tutte le suppellettili domestiche, tutti i coltelli tranne quelli da caccia e tutte le pelli che aveva conciato durante la vita matrimoniale (tranne quelle conciate esclusivamente per il marito).
    A lui spettavano il piumaggio, le armi, i cavalli da caccia e da guerra. Neanche troppe storie per l’affidamento dei figli: i piccoli, quelli che ancora dovevano arrivare alla pubertà, restavano con la madre, i più grandicelli andavano col padre. In genere i divorzi erano dovuti ai tradimenti, ma se un marito infedele non poteva essere punito dalla propria donna (che aveva solo il diritto di andare in collera e di divorziare), per una donna infedele la punizione era peggiore: al primo tradimento il marito aveva il diritto di tagliarle una treccia (due se era particolarmente geloso). L’uomo in teoria poteva avere più mogli ma erano casi rarissimi. E se succedeva era soltanto se la prima moglie era anziana e lui un guerriero ricco con molti cavalli. Era costretto infatti a mantenere tutti i parenti delle varie mogli. Avere molte moglie era anche un investimento economico: se una donna da sola conciava 4 pelli l’anno, più donne, naturalmente, avrebbero conciato più pelli. Le donne lakota erano di solito silenziose e riservate e in genere non partecipavano alla vita pubblica, ma una donna anziana e saggia o che aveva mostrato un particolare coraggio, poteva diventare parte del Consiglio Tribale.
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    Edited by Oceanya - 25/9/2012, 17:32
     
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    Le Donne Indiane E La Sterilizzazione Forzata



    Prima parte: Squaw, una parola che chiede verità

    "Squaw" è uno dei termini più mistificati, a uso e consumo della storia e della cultura occidentale. La donna indiana ha sempre ricoperto un ruolo importante e ben determinato, non subordinato alle necessità dell'uomo: non è mai stata, quindi, la "subalterna senza voce" che partorisce figli e tesse vesti, che coltiva la terra e prepara il cibo.
    Le donne creano e mantengono la vita, e come tali detengono posizioni di potere - in molte culture arrivano a essere capi spirituali e politici delle comunità . "E' nelle società occidentali", afferma Barbara Moore, lakota, "che le donne sono tradizionalmente sfruttate, e non solo dall'uomo, anche dalla società . Il nostro popolo tradizionale non ha fiducia nel movimento di liberazione delle donne, nel tipo di lotta praticato dalle donne bianche, pur cercando continui contatti e rapporti con esse, perchè noi donne indiane siamo sempre state emancipate".
    Le donne native non sono "femministe" che lottano per scrollarsi di dosso l'oppressione dell'uomo: sono coloro che assicurano la continuità dell'esistenza; nella struttura sociale indiana non vi sono ragioni economiche e classiste che determinino il loro ruolo e che decidano della loro maternità . Tuttavia ancora oggi "squaw" è sinonimo di "schiava" e di "focoso animale d'amore", e questi pregiudizi sono stati concepiti dal mondo capitalista e cattolico occidentale - la donna "custode del focolare", lavoratrice sottomessa all'uomo...
    Dice Roberta Hill, indiana oneida: "I pregiudizi nei miei confronti in quanto donna e in quanto indiana si scatenarono contro di me al di fuori della casa - nelle scuole, nelle strade della città , nei negozi, nei posti di lavoro... I bisogni e le opportunità sociali dei bianchi mi stavano facendo seguire una strada sbagliata per raggiungere ciò che altri, spesso insegnanti bianchi, si aspettavano da me. Fortunatamente gli Indiani non credono più¹ a ciò che viene loro raccontato e offerto dal mondo dei bianchi. Attraverso la riappropriazione della mia cultura ho imparato che sono una poetessa, una donna oneida, e che i canti, ciò che parla per mezzo mio, mi difenderanno dai futuri pregiudizi, mi terranno legata alla vita come hanno tenuto legati alla vita altri, le cui esperienze sono anche miei punti di riferimento, la mia storia futura".
    "Oggi la posizione delle donne winnebago", sostiene Don Whitewing Vandall, scrittrice e insegnante della tribù Winnebago, Nebraska, "è mutata rispetto a una volta: sono le donne che mantengono la famiglia con gli assegni familiari dell'Assistenza sociale. Si ritrovano a lavorare fuori della Riserva, e in una atmosfera di indipendenza che deriva da questa situazione".
    Ma le donne indiane d'America sono oggetto di continue violenze: sterilizzazioni forzate, stupri, pregiudizi razziali, psichiatrizzazione. Per questo nel settembre del 1978, dieci anni dopo la nascita dell'"American Indian Movement", è stato
    costituito il WARN ("Women of All Red Nations", "Donne di tutte le Nazioni Rosse".
    "La formazione di un'organizzazione nazionale di donne native", dice Barbara Moore, "va vista come un passo importante nella continua crescita del movimento. Le donne hanno discusso per anni sul bisogno di una organizzazione femminile, non come supplemento a una maschile, e neppure come organizzazione donna contro uomo, ma come struttura nazionale nella quale le donne possano organizzarsi per combattere".
    Non un movimento di "liberazione femminile" da un giogo maschile per loro storicamente inesistente, ma un movimento di lotta e difesa femminile accanto agli uomini. Il WARN lotta sul fronte politico denunciando medici e strutture responsabili di sterilizzazioni e aborti, tutelando e difendendo legalmente con
    propri avvocati donne native arrestate. Lotta sul fronte culturale per la riappropriazione dei valori indiani originali insegna alle donne come partorire in casa, attua un capillare lavoro di controinformazione e di denuncia.
    Un coordinamento legale di donne native in contatto con il WARN è l'"Indian Women United for Social Justice", che si occupa della difesa delle donne sterilizzate senza il loro consenso.

    Seconda Parte: Sterilizzazione: sterminio undergroud

    La spada, il fucile, il bisturi. Perchè accomunare uno strumento chirurgico che "salva", con delle armi che tolgono la vita? Perchè tale strumento rappresenta l'ultimo brevetto "made in USA" per un'efficace soppressione e senza molti clamori. Le prove contro i medici bianchi americani sono inoppugnabili: le donne indiane e gli altri gruppi etnici non-bianchi cominciano ad accusare, ad andare in tribunale. La struttura di potere ha coinvolto la classe medica relegando la scienza al puro servizio del profitto, programmando su scala industriale la sterilizzazione, legittimata attraverso le strutture di salute pubblica indiana ("Indian Health Service" finanziate dal governo e gestite da bianchi. Moltissimi medici provengono dall'esercito USA e svolgono in questi ospedali il loro "praticantato" sulle "cavie" indiane.
    Lee Brightman, presidente dei "Nativi Americani Uniti", stima che su una popolazione nativa di 800 mila persone, il 42 per cento delle donne in età fertile e il 10 per cento degli uomini siano già stati sterilizzati.
    Barbara Moore, della Riserva di Rosebud, South Dakota, rappresentante della Delegazione panindiana, in un'intervista alla rivista tedesca "Pogrom" ha dichiarato: "Quattro anni fa ero incinta e andai a un servizio di salute pubblica per far nascere il mio bambino. Non era necessario, ma fecero ugualmente nascere
    mio figlio con un parto cesareo; è tutto ciò che ricordo. Quando mi svegliai dall'anestesia mi dissero che mio figlio era nato morto. Feci effettuare l'autopsia, ma non fu trovata nessuna causa tale da provocarne la morte. Inoltre mi dissero che non avrei potuto avere altri bambini perchè avevano dovuto sterilizzarmi durante l'operazione, e quindi senza il mio consenso. In quel
    momento non potevo dire o fare nulla, ma appena uscita ho cominciato un lavoro di informazione sui pericoli per i nostri bambini, il nostro futuro, e insieme alle altre donne indiane abbiamo cercato il sostegno di tutte le organizzazioni. Molti casi vengono portati in tribunale, ma gli avvocati sono costosi e sono tutti bianchi... Dire queste cose rende tutto più difficile, perchè per rappresaglia intensificheranno le pressioni sulle nostre Riserve. Sono il lavoro sotterraneo di controinformazione, l'unità , la riappropriazione degli antichi metodi (parto in casa), che ci assicurano il rispetto per i nostri corpi e per i nostri figli".
    Molte donne indiane facevano visite di controllo all'IHS, e i medici prescrivevano loro vitamine quali ricostituenti: ma si è poi scoperto che la più parte di tali ricostituenti erano in realtà antifecondativi...
    Una giovane indiana con una ciste ovarica fu convinta a farsi praticare un'isterectomia (completa rimozione degli organi riproduttivi), sebbene la pratica medica comune limiti, in molti casi, l' intervento alla sola rimozione della ciste... La madre di una puerpera fece sterilizzare sua figlia ancora sotto anestesia subito dopo il parto: era stata convinta dal medico che se sua figlia avesse cercato di avere altri bambini sarebbe morta la figlia, venne poi accertato, non correva affatto tale pericolo, e quanto alla madre... era stata lei stessa a sua volta persuasa a lasciarsi sterilizzare con un pretesto simile! Una ricerca fatta a Claremore, ospedale dell'Oklahoma, fornì dati interessanti: nel
    1973 ben 132 donne erano state sterilizzate, e 52 nel solo luglio 1974.
    La prima inchiesta ufficiale sulla sterilizzazione dei popoli nativi condotta nel 1975 dalla dottoressa Connie Uri, medico choctaw, per l'allora senatore James Abourezk, documentò che 3406 donne indiane erano state sterilizzate nelle strutture per la "Sanità indiana" di Oklahoma City, Phoenix, Aberdeen . Tali
    atrocità erano state commesse in violazione alla legge del 1974 (le regolamentazioni sul consenso) che indica severe linee di condotta: "Nessuna donna può essere sterilizzata prima di 72 ore dal parto, alla paziente vanno fornite dettagliate spiegazioni sull'operazione, sui suoi effetti e pericoli; inoltre, alla donna va dichiarato che nessun sussidio o altri benefici possono essere negati quale sanzione per il rifiuto della sterilizzazione, il cui formulario di consenso va eventualmente firmato in presenza di un testimone scelto dalla paziente, che può cambiare idea (indipendentemente dal fatto che abbia o meno già firmato il formulario) in qualsiasi momento".
    Queste leggi sono rimaste lettera morta nei confronti dei popoli nativi; l'"Indian Health Service" è presente in tutti gli USA con strutture che regolano e pianificano la vita e la morte indiana: da recenti studi si calcola che ogni struttura pratica circa 3000 sterilizzazioni l'anno. Nel contempo i fondi stanziati per la salute sono stati limitati, al contrario di quelli per il controllo delle nascite. L'HEW ("Ministero della Sanità , Pubblica istruzione e Assistenza sociale" ha aumentato il suo bilancio per la pianificazione delle nascite da 51 a oltre 250 milioni di dollari nel solo periodo 1969-1974.
    Gli altri gruppi etnici non sono certo risparmiati. Una ricerca del 1970 ha stabilito che il 20 per cento delle donne nere sposate è stato sterilizzato. Nel 1972-1973, negli ospedali municipali di New York City, che curano quasi esclusivamente portoricani, le sterilizzazioni aumentarono del 180 per cento, e ormai il 35 per cento delle donne portoricane non può più avere figli. In
    Colombia, in soli due anni la "Federazione Internazionale per le Nascite Pianificate" (finanziata dalla "Fondazione Rockefeller" ha sterilizzato 40 mila donne; in sei anni, in Brasile, oltre un milione. Gli Stati Uniti hanno aumentato nell'ultimo decennio gli stanziamenti per il controllo demografico di oltre il 700 per cento, portando a oltre il 60 per cento la propria partecipazione ai contributi mondiali relativi alla pianificazione delle nascite.
    Il disegno americano (così sapientemente articolato e di così difficile individuazione) per il "contenimento" delle minoranze etniche per motivi economico-culturali, diventa realtà . La dottrina malthusiana fa scuola.
    Circa 200 mila donne di ceto popolare sterilizzate negli USA nel solo 1973 danno una prova evidente di tale disegno.
    Il potere economico non concede tregua: "Il controllo demografico è necessario per mantenere la normale attività degli interessi commerciali americani nel mondo. Cento milioni di donne dovrebbero essere sterilizzate affinchè gli Stati Uniti raggiungano le mete prefissate" - sono parole del dottor R.T. Ravenholt, direttore
    dell'Ufficio controllo demografico dell'"Agenzia governativa USA per lo Sviluppo Internazionale" (AID), registrate in un'intervista al "St. Louis Post Dispatch". Parole di genocidio che gli Stati Uniti hanno ripetuto, amplificandole, in Vietnam, in Cambogia, e che ripetono da anni in America Latina e in tutta l'Africa.

    FONTE: Frecce spezzate (articolo a cura di Nando Minnella)

    Edited by egiziana - 13/3/2015, 10:07
     
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    Donne in primo piano tra gli Indiani d'America

    Mentre in Italia negli ultimi mesi si è discusso sul progetto delle quote rosa, nato con l’intento di favorire la presenza femminile nelle istituzioni governative, gli indiani d’America hanno confermato il loro trend di crescita a proposito del ruolo dirigenziale rivestito dal gentil sesso. Gli indiani d’America? Si proprio loro; i nativi del continente di Oltreoceano massacrati e costretti nelle riserve dalla conquista del popolo bianco verso Ovest, in quella triste parentesi che molti film americani hanno immortalato come la giusta lotta contro l'immorale e feroce selvaggio.
    La notizia è stata pubblicata questa settimana dal New York Times con un articolo firmato da Monica Davey, la quale non si limita a registrare il semplice fatto che una donna – l’ennesima – sia ascesa al ruolo di capo tribù, ma ripercorre e ricostruisce la storia degli ultimi anni delle comunità indiane negli States, evidenziando il lungo e difficile percorso di emancipazione che le donne hanno portato avanti nelle proprie società d’origine. Prendendo spunto dall’ ultima elezione di Cecilia Fire Thunder a capo della mitica tribù Oglala Sioux, ricordata per i suoi storici capi Cavallo Pazzo e Nube Rossa, la giornalista del N.Y.T. ricostruisce il difficile cammino della Thunder, facendone un esempio di tutte quelle donne indiane che hanno percorso una strada simile. Il successo di Cecilia è stato solo l’apice di un iter difficile e osteggiato, passato perfino attraverso il tentativo di un “impeachment” promosso da parte di alcuni membri del clan che le rivolgevano l’accusa di una politica finanziaria discutibile e di una tendenza a ignorare i desideri degli anziani. Alla fine però, il Consiglio della tribù ha lasciato cadere la denuncia e ha confermato la fiducia alla Thunder. Così, Cecilia può vantarsi oggi di essere la prima donna presidente degli Oglala Sioux, cioè della seconda riserva più grande del paese e fra le più importanti per emancipazione femminile. Dal 1999 sono ben 11 le donne che siedono a capo del consiglio che guida le rispettive tribù. E dal 2006 il numero delle donne capo è di 133 in rapporto alle 560 comunità esaminate. Vivian Juan-Saunders dei Tohono O’odham in Arizona, Wilma Mankiller dei Cherokee in Oklahoma o Erma J.Vizenor dei Ojibwe in Minnesota sono solo alcuni nomi di queste nuove leader rosa. Per non parlare di Susan M. Masten, prima donna a presiedere il Congresso Nazionale degli Indiani d’America. La Thunder, che ha studiato in California come infermiera e vanta un curriculum di pasionaria impegnata per i diritti della sua comunità e delle donne, ha lottato accanitamente anche al di fuori della sua tribù affinché agli indiani fosse garantita la possibilità di cura e le donne fossero protette dalla violenza domestica.
    Ma come ricorda la Davey, la crescita della leadership femminile non può essere compresa se non all’interno di una più generale partecipazione delle donne indiane all’istruzione. Nello scorso anno infatti, uno studio del Centro nazionale per le statistiche sull’educazione ha reso note le percentuali di questo incremento: le indiane laureate avrebbero raggiunto il numero di 5.945 contro 3.858 colleghi maschi. Proprio questa crescita culturale, congiuntamente allo svilupparsi di un fenomeno del tutto nuovo e curioso all'interno delle riserve, cioè quello della costruzione di grandi e immensi casinò, è considerata da molti studiosi la causa che ha favorito l'imposizione delle indiane alla guida delle tribù. La necessità di gestire le entrate finanziarie garantite dai centri di gioco avrebbe infatti significato un aumento della domanda di personale tecnicamente qualificato. Così le donne, istruitesi nelle scuole americane e quindi maggiormente competenti, hanno risposto
    a questa domanda, divenendo insostituibile nell'amministrazione finanziaria delle riserve. Il che ha naturalmente significato una crescita del loro peso ideologico e sociale all'interno delle comunità e ha aperto la strada ad una loro ascesa anche politica. Favorita, per altro, dal fatto che gli stessi uomini sono impegnati su altri fronti, come la lotta contro l’alcolismo, la disoccupazione e la povertà che stanno dilagando nelle riserve. Eppure, questa positiva rivincita femminile all’interno delle tribù è stata il frutto di un cammino lento e difficile, che ha portato le donne a confrontarsi con i più antichi tabù maschili. Ma è stata forse la componente femminile la realtà che ha manifestato maggiore resistenza verso le “cape” tribù. L’anziana Marie Randall per esempio, in occasione dell’elezione della Thunder, ha accusato la neo-leader, vestita all’indiana per festeggiare la sua vittoria, di “volersi solo abbellire” e di “aver tradito la tradizione Lakota quando ha deciso di studiare all’estero”. Specificando che “il problema non è che sia una donna a governarci, ma che tipo di donna”.
    Interrotte continuamente nei dibattiti, ignorate quando propongono un cambiamento o una riforma, scambiate sprezzantemente per parte dello staff segretariale: le donna indiane continuano la loro battaglia per il riconoscimento della propria leadership. Un’ascesa al potere che ha comportato, pur fra tante difficoltà, un positivo cambiamento della stessa agenda politica delle tribù, oggi più sensibili al problema dell’assistenza all’infanzia, dei servizi sociali e dell'educazione.
    Un percorso che non è stato indolore per le stesse indiane che ne sono state le dirette protagoniste, che come ricorda Rebecca Miles, trentenne eletta alla presidenza del Comitato esecutivo della tribù dei Nez Perce nell’Idaho, vivono l’esperienza della divisione personale fra “difesa delle tradizioni a cui le indiane appartengono e che rispettano profondamente e quelle stesse tradizioni che non contemplano un governo delle donne”. Nonostante le difficoltà e le ambiguità, il cambiamento al timone di comando realizzatosi nella comunità dei nativi d’America rappresenta certamente un segnale nuovo, che in tempi come questi potrebbe far riflettere anche chi, qui in Italia, ancora si dispera all’idea di dividere lo scranno con le sue colleghe.

    (Fonte www.wayaka.org)
     
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