E questa la sapevi?!

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  1. la sirenetta
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    Il ghiacciaio ucciso dalle lunghe estati

    Fino a qualche decennio fa una depressione come «Christine», che a inizio settembre si è formata sul Mediterraneo interrompendo la grande calura, ci avrebbe proiettati definitivamente nell’autunno. E invece, in linea con la tendenza alle estati sempre più lunghe e roventi, il caldo si è subito ripreso, e anche la sventagliata fresca attesa per metà settimana non segnerà ancora la fine dell’estate.

    A subire questa situazione nuova e anomala sono prima di tutto i ghiacciai alpini, che anche quest’anno hanno sofferto pesanti regressi. All’inizio degli Anni Duemila come meta delle escursioni didattiche per gli studenti sceglievo il ghiacciaio di Pré de Bar, al fondo della Val Ferret, nel massiccio del Monte Bianco. In quaranta minuti di comoda passeggiata anche chi non aveva mai visto un ghiacciaio poteva stupirsi dinanzi a una gigantesca colata glaciale a forma di coda di castoro, che divallava dai 3820 metri del Mont Dolent e si allargava nell’ampia conca da dove nasce uno dei due rami della Dora Baltea. Anche se dai cordoni morenici ottocenteschi bisognava ancora camminare un chilometro e mezzo prima di toccare il ghiaccio a causa del ritiro intervenuto dopo la Piccola Età Glaciale, il supplemento di marcia era ampiamente ripagato da una spettacolare fronte di ghiaccio pulito e luccicante dentro il quale si aprivano grotte e crepacci dai riflessi azzurrini.

    I ragazzi incuriositi accarezzavano il gigante gelato, ascoltavano le sorde note della deformazione del ghiaccio in lento movimento, respiravano la fresca brezza glaciale, assaggiavano cristalli di acqua solida vecchi forse di qualche secolo. Un manuale di glaciologia a cielo aperto. La lezione sul campo terminava sul magnifico terrazzo del Rifugio Elena, a 2060 metri, perfetta stazione fotografica per il confronto, anno dopo anno, tra la situazione passata e presente.

    Pochi giorni fa sono tornato al Pré de Bar. Non credevo di assistere a una trasformazione morfologica e ambientale tanto rapida e vistosa. Nel giro di un quinquennio la gran coda di castoro, ampia, turgida e bombata è stata praticamente amputata dalla fusione. Ne resta un lembo divorato da caverne e crolli, ghiaccio scuro, come asfaltato, carico di sabbia e rocce, un residuo agonizzante in attesa di consumarsi sotto il sole. La gran seraccata che lo alimentava si è interrotta con l’emersione di un affioramento roccioso e dalla nuova fronte sospesa sgorga un impetuoso torrente di acque torbide e lattiginose. Il nero ghiaccio morto che ancora occupa il bacino morenico si consuma al tasso di 5-7 metri di spessore e 20-30 metri di lunghezza ogni anno, e nel giro di poche estati sarà sparito, lasciando spazio a una desolata pietraia.

    Il nuovo punto terminale del Pré de Bar è ora quattrocento metri più in alto, appeso a un ripido scivolo roccioso, e presto sparirà alla vista ritirandosi negli alti pianori sovrastanti. Non porterò più i miei studenti tra queste cataste di massi.

    L’aumento di temperatura potrebbe, secondo le più recenti simulazioni come quella del glaciologo Matthias Huss dell’Università di Friburgo, spazzare via entro il 2100 oltre l’80 per cento dell’odierna area glaciale delle Alpi. Agli studenti del ventunesimo secolo non mi resterà dunque che mostrare su computer il ghiaccio digitale del Pré de Bar.

     
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  2. la sirenetta
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    I turisti estremi ora fanno rotta
    verso il Polo Sud

    polo-sud

    Affrontare i ghiacci dell’Antartide sorseggiando un drink, comodamente seduti dietro una vetrata del bar di una nave da crociera, oppure risalire il Rio delle Amazzoni e alcuni suoi affluenti ascoltando i mille suoni della giungla. Oggi è possibile, anzi, la crociera avventurosa sta diventando un fenomeno di tendenza. È un aspetto di quel grande mercato delle crociere che cresce cercando sempre nuovi clienti con offerte sbalorditive.

    Sono nate così quelle che internazionalmente vengono chiamate «Expeditions and Nature Cruises» e che si rivolgono a chi, avendone la possibilità, nasconde nel proprio carattere un po’ di Indiana Jones. Queste crociere non possono ovviamente essere fatte con quella sorta di Las Vegas naviganti che sono i moderni bastimenti destinati al turismo. Si fanno con unità piccole, spesso con soluzioni abitative spartane, senza occasioni di divertimento a bordo salvo le conferenze preparatorie di naturalisti o scienziati.

    Nella maggioranza dei casi le navi hanno scafi rinforzati per reggere l’eventuale pressione dei ghiacci, quando non si tratta di autentici rompighiaccio trasformati all’interno. Le aree di maggior attività sono da luglio a settembre quelle artiche, e da novembre a marzo le antartiche. Negli altri mesi le cosiddette «Expedition Vessel» visitano le più lontane fra le isole del Pacifico, le coste della Papua-Nuova Guinea o risalgono i fiumi tropicali.

    L’idea per questa forma di turismo nautico, spesso estrema, venne nel 1966 a un imprenditore svedese, Laris Eric Lindblad, che tre anni dopo battezzò la sua piccola ma solida nave Lindblad Explorer. Oggi la società Lindblad Expeditions, con sede negli Stati Uniti, dispone di una flotta di cinque piccole navi che operano con la supervisione della celebre National Geographic Society di Washington. L’ammiraglia è la National Geographic Explorer di 6500 tonnellate di stazza lorda in grado di trasportare un massimo di 180 passeggeri.

    Anche l’Italia è entrata in questo particolare business. Infatti la compagnia Silversea, di proprietà di una famiglia romana, mantiene in attività la Silver Explorer di 6000 tonnellate di stazza, con 130 posti letto in ampie suite, prima unità del genere che garantisce a bordo anche il lusso e il comfort. La stessa compagnia ha acquisito in questi giorni la Galapagos Explorer II di 4000 tonnellate per 110 passeggeri, che verrà utilizzata per la scoperta del celebre arcipelago di cui porta il nome, reso famoso da Darwin.

    Anche il colosso pubblico Fincantieri merita di essere citato, perché dai suoi scali è scesa in mare una delle più moderne «Expedition Vessel», la Fram, di circa 11 mila tonnellate di stazza: ospitando fino a 320 passeggeri, va considerata la più grande nave dell’avventura oggi in attività. Poco più piccole sono altre due navi costruite da Fincantieri, L’Austral e la Boreal della società francese Compagnie du Ponant.

    Va comunque segnalato che queste crociere sono decisamente più costose di quelle sulle normali meganavi. Per esempio, l’itinerario classico della Fram, che appartiene alla compagnia norvegese Hurtigruten, della durata di 15 giorni, con partenza e arrivo a Ushuaia, nell’estremo Sud dell’Argentina e almeno cinque giorni di navigazione in Antartide, costa poco più di 7.000 euro, compreso il volo di andata e ritorno dall’Italia.

    Il pezzo forte delle crociere-avventura, che si sta concludendo in questi giorni, è il Passaggio a NordOvest, ovvero la navigazione dall’Atlantico al Pacifico sfiorando il Polo Nord, resa ora più facile dalla diminuzione della superficie ghiacciata. La prima nave da crociera a riuscire nell’impresa fu proprio la Lindblad Explorer, che forzò il passaggio nel 1984. Anche quest’anno, come avviene dal 1995, passano due famose navi tedesche, il Bremen e l’Hanseatic della Hapag Lloyd di Amburgo. Una sola nave da crociera è invece riuscita a circumnavigare l’Antartide. Si tratta dell’ex rompighiaccio sovietico Kapitan Klebinikov, la stessa che ha portato lo scorso luglio alcuni Indiana Jones improvvisati fino al relitto del Titanic con speciali sottomarini da profondità.

     
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  3. *Sjiofn*
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    pecora

    L'ultima idea per difendersi dai lupi la pecora può inviare sms al pastore

    Attenti al lupo. Solo che stavolta non c’è bisogno di urlarlo. Provvede direttamente la pecora minacciata: via sms sul telefonino del pastore. Incredibile ma vero. Beh, anzi beee, anche questo è progresso.

    Come progresso sono certamente state tutte le campagne per salvare i lupi dall’estinzione. Proteggi oggi, proteggi domani, il lupo ha fatto il suo grande ritorno sulle montagne francesi. Attualmente, ce ne dovrebbero essere circa duecento, concentrati soprattutto nel sud-est e specie nella catena montuosa dei Vosgi, grosso modo nell’angolo di Francia fra la Svizzera e la Germania. E il lupo, naturalmente, fa il suo mestiere: mangiarsi la pecora. I numeri sono lì. Nel dipartimento dei Vosges, l’anno scorso ci furono 12 attacchi ai greggi con 46 vittime. In questo, sono già stati 48 con 165 ovini uccisi. Dunque il problema diventa vagamente biblico: chi protegge dai protetti? Tutte le soluzioni escogitate finora si sono rivelate fallimentari. Lo Stato ha sovvenzionato gli allevatori perché acquistassero una razza particolare di cani da pastore, che però ha l’inconveniente di attaccare, oltre ai lupi, anche chi passeggia in montagna, quindi salva le pecore ma deprime il turismo. Poi si è pensato di installare dei recinti elettrificati, ma in quota è difficile e costoso. Infine, il Dipartimento dei Vosgi ha installato cinque macchine che diffondono musiche e flash luminosi che dovrebbero spaventare i lupi, che però hanno mangiato la foglia e continuano a mangiare le pecore.

    Finalmente, un inventore, manco a dirlo svizzero (dopo l’orologio a cucù, un altro contributo al progresso mondiale) ha messo a punto il collare antilupo. Da vedere, sembra un banale collare da pecora, concesso e non dato che le pecore siano solite portarne. In realtà, contiene un sofisticato «cardiofrequenzometro» che monitora il ritmo cardiaco dell’animale.

    Il sistema difensivo dovrebbe quindi funzionare così. Quando il lupo si avvicina, la pecora si agita e la sua frequenza cardiaca inizia a salire. Allora si attiva il collare, che prima fa schizzare tutt’intorno una sostanza lupo-repellente e poi fa partire un sms in direzione del telefonino del pastore. Il quale deve essere molto veloce, precipitarsi sul luogo del delitto e sventarlo.

    Detta così, sembra una follia. Pare invece che funzioni. O almeno gli svizzeri ci stanno lavorando. Jean-Marc Landry, biologo ed etologo che sta collaborando al progetto, spiega al «Parisien» che «questi collari si adatterebbero molto bene alla pastorizia dei Vosgi, composta di molti piccoli greggi in luoghi chiusi che non possono essere tutti sorvegliati dal cane pastore». Adesso si tratta di trovare un finanziatore e poi di commercializzare i collari antilupo.

    Resta naturalmente da chiedersi se valesse la pena di battersi per la salvezza del lupo per poi impedirgli di mangiare le pecore, come fa da che mondo è mondo e da che lupo è lupo. A meno che, dopo la pecora che manda sms, non si inventi anche il lupo vegetariano.

     
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  4. la sirenetta
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    Ogni dio ha l'albero che si merita

    Cammina sempre in linea retta e, se manterrai la direzione, riuscirai a uscire dal bosco». Con questo semplice consiglio, formulato nel 1637 nel suo Discorso sul metodo, Cartesio tracciò la linea sottile, diritta, indelebile che separa una volta per tutte la natura dalla cultura. Davvero bastava un gesto, evidente come un dito puntato, per venire a capo del luogo - il bosco - per eccellenza più selvaggio, vergine, incontaminato, incolto: il contraltare esatto del logos coltivato dalla ratio occidentale? Ce lo chiediamo adesso, all’inizio del 2011 che è stato proclamato dall’Assemblea delle Nazioni Unite l’anno internazionale delle foreste, come se lo chiedono i filosofi dacché il padre del pensiero moderno - Cartesio appunto - impose la rettitudine delle sue coordinate, l'orientamento infallibile degli assi cartesiani all’intrico di vegetazione per antonomasia inestricabile e impenetrabile. Ce lo chiediamo oggi e la domanda è: dove si trova mai, dov’era ai tempi di Cartesio, lo spazio di una natura inviolata e inviolabile? La questione non ha nulla a che vedere con il degrado ambientale, i disastri ecologici e la moria delle foreste amazzoniche. È una questione squisitamente culturale: di approccio, di metodo.

    La foresta di cui è plausibile immaginare che l’autore del Discorso sul metodo avesse esperienza più diretta è quella di Compiègne, poco lontano da Parigi: una tenuta (molto ben tenuta) dov’era impossibile perdersi, una riserva di caccia che più riservata e esclusiva non poteva essere, un parco giochi per la famiglia reale. Paradossale la messinscena di un bosco che di fatto era un giardino. Ma non è per rimpiangere una natura originaria e perduta che si fa qui questo esempio. Di fatto, nell’Occidente moderno, più o meno da Cartesio in giù, il bosco è il luogo geometrico delle più raffinate (talvolta aristocratiche) astrazioni e costruzioni culturali. Metafora dell’inconscio nelle favole, meta di escursioni per i viandanti romantici, fonte di ispirazione per poeti e pittori, sfondo di meditazione per i pensatori, costituisce l’aldilà della ragione cui la ragione non può fare a meno di aspirare.

    Cammina sempre dritto e uscirai dal folto. O ritorna sui tuoi passi e scegli di avventurartici… Se invece si volesse prescindere dallo spartiacque tracciato col righello da Cartesio per stabilire il binomio natura/cultura, ragione/avventura? Ci ritroveremmo in una foresta di simboli. Un mondo popolato di dèi, esseri fantastici, creature mitologiche e magiche. Una dimensione dallo spessore evocativo così profondo che le squadrate ascisse e ordinate non basterebbero a sondarla.

    Ci riescono meglio i ghirigori - elegantissimi - di Émilie Vast che in punta di matita disegna il profilo delle latifoglie europee, non più di una ventina di specie, per raccoglierle nel suo meraviglioso erbario (L’erbario di Émilie Vast. Latifoglie d'Europa, Salani, 48 pp. 18 €). Sfogliandolo, leggendo le sue brevi, fiabesche notazioni, impariamo che nell’antica grecità l’acero era dedicato a Febo, il dio del terrore figlio di Ares dio della guerra, e i suoi rami potevano mettere in fuga il nemico in battaglia. Il castagno fu creato da Giove per la casta ninfa Nea, che a quel divino innamorato volle rifiutarsi dandosi la morte. Il noce era l’albero di Caria, l’amata di Dioniso, e anche di Persefone, la regina degli inferi: dunque un emblema ambiguo di fecondità e di desolazione. L’olmo invece era caro a Ermes, il solare messaggero degli olimpi, come agli Oneroi, le divinità della notte e del sogno. Ma non solo l’Ellade venerò piante tanto longeve, possenti, maestose. La quercia, maestà incontrastata delle foreste, fu sacra al greco Zeus, al latino Giove come a Thor, il dio del tuono della mitologia norrena, mentre i Druidi, che credevano nelle virtù magiche dei suoi germogli, li raccoglievano con falci d’oro per ornarne le corna di tori bianchi… La betulla, simbolo di purezza, saggezza e scienza, fu oggetto di culti sciamanici, adorata dagli amerindi e dalle popolazioni nordiche. Il faggio era foriero di luce e pilastro dell’anno solare per i Celti. E il grande frassino, Yggdrasil, che toccava con le radici il mondo infero e con le chiome quello celeste, era l'albero cosmico degli Scandinavi e dei Germani.

    Sono giganti soprannaturali, eppure vivi: ancora oggi da ammirare in una natura resa significativa dai culti e dalla cultura. Li troviamo nelle foreste di Verzy, vicino a Reims, dove crescono i sontuosi faggi ritorti festeggiati al solstizio d'inverno. Nei boschi di Fontainebleau, dove tuttora vegeta la quercia di Giove. Sull’isola di Kos, dove con una corona di quattordici metri di diametro getta ancora la sua ombra il grande platano d’Ippocrate. Pare che il fondatore della medicina visitasse i pazienti sotto le sue fronde, confortandoli con la visione di quel simbolo di rigenerazione sul cui grande tronco levigato la corteccia ricresce sempre a placche come la pelle di un serpente. Ma non c’è albero che non sappia dare lo stesso conforto: perché l’albero, messo a fuoco dall’occhio che lo osservi con rispetto come depositario di antica sapienza, è per i popoli di ogni tempo tra i più grandi simboli della vita.


     
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  5. *Sjiofn*
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    eugenetica

    L'eugenetica maledetta dal tabù nazista

    Fin dal titolo il nuovo libro di Carlo Alberto Defanti Eugenetica: un tabù contemporaneo. Storia di un’idea controversa (Codice edizioni Torino 2012, 23 euro), evoca l’emarginazione cui è stata sottoposta l’eugenetica storica sul piano conoscitivo. Purgatorio dovuto al fatto di aver identificato riduttivamente quest’idea con la sua manifestazione più clamorosa, il razzismo nazista della prima metà del Novecento. Identificazione che le è costato il prolungato silenzio critico e storico da cui detta idea ha cominciato a uscire solo di recente.

    L’aver rinchiuso l’eugenetica nel baule delle vergogne, dimenticando le manifestazioni più problematiche di quell’idea, ha rischiato di favorire chi ha cercato in seguito di seguirne le tracce sotto le mentite spoglie della genetica. Fenomeno, questo, evidente nei titoli di alcuni testi citati da Defanti: quello del sociologo americano Tony Duster Backdoor to Eugenics («La porta posteriore dell’eugenetica») 1990 e un articolo di Diane Paul Is Human Genetics Disguised Eugenetics («la genetica sugli umani è eugenetica camuffata?»). Ma al di là del pericolo descritto, rischio che riguarda l’attualità, sta di fatto che da un punto di vista più generale la lettura della cultura dell’Ottocento e del primo Novecento da cui l’idea eugenetica è stata rimossa perché indegna è una lettura purtroppo impoverita. Per sbagliata e perversa che sia stata, l’idea eugenetica ha comunque mosso una cospicua parte del pensiero otto-novecentesco uscito dal cappotto di Darwin. Lo sconvolgimento prodotto dal naturalista inglese è stato, per ciò che riguarda la perduta centralità dell’uomo rispetto alla natura, pari allo shock prodotto da Copernico per ciò che ha riguardato a suo tempo la perduta centralità del pianeta terra rispetto all’universo. In soccorso dell’uomo privato del suo ruolo tradizionale, smarrito a seguito del fatto di essere stato gettato nel coacervo dell’evoluzione naturale che lo riguardava insieme al resto del creato animale e vegetale, si sono espressi i più celebri nomi dell’eugenetica storica.

    In questa luce i testi di scienziati, antropologi, filosofi come A. B. Morel e O. Spengler per limitarci ai pessimisti, o quelli di F. Galton, H. Spencer e G. Vacher de Lapouge e financo i romanzi di E. Zola e H. G. Wells, acquistano peso per la visione eugenetica in cui sono immersi. Il sospetto suscitato dalla teoria evoluzionistica darwiniana che la fase della selezione naturale si fosse conclusa, unito al timore che i meccanismi di protezione dei più deboli potessero sostituirsi alla selezione stessa, inceppando così il motore evolutivo, furono sufficienti ad attivare il darwinismo sociale, potente motore dell’eugenetica. Tra il ricovero in istituti come La Piccola Casa della Divina Provvidenza del Cottolengo dei disabili e il programma eugenetico delle «vite indegne di essere vissute» da eliminare, occorreva trovare una mediazione che facesse dimenticare il patto faustiano tra scienza medica e regime totalitario, la prima bisognosa di autorità e potere per affermarsi, il secondo pronto a offrirlo in cambio di legittimità scientifica.

    Ciò detto per quanto riguarda il ruolo determinante dell’eugenetica storica, resta da far presente come non vadano dimenticati i campi di azione in cui quest’ultima fece sentire la sua influenza sebbene in maniera indiretta o in tono minore di quanto non avvenne per il razzismo. Senza il contributo dell’eugenetica storica, infatti, l’intervento dello Stato nell’igiene pubblica, nella sanità e nel welfare non avrebbero preso la dimensione assunta nel corso del tempo. Lo stesso dicasi per ciò che riguarda l’impulso dato alla biologia, alla scienza e alla tecnica, in genere al progresso di cui l’industria e la proletarizzazione delle masse urbanizzate non tardarono a mostrare i volti della degenerazione e della decadenza, gli incubi rappresentati dagli scrittori naturalisti come Zola e Dickens per fare due nomi tra i più noti. Di qui la nostalgia per la perduta purezza delle razze sentita da Gobineau, il senso del tramonto dell’Occidente descritto da Spengler, l’auspicata riforma della Giustizia per fronteggiare l’emersione degli atavismi criminali delineati da Lombroso, il sorgere del bisogno di separare la sessualità dalla procreazione, la voluttà e il piacere dalla riproduzione, come richiesto da Vacher de Lapouge e l’accanirsi del confronto tra natura e cultura, tra qualità innate (ereditate) e ambiente in senso lato.

    Se il pericolo di rimuovere l’idea eugenetica vale per il passato nei modi sopra descritti, in diversa misura vale anche per oggi sebbene in presenza di un contesto sociale, scientifico e culturale completamente mutato. Se infatti l’affermarsi dei diritti individuali, umani, soggettivi dei disabili e delle garanzie come quella del consenso medico informato da una parte e la realtà dei passi da giganti compiuti dalla biomedicina, dalla genetica dall’altra, sono insieme una rassicurazione che gli orrori razziali trascorsi prodotti dall’eugenetica sono solo un ricordo, questo non toglie che l’idea eugenetica sia del tutto sconfitta. La pratica del counseling genetico, per fare un esempio, può nascondere forme di imposizione demografiche legate alla concessione di licenze matrimoniali vantaggiose. La possibilità della manipolazione della vita resta pertanto una minaccia che il business procreativo è in grado di coprire dietro promesse di qualità della vita. La massima confuciana secondo la quale la vita non inizia prima della nascita lascia molte strade aperte alla biopolitica.

     
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  6. la sirenetta
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    La leggenda delle mandorle

    E' un nettare squisito e noto in tutto il mondo, una bevanda dal sapore delizioso, molto dissetante e aromatica, che viene servita anche in forma di granita e con il caffè. Il latte di mandorla è una bevanda non alcolica, tipica della Sicilia, ma famosa anche in Puglia, Basilicata, Calabria e Campania, tanto che la regione Puglia l'ha inserito nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani.

    La mandorla è un frutto ricco di benefici per la salute della donna e per la fertilità maschile, ma sono le mandorle provenienti dalla Sicilia, precisamente la qualità della mandorla pizzuta di Avola, che possiedono caratteristiche superiori rispetto ad altre mandorle. Il sapore e il profumo della mandorla siciliana, infatti, è più intenso e migliore grazie al grande contenuto di amigdalina e contiene importanti quantità di vitamina E, calcio, magnesio, proteine vegetali, omega 3.

    In Sicilia spesso la bevanda viene allungata con acqua fredda solo al momento di servirla: e in questo caso si conserva la polpa filtrata in un contenitore ben chiuso in frigo e se ne prende una parte ogni volta che si vuole gustare il latte di mandorle, mentre il trito di mandorle che rimane a fine lavoro può essere utilizzato per impastare dei dolci o preparare il gelato. La polpa di mandorle tritata finemente, con l'aggiunta di poco latte, è un'ottima crema nutriente per la pelle del viso, un rimedio del tutto naturale.

    Se molti in estate si rinfrescano con questa tipica bevanda, pochi sanno che la leggenda della sua origine nasce in Grecia, da una struggente storia d'amore. Si narra infatti che Fillide, una principessa Tracia, incontrò Acamante, figlio di Teseo, di passaggio durante la navigazione verso Troia. Nonostante fossero innamorati, il combattivo Acamante fu costretto a seguire gli Achei per la guerra di Troia e la giovane principessa, dopo aver atteso per dieci anni il suo amato, non vedendolo tornare si lasciò morire dal dolore.

    La dea Atena, commossa da questa struggente storia d'amore, decise di trasformare Fillide in uno splendido albero di mandorlo. Quando Acamante fece ritorno abbracciò la pianta con tutto il suo amore e la pianta, per ricambiare le sue carezze, fece prorompere dai suoi rami fiori, anziché foglie. Da quel giorno, quando i fiori del mandorlo annunciano l'arrivo della primavera, l'abbraccio torna a ripetersi in tutta la sua storia.

    A causa del loro elevato apporto calorico (quasi 600 calorie per 100 grammi), le mandorle devono essere consumate con una certa moderazione, non più di 10-15 al giorno, anche se hanno notevoli proprietà benefiche. Oltre ad essere un ottimo integratore di vitamine, il latte di mandorla riscaldato e unito ad un cucchiaino di miele di eucalipto si rivela un eccellente rimedio per la tosse ed è considerato anche come un riequilibrante dell'umore grazie alle sue proprietà antidepressive.

    Inoltre è indicato come rinfrescante intestinale e delle vescica, come impacco tonico per la pelle disidratata e irritata e toccasana le donne che soffrono di osteoporosi.




     
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  7. *Sjiofn*
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    businessman_corbis_g

    Gli analitici lo fanno meglio

    Il Convegno della Sifa, la Società Italiana di Filosofia Analitica, giunta al suo ventesimo anno, può essere una buona occasione per riflettere sul significato in largo senso «storico» della fortuna della filosofia analitica in Europa, e in particolare in Italia. Perché la filosofia analitica? Perché molti europei, formatisi alla filosofia «continentale» (in particolare francese, tedesca) hanno scelto di fare riferimento alla tradizione filosofica sorta ufficialmente con Bertrand Russell e George E. Moore nei primi anni del Novecento, e che verso la metà del secolo era diffusa quasi esclusivamente nei paesi di lingua inglese e in Scandinavia?

    Alcuni tra i padri della filosofia analitica italiana come Andrea Bonomi, Diego Marconi, Carlo Penco e altri iniziavano il loro percorso filosofico su Hegel, o Merleau-Ponty, ma lasciavano presto la filosofia europea per abbracciare una tecnica filosofica che certo allora (negli anni Settanta-Ottanta) non era di gran moda in Italia. Ma soprattutto negli ultimi vent’anni l’esodo dalla filosofia continentale verso la filosofia analitica è diventato se non una prassi consolidata, certo una tendenza chiaramente avvertibile.

    Sulla natura e le ragioni di questo shift le congetture sono molte. Imperialismo angloamericano? Kripke e Quine (filosofi analitici) come i McDonald’s? In realtà c’è almeno una questione da considerare, ed è che la filosofia analitica in linea di massima è «più seria». Sosteneva Michael Dummett (in Pensieri, De Ferrari, 2004) che un filosofo analitico si riconosce per due requisiti: l’uso, in modo più o meno ortodosso, dell’apparato basilare della logica moderna, fissato da Frege, e l’idea che la filosofia sia una seria impresa di soluzione di problemi. Se il primo requisito è la differenza specifica, il secondo è il genere prossimo, la condizione necessaria: non è filosofia analitica quel tipo di lavoro vago, leggero e autoironico, che era di gran voga negli anni Ottanta europei, al seguito di Derrida.

    Non è neppure filosofia analitica, avvertiva Dummett, quella sorta di antifilosofia minimalista, praticata a volte da Wittgenstein, o da certi filosofi del linguaggio ordinario. Si può forse discutere questa definizione. Hans Glock, in What Is Analytical Philosophy? (Cambridge University Press, 2008), offre un’ampia gamma di definizioni alternative. Certo è che quel modo «poco serio» di lavorare in filosofia, producendo slogan, o presentando tesi suggestive mal argomentate, che ha fatto la fortuna dei maîtres-à-penser francesi, sembra piuttosto lontano dallo spirito della filosofia analitica più certamente tale. D’altra parte il serissimo lavoro degli eredi di Kant e dell’idealismo tedesco, quando lascia da parte gli scopi puramente storiografici e ha ambizioni di innovazione teorica, spesso manca la presa con il presente proprio per la tradizionale estraneità della filosofia classica tedesca alla logica moderna.

    Dunque: meglio la filosofia analitica. È più seria, e - per il suo legame storico e naturale con la logica - più efficace e precisa. Ma bastano questi requisiti, per giustificare e anzi decidere la scelta a favore della filosofia analitica? Forse no, non bastano realmente. Il dibattito su «la filosofia analitica è davvero meglio?» percorre, serpeggiante, i social media. Come scrive sulla sua pagina di Facebook Francesco Berto, giovane e brillante filosofo analitico italiano (che ovviamente non lavora in Italia, bensì in Scozia), la filosofia analitica lascia a volte una vaga insoddisfazione, perché «manca la Weltanschauung, la visione d’insieme». Qualcuno potrebbe obiettare che, in un certo senso dell’espressione «visione d’insieme», forse non è del tutto vero. David Chalmers, per esempio, uno dei filosofi analitici che oggi vanno per la maggiore, sta per pubblicare Constructing the World, testo delle sue discusse e provocatorie lezioni tenute a Oxford nel 2010, in cui effettivamente «ricostruisce» il mondo intero.

    Ma direi che Berto non ha torto. L’eccesso di specialismo e il rigore «tagliuzzante» dell’argomentazione analitica (il famoso hairsplitting: tagliare il capello in quattro) lasciano a volte il lettore che cerca risposte a disagio, e come in sospeso. E non basta la scusante: «questa non è filosofia popolare, bensì professionismo», perché il sospetto che un simile giocare con i dettagli a volte non sia neppure professionismo (e meno che mai filosofia) resta in azione.

    Naturalmente, non tutta la filosofia «non analitica» non è seria, o non è argomentativamente rigorosa, e forse solo un po’ di impegno antisofistico e di competenza logica potrebbero bastare. Perché probabilmente ciò che Michael Dummett descriveva nella sua ricostruzione è solo la buona filosofia: quella che cerca di dire qualcosa di nuovo, e di utile, sulle questioni di fondo che riguardano la vita individuale e collettiva.

     
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  8. la sirenetta
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    All'asta l'unico dipinto dei Beatles

    beatles

    L'unico lavoro che non ha niente a che vedere con la musica e che i Beatles abbiano mai realizzato insieme, ora cerca un nuovo proprietario.

    "Images of woman" è un'opera dipinta a quattro mani durante il tour giapponese della band, nell'estate del 1966.
    Per motivi di sicurezza, dopo aver ricevuto diverse minacce, i "baronetti" inglesi passarono lungo tempo chiusi in una camera d'albergo dell'Hilton Hotel di Tokyo. Per contenere gli esplosivi animi il loro manager Brian Epstein cercò di aiutarli a passare il tempo, presentandosi alla loro porta con una tela 30x40 centimetri con una lampada al centro, ed invitò ognuno di loro ad esprimersi dipingendone un angolo.

    A quadro terminato, i Beatles firmarono il cerchio centrale rimasto bianco perché occupato dalla lampada, e regalarono il quadro a Tetsusaburo Shimoyama, dirigente di un'industria di spettacolo giapponese.
    L'opera, rimasta per lunghi anni di proprietà della moglie del dirigente, fu venduta all'asta nel 1989 per passare nelle mani di Takao Nishino, un appassionato giapponese della band.
    Il dipinto rimase per tre anni appesa al muro del suo salotto per poi essere conservata in un posto al riparo dall'umido.

    L'evento si terrà il 14 settembre presso la casa d’aste statunitense Philip Weiss e non c'è ancora una stima ufficiale sul costo, ma secondo gli esperti si potrebbe arrivare ad almeno 370 mila euro.


     
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    londra01g

    Non ha più nebbie la Londra di Holmes

    Era una mattina nebbiosa e sopra i tetti delle case gravitava un velo che pareva rispecchiare la superficie fangosa delle vie». John Watson, ufficiale medico di Sua Maestà rientrato da poco dall'Afghanistan con una fastidiosa ferita di guerra, descrive con puntiglio la Londra che sta attraversando di corsa diretto a Brixton, risucchiato dal caso de Il Segno dei quattro, il suo avventuroso esordio al fianco di Sherlock Holmes. Siamo all'inizio del marzo 1881, la primavera è vicina, eppure la capitale è sospesa in un clima vaporoso e inclemente, nel magico tempo vittoriano che alimenta le fantasie di chi ama i libri. Il sipario s'alza nel teatro di mille crimini e delle imprese del primo grande detective privato della storia della letteratura gialla. A Londra le grandi nebbie non ci sono da anni, da quando il Clean Air Act ha sconfitto il pesante inquinamento da carbone. La metropoli ha smarrito un pezzo di anima in nome della modernizzazione che da sempre la cambia e la rinnova. Sebbene possa vantare «la piccola mania di conoscere esattamente Londra», Holmes si troverebbe spaesato in parecchi angoli della capitale, anche se resistono numerose le tracce della stagione in cui lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle ha modellato il suo investigatore, rendendolo parte vivente della prima città che non dormiva mai. Gli anni sono passati, la storia è diventata leggenda. E viceversa.

    Quello che gli appassionati chiamano «il Canone», i 56 racconti e quattro romanzi sherlockiani scritti da Watson e firmati da Doyle, s'inizia in un punto preciso quanto misterioso. «Ho messo gli occhi su un appartamento in Baker Street», annuncia Holmes al buon dottore una mattina del gennaio 1881, il 6 per convenzione. I due si sono appena conosciuti all'ospedale Saint Bart, su segnalazione di un conoscente che Watson ha visto al Criterion di Piccadilly. Cercano casa, hanno poche sterline. Si studiano e si danno un appuntamento «per vedere i locali al n.221 B». «Due comode camere da letto» dall'arredamento «festoso». Il prezzo, «diviso, è conveniente». Affare fatto. I due si trasferiscono la sera stessa. Diventeranno inseparabili senza mai smettere di darsi del lei.

    L'indirizzo è un'invenzione. All'epoca della regina Vittoria, Baker Street era divisa in più segmenti, non arrivava al 221B. Oggi, all'equivalente moderno del civico, c'è il museo dedicato a Holmes, maniacale ricostruzione delle stanze della coppia, a partire dai diciassette scalini che portano allo studio. Per i fan è «canonico», il migliore dei complimenti. C'è il coltello che pugnala la posta sulla mensola del camino, c'è la pantofola persiana col tabacco. Mancano il fumo acre della «pipa di terra nera» e l'odore dello zolfo. Il numero della casa è oggetto di dibattito da anni. Si pensa agli attuali 59, 61 o 63. Per sciogliere il dilemma non basterebbe Holmes in persona.

    Intorno si esprime un gran business di cappa e pipa, bar, negozi, e il caro Sherlock Holmes Hotel. Le emozioni sono sotto terra, nei corridoi della metropolitana, tappezzati con la silhouette holmesiana nei colori delle quattro linee che l'attraversano. Sulla piattaforma della Jubilee ci sono sette illustrazioni ispirate alle storie di Watson. Belle davvero. Il Tube porta lontano. A Montague Street si trovano gli alloggi che il giovane laureando Holmes scelse nel quartiere di Bloomsbury, terra di Virginia Woolf. C'è consenso, e non prove, che abitasse al 26: Doyle, guarda caso, abitò per diversi mesi al 23 di Montague Place nel 1891. Il British Museum è un passo, era l'hard disk di Sherlock, che si smarriva nei libri, quando non staffilava i cadaveri al Saint Bart, elaborando teorie criminali. Nell'ospedale, in Smithfield Square, una targa ricorda il primo incontro fra i due amici.

    Di qui ci si spinge verso l'East End, il cuore dell'altra Londra di Sherlock Holmes, i teatri, i giornali, la stazione di Charing Cross. Lo Strand comincia ad Aldwych, dove c'è il Lyceum, un teatro neoclassico, all'angolo con Wellington Street, ricostruito nel 1904. Fu davanti «alla terza colonna da sinistra» che Mary Morstan, con Holmes e Watson, s'abboccò il 7 luglio 1888 l'uomo che l'avrebbe guidati oltre il Tamigi nell'«oasi d'arte» di Thaddeus Sholto all'inizio de Il segno dei quattro. Mary, in seguito, avrebbe sposato il dottore di Baker Street.

    Wellington Street è il prolungamento di Bow Street, dove (L'uomo dal labbro storto) aveva sede un' importante stazione di polizia londinese usata da Holmes. Non lontano, c'è «il nostro ristorante sullo Strand», Simpson's, che è ancora lì. Ci andavano quando non erano a teatro, Saint James Hall di Piccadilly o Covent Garden Theatre (ribattezzata Royal Opera House) dove nel gennaio 1896 la coppia ascoltò un concerto di musiche di Wagner. Erano buongustai, amavano la cucina italiana del Goldini's di Gloucester Road, a Kensington. Da Simpson's un salto e si è a Charing Cross, dove Holmes fu aggredito nella primavera 1894 (La casa vuota).

    Dietro la stazione, qualche traccia del bagno turco di Craven passage (Il cliente illustre) frequentato dalla coppia il 3 settembre 1902. Li anche il Northumberland Hotel in cui alloggiò Sir Henry Baskerville al suo arrivo a Londra e prima di incontrare a Dartmoor il mastino che in realtà era un bracco. Ora accoglie lo Sherlock Holmes Pub e la più antica ricostruzione della stanza principale del 221B, realizzata nel 1951. È meno patinata di quella del Museo, ma l'incanto è maggiore. Dall'adiacente Trafalgar square si apre Pall Mall. Nei forzieri della banca all'angolo con Waterloo Place, «in qualche sotterraneo della Cox &Co., c'è una scatoletta da viaggio rigurgitante di carte, e quasi tutte sono registrazioni di curiosi problemi che Holmes ebbe occasione di esaminare in varie epoche». È il tesoro del biografo sherlockiano, il Graal delle avventure perdute che gli holmesiani cercano da sempre, quello che svelerebbe la verità nascoste sul Signor SH. Potrebbe dire cosa è successo nell'inedito caso del Grande topo di Sumatra. Oppure da dove spunta l'Elementare Watson!, la famosa frase che il nostro non hai mai pronunciato. Circostanze che, se spiegata, richiederebbero parecchie altre storia.

     
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    infosfera

    Uomini e macchine, tutti nella stessa infosfera

    Il 7 giugno 1954 moriva, in circostanze tragiche, Alan Turing, il matematico inglese considerato uno dei padri dell’informatica. Non aveva ancora compiuto quarantadue anni. A lui si devono, oltre al resto, la macchina ideale nota come «macchina di Turing», ovvero il modello concettuale alla base del computer moderno, e il «test di Turing», ovvero la riflessione che diede il via agli studi sull’intelligenza artificiale. Ma Alan Turing, secondo Luciano Floridi, filosofo a Oxford e recentissimo vincitore del premio Weizenbaum, non fu solo un grande scienziato, fu uno di quei rari pensatori capaci di rivoluzionare il modo in cui l’umanità concepisce sé stessa.

    Un Turing, insomma, al livello dei grandi rivoluzionari del pensiero dall’Umanesimo in avanti, ossia, nella sequenza proposta da Luciano Floridi nel suo nuovo libro La rivoluzione dell’informazione (Codice Edizioni), Copernico, Darwin e Freud. Tutti e tre autori che hanno cambiato la nostra comprensione del mondo e quindi anche la concezione che abbiamo di noi stessi: con Copernico la Terra (e quindi l’umanità) non è più al centro dell’universo, con Darwin l’uomo non è più al centro del regno animale e con Freud la mente umana viene riconosciuta come niente affatto trasparente a sé stessa, ma piuttosto caratterizzata da inconscio e dal meccanismo di repressione.

    A queste rivoluzioni, secondo Floridi, ora si aggiunge la rivoluzione dell’informazione, fondata sul riconoscimento che non siamo entità isolate, ma «inforg», ossia organismi informazionali interconnessi, che condividono con agenti biologici e costrutti tecnici un’ambiente globale in ultima analisi costituito da informazione, ovvero l’infosfera. In altre parole, secondo Floridi - e da questo punto di vista il suo debito (riconosciuto) nei confronti della cibernetica di Norbert Wiener è evidente - stiamo modificando la nostra idea della natura ultima della realtà, passando da una metafisica materialista, incentrata sugli oggetti e sui processi fisici, a una che ruota intorno all’informazione. Una metafisica adatta a un’era in cui il progresso e il benessere umano dipendono sempre di più da una gestione efficiente del ciclo di vita dell’informazione. Una rivoluzione che deve moltissimo, appunto, ad Alan Turing.

    La rivoluzione dell’informazione che oltre a essere scientifica è, come sappiamo, anche tecnologica - rende senza dubbio possibili evoluzioni potenzialmente molto positive per l’umanità, ma anche seri rischi e problemi. Il primo rischio è che il cambiamento in atto non venga compreso. L’umanità, infatti, ha sempre reagito con difficoltà ai cambiamenti di prospettiva introdotti dai grandi rivoluzionari del pensiero. Basti pensare alla perdurante esistenza di migliaia di testate nucleari e al consumo forsennato delle risorse del pianeta: non dimostrano che, nonostante Copernico e Darwin, l’umanità continua a considerarsi al centro di tutto? Ora si aggiunge la sfida di iniziare a pensare l’uomo come animale informazionale inserito all’interno dell’infosfera. Non sarà facile. Come rimarca Floridi, infatti, la società dell’informazione sta crescendo molto più rapidamente della capacità dell’uomo di sviluppare solide radici concettuali, etiche e culturali. D’altronde, se ancora non abbiamo fatto davvero i conti con Copernico e Darwin, come potremmo pretendere di aver già fatto nostro Turing?

    Eppure è essenziale provarci, e in questo senso il testo di Luciano Floridi è di grande aiuto, proponendo sia un quadro d’insieme sia nozioni chiare e concise su cosa sia l’informazione in vari ambiti del mondo fisico e dell’agire umano. Nozioni indispensabili anche per provare a influenzare gli sviluppi futuri della rivoluzione dell’informazione, che non sono affatto pre-determinati. In particolare la questione cruciale di chi avrà accesso a quali informazioni e a quali condizioni, e di quanto ampia sarà la libertà dell’individuo di possederle, elaborarle e comunicarle determinerà, a seconda degli esiti, infosfere radicalmente diverse tra loro, con potenziali benefici per l’umanità e per il pianeta, ma anche con rischi di segregazione, sfruttamento e oppressione senza precedenti. Le prime scelte importanti in tal senso sono già oggetto di discussione nei parlamenti, sui giornali e nelle piazze, e ancor più lo saranno negli anni a venire.

     
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    6068330_dinostock

    Vantarsi aiuta a fare carriera

    C’è un vecchio proverbio che recita: “chi si loda s’imbroda”, che sta a significare che chi si vanta in realtà poi fa brutta figura, anziché bella. E, se da una parte può essere vero, secondo uno studio a opera dei ricercatori statunitensi della Kellogg School of Management della Northwestern University, invece, chi si vanta può ottenere tutta una serie di vantaggi sul lavoro – che vanno dalla carriera a un aumento di stipendio.

    Il fatto curioso emerso dallo studio pubblicato su BusinessNewsDaily è stato che le donne erano più restie a promuovere se stesse, per cui avevano minori possibilità di essere scelte come leader di un gruppo.
    Questo fatto, si è mostrato al di là di qualsivoglia discriminazione sessuale.
    Ma vediamo in dettaglio cosa è successo: i ricercatori hanno coinvolto un gruppo di ambosessi che studiano alla MBA – la scuola in Master Business Administration che forma i manager – affinché scegliessero un leader tra il proprio gruppo.
    Suddivisi in vari gruppi, i partecipanti hanno poi dovuto selezionare una persona che rispondesse a determinati requisiti che comprendevano il migliore talento nell’essere un leader o manager, senza discriminazioni sessuali.

    «Bloccando qualsiasi discriminazione esplicita nei confronti delle donne, cosa improbabile in un esperimento con studenti universitari, i gruppi dovrebbero mirare a selezionare il proprio individuo di maggior talento a prescindere dal sesso», spiega nella nota Kellog la principale autrice dello studio, professoressa Paola Sapienza.
    Ciò che tuttavia è accaduto è che le donne venivano selezionate in misura minore. Il motivo, scartata la discriminazione sessuale, secondo gli autori potrebbe ritrovarsi nella tendenza tutta maschile di sopravvalutarsi e tenere in gran conto le proprie capacità – cosa che non esitano a esibire.

    «Il fatto che gli uomini tendono a sopravvalutarsi non è una sorpresa», aggiunge Sapienza, ricordando che esiste uno stereotipo che vuole che “se un uomo dice cinque, allora è tre”. Questo, sottolineano gli autori, non è applicabile a tutti i maschi, ma se proprio non è “cinque”, magari può essere quattro… In ogni caso, l’uomo tende un po’ a sopravvalutare e, di conseguenza, vantarsi.
    In quest’ottica, i ricercatori ritengono che le aziende dovrebbero tenere conto di questa tendenza – diversa per maschi e femmine – nei colloqui di assunzione o avanzamento di carriera; per cui bisogna prestare attenzione più alle reali capacità di una persona che non la presunzione.
    Ci riusciranno? Chissà? Al momento però capita spesso di trovare in posizioni lavorative di rilievo persone che hanno saputo “promuoversi” bene ma che, in verità, non dispongono di grandi capacità.

     
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    cervello_27

    Timidi o temerari, dipende dalla grandezza del cervelletto

    Avidi di novità e pronti ad esplorarle, temerariamente proiettati verso l’esterno, o timorosi, prudenti e timidi? Due tipologie di temperamento opposte, che oggi sappiamo essere collegate alla grandezza del cervelletto.

    La prima categoria di persone infatti ha questa parte del cervello particolarmente sviluppata, la seconda di dimensioni sensibilmente minori. È il risultato di uno studio realizzato da ricercatori dell’Irccs Fondazione S.Lucia e dell’Università Sapienza di Roma, che “certificà” come il cervelletto giochi un ruolo chiave nella determinazione delle differenze individuali di personalità.

    Fino ad ora si era ritenuto che l’organo in questione fosse implicato sostanzialmente nelle funzioni motorie e cognitive, e più recentemente in quelle affettive, ma non era mai stato associato alla personalità.

    Lo studio, appena pubblicato sulla rivista Human Brain Mapping, è il primo che affronta questa relazione. I ricercatori hanno raccolto dati da un campione molto ampio di soggetti sani, combinando tecniche di neuro-immagine strutturale e misure di personalità legate ai tratti temperamentali, descritti nella “Scala di Temperamento e Carattere” di Cloninger, padre del modello bio-psico-sociale della personalità. Secondo questo modello mentre il carattere è influenzato dal contesto ambientale ed educativo, il temperamento è geneticamente determinato.

    Tra le dimensioni di temperamento, quelle di ’Novelty Seeking’, ovvero la predisposizione a ricercare/esplorare la novità, e ’Harm Avoidancè, ovvero la predisposizione ad essere cauti ed inibiti, sono le dimensioni fondamentali che guidano le nostre risposte agli stimoli ambientali, spiegano i ricercatori. La ricerca ha dimostrato che coloro che avevano una maggiore tendenza all’esplorazione ed erano maggiormente incuriositi dalle novità avevano volumi del cervelletto più grandi. Al contrario, i più propensi a essere preoccupati, timidi, riservati e timorosi di tutto ciò che è inusuale avevano volumi del cervelletto più piccoli.

    «Nell’investigare da un punto di vista strutturale le regioni cerebrali più probabilmente associate con gli stili di personalità - dicono i ricercatori - una questione preliminare risulta quella di determinare come le strutture, specificatamente in termini di volume, possano essere collegate alle funzioni. La domanda è: un volume più grande della media per una determinata area può significare maggior potenza per svolgere specifiche funzioni?». Ebbene, in questo caso la risposta è si. Infatti, il cervelletto che guida l’esplorazione in ambienti nuovi, permettere un rapido passaggio da un compito ad un altro, supporta un veloce adattamento alle situazioni che cambiano, e appare correlato - per quello che riguarda il suo volume - con un tratto di personalità caratterizzato proprio da una maggiore enfasi su questi aspetti.

    Insomma, un soggetto caratterizzato da uno spiccato comportamento di ricerca del nuovo in tutte le sue forme, che di continuo cerca situazioni non familiari e volentieri esplora ambienti mai visti, richiede al suo cervelletto un grande impegno, cosa che potrebbe portare ad allargarne il volume. Al contrario, un soggetto caratterizzato da un comportamento preoccupato e ansioso nei riguardi di tutto ciò che non conosce, inibito e riservato, richiede al suo cervelletto poco impegno, cosa che - concludono gli autori - potrebbe portare a ridurne il volume.

     
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  13. la sirenetta
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    kuratas_550

    Ecco dal Giappone Kuratas, un robot fantascientifico da 1 milione di dollari

    Un’industria nipponica promette a facoltosi acquirenti di “realizzare il sogno” di guidare un robot a quattro ruote e armato di tutto punto. E’ difficile da immaginare, ma bisogna pensare a un gigante alto 4 metri circa e pesante 4,4 tonnellate. La giapponese Suidobashi Heavy Industry ha costruito questo spettacolare robot che è alimentato da un motore diesel.

    E’ difficile credere a questa novità abituati come siamo a fantastici robot dei manga come Mazinga, Gundam ecc. Invece è tutto vero!
    L’impressionante robot è stato creato dall’artsita Kogoro Kurata e l’esperto di ingegneria robotica Wataru Yoshizaki. Chi volesse acquistarne un esemplare, lo potrà fare attraverso il sito della Suidobashi per la modica cifra di $1.27 (con colorazione personalizzata e optional esclusi come scudo, lanciamissili acquatico e altro ancora), circa un milione di Euro. Purtroppo, però è meglio tenere a freno gli entusiasmi perché per ora si tratta di un progetto artistico fine a se stesso, anche se nei progetti dei due autori c’è anche la produzione in serie.

    Il mecha (robot) è dotato di 30 giunture idrauliche e torso rotabile ed è poggiato su quattro ruote snodate, e può essere controllato dall’interno (c’è infatti una cabina per il pilota) tramite apposito doppio joystick o dall’esterno via rete 3G con interfaccia applicativa su cellulare (smartphone). Non è molto veloce, anzi. Raggiunge infatti i 10 km/h.

    E’ un robot armato, ma fino a un certo punto. Le sue braccia sono dotate di mitragliatori Gatling che però sparano pellet o fuochi artificiali, così come una mano robotica in grado di afferrare cose e (volendo) persone.
    Sarebbe divertente farci un giro, ma pazientando un po’ chissà che tra qualche anno non sia in vendita a prezzi più bassi…

     
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  14. *Sjiofn*
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    agippsa2012_g

    L'adolescente in psicoanalisi

    Una teoria che cerchi di spiegare il funzionamento psicologico dell’essere umano deve poter essere applicata a tutte le fasi evolutive e a tutti i contesti interpersonali, mentre alla tecnica sono consentiti adattamenti e modifiche per i diversi ambiti clinici. Tale assunto riguarda anche la psicoanalisi e le sue applicazioni nell’area adolescenziale. La prima analisi sistematica dell’adolescenza si deve ad Anna Freud (1936) che riprende alcuni aspetti della teoria pulsionale del padre, definendo l’adolescenza come periodo i cui esplodono i conflitti a causa dell’aumento delle pulsioni, contro le quali l’adolescente si protegge utilizzando alcuni meccanismi di difesa.

    Le recenti scoperte in campo neurobiologico hanno confermato alcune intuizioni proprie della psicoanalisi: durante l’adolescenza avvengono grandi trasformazioni cerebrali con una forte attivazione del sistema limbico e un processo maturativo cerebrale che procede dai lobi occipitali a quelli prefrontali. La dinamica di tali trasformazioni cerebrali si svolge in parallelo con quella dei processi mentali tipici dell’adolescenza, segnati da un “conflitto di sviluppo” teorizzato originariamente da Anna Freud.

    Negli ultimi anni l’adolescenza ha suscitato un interesse crescente in campo psicoanalitico. Ma c’è di più. È diventata centrale la questione di come l’occuparsi dell’adolescente abbia cambiato la psicoanalisi, sia nella teoria che nella clinica, in una laboriosa elaborazione che ha portato a relativizzare il modello pulsionale, incentrato sull’intrapsichico, aprendosi alla prospettiva relazionale. Si è trattato di una sorta di “rivoluzione” silenziosa nel lavoro degli psicoanalisti. L’adolescenza è una sfida per lo psicoanalista: il lavoro con gli adolescenti costringe a ripensare i modelli di riferimento, a creare nuove forme di alleanza terapeutica.

    Il Convegno “Adolescenza e Psicoanalisi oggi” (10° Convegno Nazionale dei Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Adolescenza) in programma il 13-14 ottobre a Roma (Angelicum, largo Angelicum, 1) vuole essere un punto di incontro tra i gruppi italiani che nell’ultimo ventennio hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo del pensiero psicoanalitico sull’adolescenza in Italia, facendo uscire la psicoanalisi dell’adolescenza dalla condizione di psicoanalisi di tono e valenza minore, di “cenerentola” della psicoanalisi. Il percorso di studio e ricerca era partito proprio da Roma, venti anni fa, sotto l’impulso dato da Arnaldo Novelletto e dal nascente gruppo dell’ARPAd (Associazione Romana di Psicoterapia dell’Adolescenza e del Giovane Adulto, Roma) che aveva proposto il tema del trauma e della sua elaborazione nello sviluppo dell’adolescente.

    L’adolescenza è un percorso di sperimentazione, può essere vissuta come organizzante o disorganizzante, o può anche presentarsi senza crisi evidenti (definita con l’espressione “adolescenza interminabile”) in cui i processi adolescenziali non vengono elaborati e superati e perdurare indefinitamente come tale per il resto della vita. Il titolo del Convegno propone l’idea che il pensiero psicoanalitico possa ancora oggi rappresentare una chiave di lettura dell’adolescenza contemporanea, in grado di cogliere le diverse espressioni dell’adolescente e le sue possibilità di essere accolto, ascoltato e curato, sostenendo la capacità, da parte dell’adolescente, di interrogarsi sul funzionamento della propria mente, sulle difficoltà di soggettivarsi in modo vitale e creativo.

    L’appuntamento propone una riflessione sullo “stato dell’arte” riguardo al rapporto adolescenza-psicoanalisi, con l’intenzione di promuovere il dialogo fra visioni teoriche differenti e affrontare le varie declinazioni delle teorie e della teoria della tecnica nelle sue evoluzioni, senza la pretesa di far nascere una teoria “forte”, di affermare un pensiero unico o unilaterale. Si vuole dare ampio spazio alla discussione fra i maggiori rappresentanti dei gruppi italiani e il pubblico partecipante; per questo sono previste relazioni plenarie e dibattiti approfonditi nei simposi. Tra i temi proposti, citiamo: Chi è oggi il terapeuta degli adolescenti? Quali strumenti la psicoanalisi può offrire alle nuove espressioni del disagio e della patologia degli adolescenti? Quante e quali forme di setting e cura sono utili oggi agli adolescenti? La comunicazione digitale e internet sono una risorsa o una nuova dipendenza? E le istituzioni sono state in grado di modularsi sui bisogni emergenti?

     
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  15. la sirenetta
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    Nuova vita (di design) al taxi

    15d2dbc8d7

    Anche un vecchio taxi può diventare un pezzo di design, anzi, più pezzi. E' l'idea del designer Billy Potts, che in un sobborgo di Hong Kong ha deciso di smantellare i taxi destinati alla rottamazione per riconvertirli in oggetti d'arredamento eco-friendly.
    In questo modo un sedile diventa una poltrona, una cintura si trasforma in un orologio, un cruscotto in qualcosa d'altro.
    Dare una seconda vita ai taxy, per Potts è molto più che una moda: "Pensa a tutto questo: ora sembra spazzatura, ma ognuno di questi elementi è stato a suo tempo disegnato da qualcuno. E' bellissimo, ingegnoso, un grande esempio di design industriale.
     
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202 replies since 31/8/2012, 23:45   4278 views
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