E questa la sapevi?!

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    Quando l’uomo trova la donna più attraente, lei potrebbe osare di più

    Il periodo fertile potrebbe essere sfruttato in modo intelligente dalle donne.
    Senza dover necessariamente essere un modo per attirare a sé il maschio con cui accoppiarsi per riprodurre la specie – un’esigenza istintiva radicata negli esseri viventi – le femmine potrebbero sfruttare il maggiore ascendente che hanno sui maschi per ottenere quasi tutto ciò che desiderano.

    Potere della chimica, alla base della sessualità, che rende la donna più attraente durante il periodo fertile, in cui gli ormoni sono in festa. E gli uomini, senza rendersene coscientemente conto, proprio durante questo periodo sono attirati più del solito verso lei e la trovano più affascinante, seducente.
    Ecco ciò che è emerso in uno nuovo studio pubblicato su Hormones and Behavior, che studia i comportamenti degli esseri umani influenzati dagli ormoni.

    Il dottor David Puts e colleghi della Pennsylvania State University, hanno reclutato 1.000 persone, di cui 500 maschi e 500 femmine, a cui sono state mostrare oltre 200 fotografie che ritraevano delle donne in due diversi periodi del mese, in base al loro ciclo di fertilità.
    I partecipanti dovevano poi votare l’attrattività delle donne ritratte nelle immagini.
    Come da aspettative, i ricercatori hanno scoperto che le foto scattate durante il periodo fertile della donna erano state giudicate più attraenti delle altre, sia dalle donne che dagli uomini – ma in particolare, più dagli uomini.

    I risultati dello studio, sottolineano i ricercatori, vanno a supporto di quanto già affermato da precedenti ricerche che suggerivano come le variazioni ormonali influiscano sull’attrattività femminile.
    «Abbiamo imparato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le facce delle donne e le voci cambiano tra il ciclo mestruale, e che gli uomini e le donne percepiscono questo come variazioni nel potere di attrattiva», conclude Puts.
    Ecco pertanto che un periodo in cui lei appare più affascinante potrebbe davvero essere sfruttato non solo a fini riproduttivi, ma per osare chiedere un qualcosa al proprio partner (e non solo) e, chissà, riuscire anche a ottenerlo.

     
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  2. la sirenetta
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    Studiare musica rende super lettori



    I musicisti, si sa, hanno da sempre una marcia in più. Sono numerosi gli studi scientifici che dimostrano le eccezionali capacità possedute da coloro che suonano bene uno strumento, rispetto a chi non sa leggere la musica. Ad avvalorare ulteriormente questa tesi, questa volta, è la ricerca tutta italiana patrocinata dall’Università Bicocca di Milano in collaborazione con il Cnr e pubblicata sulla rivista Neuropsychologia L’indagine, condotta su quindici musicisti del conservatorio Verdi di Milano e su altrettante persone con nessuna competenza musicale, ha rivelato come i musicisti siano in grado di riconoscere le parole con più facilità rispetto alle persone che non hanno mai studiato il pentagramma: studiare musica da piccoli modifica i meccanismi neurali di lettura delle parole, qualunque sia la predisposizione genetica delle persone.



    I ricercatori hanno così ricostruito, tramite una tomografia elettromagnetica a bassa risoluzione, il segnale bioelettrico durante l’elaborazione cerebrale delle note e della lettura: «abbiamo dimostrato che il cervello dei musicisti che hanno iniziato a studiare musica da piccoli, entro gli 8 anni, è anche più veloce nel riconoscere le parole - spiega Alice Mado Proverbio, coordinatrice dello studio - Per farlo, abbiamo confrontato l’elaborazione visiva delle note e delle parole in 30 persone destrimani, registrando la loro attività bioelettrica sincronizzata in risposta a parole e note in un pentagramma». Il risultato è stato sorprendente: sia nel leggere le note che le parole, i musicisti attivavano delle aree cerebrali diverse da quelle osservate nelle persone senza competenze musicali. «Quando leggono un testo – continua Proverbio - le persone prive di conoscenza musicale attivavano la corteccia occipito-temporale di sinistra e il giro occipitale inferiore di sinistra. Nei musicisti, invece, queste stesse regioni sono risultate attive sia sull’emisfero sinistro che, inaspettatamente, sull’emisfero destro».



    L’importantissima scoperta potrebbe avere delle applicazioni positive nella cura alla dislessia: «l’evidenza che il meccanismo neurale di elaborazione delle lettere differiva per musicisti dalle persone che non conoscono il pentagramma - conclude Proverbio - dimostra come il training musicale precoce modifica i meccanismi neurali di lettura. Questi risultati possono avere interessanti applicazioni per i bambini a rischio di dislessia in cui la regione visiva per le parole (di sinistra) si attiva in modo atipico o insufficiente».

    Lo studio della musica all’inizio dell’alfabetizzazione svilupperebbe, dunque, un centro di analisi visiva simbolica anche a destra, che verrebbe poi utilizzato sia per le parole sia per le note.
     
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  3. la sirenetta
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    Uribe Vargas, il ladro compulsivo
    incarcerato 72 volte:
    “Rubare è la mia religione”

    Ci sono primati e primati. Bob Beamon che salta otto metri e novanta, cinquantacinque centimetri in più del record precedente, lasciando a bocca aperta tifosi e tecnici per più di un ventennio. O il bizzarro record dell’operaio Shuhei Ogawara che per due anni non ha fatto altro che raccogliere tutte le waribashi, le bacchette monouso, che i suoi colleghi gettavano nella spazzatura della mensa. Bacchetta dopo bacchetta, Shuhei si è costruito una canoa. Tre mesi a incollare 7382 bacchette per formare l’ossatura di una canoa lunga 4 metri e pesante 30 chilogrammi.





    In Colombia c’è un uomo il cui record è più singolare di quello di Ogawara e più longevo di quello di Beamon. Lo detiene Óscar Uribe Vargas, cinquantanove anni, di Bucaramanga, un uomo con la fronte segnata da una cicatrice da serramanico, claudicante, obeso, diabetico e con un cancro alla prostata. Uribe Vargas è un ladro compulsivo, uno che in mezzo secolo di vita ha rubato di tutto. Penne stilografiche, computer, ombrelli, radio, calcolatrici, libretti d’assegni, orologi, denaro contante. Ma soprattutto telefoni vivavoce della Panasonic. “Quando mi vedevano - ammicca con un ghigno da pirata tagliagole e una risata catarrosa - scoppiavano a piangere”. Per questa sua compulsione irrefrenabile Uribe Vargas non ha fatto altro che entrare e uscire dalle carceri colombiane. “Per 72 volte” - sottolinea con una baldanza da sciuscià. Un record inarrivabile persino per i narcotrafficanti più incalliti. La sua carriera inizia sui banchi di scuola. Rubava matite e quaderni ai suoi compagni. I maestri dopo una settimana lo espellevano dal collegio tra la disperazione della sua famiglia, gente perbene, soprattutto il padre, stimatissimo gerente della Empresa Licorera de Santander. La famiglia all’inizio lo aiutò. Per undici volte lo fece uscire dal carcere ma la dodicesima Uribe Vargas chiese ai genitori di lasciarlo in pace. “Rubare è la mia religione. Lavorare è un peccato che non commetterò mai. Non spendete più un peso in avvocati e dimenticatevi di me”. Per suo padre Hernando fu un colpo durissimo, lui che aveva sempre ripetuto: “Ladri nella famiglia Uribe non ce ne sono mai stati”.



    Per il primatista Vargas Uribe le carceri colombiane non hanno segreti. Ne parla come un Raspelli potrebbe dissertare di trattorie e ristoranti. Il vecchio e il nuovo carcere di Bucaramanga, La Blanca di Manizales, il carcere di Cúcuta, la Ladera di Medellín, La Modelo, La Picota, La 40 di Pereira, e le carceri di Guateque, Pácora, Zipaquirá e Ramiriquí. Le peggiori? La Modelo di trent’anni fa e la Ladera di Medellín. “I detenuti della Ladera chiedevano sempre a chi arrivava dalla capitale se era più grande Medellín o Bogotá. Se rispondevi Bogotá, ti accoltellavano. Erano gli anni ottanta. E nelle prigioni di Medellín comandavano i sicari di Escobar. “Io che lo sapevo risposi che Medellin era sessanta volte più grande e nessuno mi torse un capello”. Ma La Modelo di trent’anni fa era realmente un incubo. “Prima di mangiare mi drogavo per non vedere i vermi affiorare nella minestra. Cucinavano delle monache, delle bastarde indemoniate. Una volta mi fini’ in bocca una specie di spaghetto, lungo, viscido. Smisi di masticare, lo sfilai dalla bocca. Gonorrea! era la coda di un sorcio!”.



    Per i suoi crimini ha sempre pagato. Tranne una volta. E non era un furto. Nel suo andirivieni tra un carcere e l’altro conobbe una donna. La sposò, ci fece cinque figli, passò con lei ventitrè anni della sua vita. La uccise all’inizio degli anni ottanta perché la sorprese con un altro uomo. Poi entrò in una filiale del Banco Grancolombiano, rubò 24 milioni di pesos e con un taxi andò dalla figlia maggiore a Bucaramanga. Le diede 23 milioni perché si comprasse finalmente una casa, poi senza darle il tempo di respirare, le confessò che quindici giorni prima aveva assassinato sua madre. Un’ora dopo ritornò a Bogotà, sempre in taxi. Per questo crimine non è mai comparso davanti a un giudice. L’assurdo è che lo hanno condannato per avere rubato un Panasonic vivavoce da un ufficio, ma mai per aver assassinato la madre dei suoi figli. E’ il grande, scottante, problema dell’impunità. Lo ha ammesso anche il presidente Santos in un suo recente discorso. Il 98% dei casi di violenza sessuale restano impuniti. La probabilità che ha un imputato di essere condannato per un crimine è del 20%, per un omicidio solo del 3%.



    Ma com’è la vita di un ladro? Uribe Vargas aspira la sua sigaretta, si astrae per qualche istante, poi riprende a raccontare. “Ci sono giorni che la roba che rubi quasi ti si getta tra le braccia. Giorni in cui invece ti va tutto storto e rubare anche un paio di scarpe diventa un’impresa. Quando esco di galera, casa mia sono le pensioni intorno alla Universidad Jorge Tadeo Lozano. Mi sveglio alle undici; una doccia, vestiti puliti, capelli ben pettinati. Per non destare sospetti. Poi esco, scelgo un ufficio, chiedo della direzione e cammino lentamente guardando tutto quello che sta intorno a me. Appena adocchio su una scrivania qualcosa che richiama la mia attenzione, mi fermo, valuto i rischi, aspetto il momento propizio per rubarlo. Poi vendo tutto alle comproventas de la Caracas. La mattina dopo sono ancora lì a eruttare l’alcol che mi sono bevuto, senza più un soldo, perso tutto in alcol, droga, cibo, puttane. Ma ora faccio sempre più fatica a rubare. Sono lento, sono malato, sono troppo grasso. Una volta ero più rapace di un falco, oggi per me tutto è una missione impossibile”.



    Nessuno viene più a trovarlo in carcere. Suo padre morì mentre era recluso a Ramiriquí. La madre gli rimandava indietro i suoi regali. “Li accetterò solo il giorno che saprò che lavori davvero”. I figli non gli hanno mai perdonato l’omicidio della mamma. Ora che arriverà Natale chiederà un regalo speciale ai suoi secondini. “Un sonnifero, il più potente, così per dodici ore, evaderò dal mondo e dalla felicità degli altri”.
     
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  4. la sirenetta
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    Cent’anni in Italia per l’Aston Martin
    di James Bond

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    Chi avrebbe mai immaginato che un marchio glorioso, icona della sportività britannica, sarebbe finito in mani italiane, quelle del finanziere Andrea Bonomi? E questo proprio alla vigilia del centenario, perché l’Aston Martin è nata a Londra il 15 gennaio del 1913 ad opera di Robert Bamford e Lionel Martin.



    Ma, in realtà, è quasi incredibile che l’Aston Martin sia ancora in vita. La piccola Casa inglese conobbe il suo periodo d’oro nel secondo dopoguerra con David Brown (ecco la sigla DB presente in tanti modelli), vincendo corse come la 24 Ore di Le Mans o partecipando al Mondiale di F1, producendo lussuosi modelli ad alte prestazioni anche in partnership con la carrozzeria milanese Touring Superleggera.



    La popolarità a livello mondiale arrivò nel 1963 grazie a James Bond e ai film di 007, in cui una DB5 di 4 litri e 282 Cv, imbottita di sofisticati sistemi di protezione e attacco, permetteva all’agente segreto con licenza di uccidere di salvarsi dai nemici di turno. Missione Goldfinger, Operazione Tuono, Al Servizio di Sua Maestà: Sean Connery e quell’elegante, letale berlinetta divennero un cult.



    E’ una storia che appare davvero curiosa quella dell’Aston Martin, divisa tra il luccicare del Bel Mondo e una realtà economica traballante. Non c’è forse un’altra azienda che abbia cambiato tanti proprietari (una dozzina tra cui, a fine Anni 20, un piemontese, l’ing. Augusto Cesare Bertelli, co-pilota di Vincenzo Lancia sulle Fiat da competizione): nobili, industriali, affaristi privi di scrupoli, appassionati ricchi soltanto di buona volontà. Pronti a comprare e poi a disfarsi senza tanti problemi della Aston Martin, mezza Cenerentola e mezza Lady.

    Si pensò che la situazione potesse cambiare nel 1986: il Gruppo Ford decide di impostare un’operazione di immagine e arricchisce il cosidetto Premier Group (Jaguar, Land Rover, Volvo e Lincoln-Mercury) con la Casa inglese. E’ lo sposo ricco che la nobildonna decaduta attendeva e il matrimonio sembra filare a gonfie vele. I Paperoni americani investono miliardi di dollari, nascono due nuovi impianti a Bloxham e Gaydon (che diviene la sede generale), si mettono in cantiere nuovi prodotti: ecco la piccola DB7 e la Vanquish. I numeri cominciano a crescere, toccando il record di 6.500 vendite nel 2007.



    Ma l’Aston Martin torna nella tempesta. La Ford, in crisi finanziaria, vende i gioielli di casa e smantella il Premier Group. L’auto di James Bond viene acquisita da un consorzio di investitori anglo-kuwaitiano per 475 milioni di sterline. L’azienda, guidata da Ulrich Bez, un ingegnere tedesco ex Porsche e Daewoo, cerca di restare a galla, allarga la rete dei dealers e punta a nuovi sfoghi nei mercati asiatici, ma i conti non tornano. Nel 2011 l’Aston immatricola circa 4.000 vetture, pochine davvero, l’impianto di Gaydon opera al 40%. Il fatturato si aggira sui 630 milioni di euro e il bilancio è in rosso.



    La concorrenza è forte e inserita in gruppi industriali potenti, che offrono sinergie di tutti i tipi ai loro marchi di lusso o sportivi. Si pensi alle Maserati e Ferrari, alle Bentley e Lamborghini, alle stesse Porsche.

    Andrea Bonomi, che ha acquistato il 37,5% delle azioni, disponendo del 50% dei diritti di voto, non si preoccupa troppo: investirà 625 milioni di euro e amplierà la gamma: obiettivo minimo 7.000 auto all’anno. Tra i piani, anche una partnership tecnologica con il Gruppo Mercedes, che vanta una consolidata sezione sportiva (AMG).



    Intanto, come si conviene per un centenario, il 2013 sarà un anno ricco di celebrazioni, a partire dal 15 gennaio: all’Henniker Mews di Chelsea, il quartiere londinese da dove partì l’avventura, verranno esposte Aston Martin del passato e del presente. Dal 15 al 21 luglio la «Centennary Week» con il raduno di centinaia di club di fans e, poi, un tour nelle location dei film di James Bond. Un primo passo, in fondo, per rilanciare il marchio in un mondo dove non bastano più soltanto le tradizioni o le pelli più raffinate e il prezioso mogano per mantenersi al vertice.
     
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    TYP-472536-4653978_jpcasais

    Con il 2013 ecco arrivare una nuova malattia: la sindrome dell’uomo moderno

    Lo stile di vita e la vita stessa in questi ultimi anni paiono aver premuto il pedale dell’acceleratore: tutti quanti si rendono infatti conto che il tempo sembra passare molto più velocemente, rispetto a una volta.
    Tutto questo si riflette in un modus vivendi sempre più frenetico, e caratterizzato da un nubifragio di informazioni che causa un sovraccarico, con conseguente scatto del “salvavita” interiore che reagisce con un vero e proprio blackout.

    Non a caso sono molte le persone che lamentano perdita di memoria – anche per le cose più banali – deficit dell’attenzione e difficoltà di concentrazione. E lo stress, sempre onnipresente, si fa sentire ancora di più.
    Questa condizione ora ha un nome: BLS, che è l’acronimo di Busy Life Syndrome, ossia la sindrome da stile di vita frenetico o vita troppo occupata, che dir si voglia.
    Il nome è stato coniato dai ricercatori britannici della CPS Research di Glasgow, i quali hanno condotto una serie di studi per arrivare a individuare negli apparati tecnologi che accompagnano ormai la vita quotidiana di tutti noi come cellulari, smartphone, tablet, TV, radio, Internet… una delle cause principali della BLS.

    Nel comunicato CPS, la portavoce Angela Scott-Henderson fa notare che il sovraccarico d’informazioni cui siamo sottoposti ci rende, chi più chi meno, vittime degli effetti negativi che questo può comportare. Tuttavia, non sempre è il caso di allarmarsi, sottolineano i ricercatori: soffrire di cali di memoria, entro certi limiti, è normale.
    Studi scientifici dimostrano che le persone sane possono avere fino a 30 “cadute” mentali ogni settimana. Sono cose del tipo: “dove ho messo le chiavi di casa?”, “cosa sono venuto a fare in questa stanza?”, e così via.

    I ricercatori del CPS, guidati dalla psicologa finlandese dott.ssa Maria Jonsdottir, hanno coinvolto nel loro studio 189 soggetti ambosessi di età compresa trai i 19 e i 60 anni, i quali sono stati invitati a registrare gli episodi di perdita di memoria cui erano oggetto durante una settimana.
    Dai dati raccolti, gli scienziati hanno concluso che se si è vittime di questo genere di episodi non significa che c’è qualcosa che non va al cervello, ma che si può essere più sensibili alla BLS per via del bombardamento d’informazioni.

    La faccenda assume invece diversi contorni quando s’inizia a dimenticare come si svolgono le normali attività quotidiane, quando non si ricorda più dove si trova casa propria, quando si dimentica qualcosa di appena avvenuto ma si ricorda qualcosa di molto remoto. Questi, e altri, possono essere tutti sintomi di qualcosa che forse non funziona più bene nel cervello: ecco allora che, in questo caso, è bene rivolgersi al medico per un controllo.
    Tutto il resto è dunque “solo” colpa della sindrome da stile di vita frenetico. Però, se forse provassimo a rallentare un pochino, può essere che anche la nostra mente ringrazi.

     
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  6. la sirenetta
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    Il bambino impara la propria lingua già nel grembo materno

    Come impara a capire e parlare la propria lingua il bambino?
    Si è sempre pensato che questo avvenisse dopo la nascita, come era lecito credere. Ma, un nuovo studio che verrà pubblicato su Acta Paediatrica, oggi suggerisce che questo processo di apprendimento avvenga molto prima: quando il bambino è ancora un feto e si trova nel grembo materno.

    Secondo gli scienziati dell’Institute for Learning & Brain Sciences (ILBS) presso l’Università di Washington, i meccanismi sensoriali e cerebrali che promuovo il senso dell’udito sono già del tutto sviluppati a 30 settimane di età gestazionale.
    Si ritiene dunque che il bambino presti ascolto ai discorsi della madre fin dalle ultime 10 settimane di gravidanza e che, una volta nato, possa in qualche modo dimostrare di capire quanto si dice intorno a lui.

    «La madre ha la prima parola nell’influenzare il cervello del bambino – spiega nel comunicato UW la dottoressa Patricia Kuhl, coautore e co-direttore dell’ILBS – Il suono delle vocali nei propri discorsi risulta come una più forte unità e il feto si concentra su di esse».
    La nuova scoperta cambia dunque il concetto comune che i neonati imparino la lingua della famiglia in cui nascono a partire dai primi mesi di vita, mettendo in evidenza come invece questo processo inizi già nel grembo materno.

    «Questo è il primo studio a mostrare come i feti imparino i suoni specifici del linguaggio materno già nella fase prenatale – sottolinea Christine Luna, della Pacific Lutheran University e autore principale – Questo studio traspone il risultato misurabile dell’esperienza con i suoni del linguaggio da 6 mesi di età a prima della nascita».
    La misurazione dell’esperienza con i suoni prodotti dalla lingua materna è stata eseguita dai ricercatori su un gruppo di neonati con circa 30 ore di vita, insieme a un gruppo di bambini.
    Durante i test, i partecipanti hanno ascoltato il suono delle vocali nella propria lingua di nascita e in una lingua straniera. La reazione alle parole è stata valutata in base all’attività con il succhiotto da parte del bambino: il relativo interesse era stabilito in base al tempo che il ciuccio veniva succhiato, mentre un computer monitorava questa attività.
    I risultati hanno mostrato che quando i bambini udivano le parole straniere succhiavano per molto più tempo, a differenza di quando ascoltavano la lingua nativa.

    I ricercatori ritengono che i bambini sono il modello dello studente perfetto, e scoprire il modo in cui assorbono le informazioni può essere l’ideale per ottenere nuovi spunti in materia di apprendimento permanente.
    La curiosità e la capacità di apprendimento nella prima infanzia è un bene prezioso che va sfruttato, anche perché – ricordano gli autori – questo vantaggio si perde con l’età adulta.
     
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  7. *Sjiofn*
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    Tempo libero? Un sogno per le donne

    Il peso delle faccende domestiche e della cura familiare si sta pian piano spostando anche sulle spalle degli uomini, ma nella coppia restano ancora forti divari: durante la giornata alla donna con un impiego spetta oltre un’ora di fatiche in più tra casa e lavoro, mentre i partner possono contare su 60 minuti aggiuntivi di tempo libero.



    Il quadro di vita di coppia, aggiornato al 2008-2009, viene descritto nel Rapporto di coesione sociale 2012 e nelle sue tabelle. La ricerca, messa a punto da Istat, Inps e ministero del Lavoro, evidenzia una maggiore redistribuzione dei carichi rispetto al passato, ma c’è ancora tanto terreno da recuperare.



    L’indagine è stata condotta su un campione di unioni dove la donna ha tra i 25 ed i 44 anni, si trova quindi in una fase caratterizzata sia dalla partecipazione al mercato del lavoro, sia dalla presenza di figli a cui badare. Guardando alla durata media generica in ore e minuti emerge come il carico complessivo di lavoro, tra casa e impiego sia di 9 ore e 9 minuti per le donne, contro le 8 ore e 6 minuti degli uomini. E se si passa alle coppie con figli, sempre con lei occupata, la forbice si allarga ancora: diventa 9 ore e 28 contro 8 ore e 13, con uno scarto di un’ora e un quarto.



    Analizzando le tavole che accompagnano il rapporto, emerge un rilevante `gap´ tra il tempo libero di cui gode il maschio, pari a 3 ore e 36 minuti, e quello rimasto alla donna lavoratrice, 2 ore e 37 minuti. La stessa distanza ricompare nelle coppie con figli.



    Eppure dei passi in avanti verso un più equo bilanciamento sono stati fatti: allargando lo sguardo agli ultimi venti anni, la durata del lavoro familiare a carico della componente femminile è andata diminuendo, per la madre lavoratrice nel 2008-2009 è di di 5 ore e 10, mentre nel 1988-1989 era di 5 ore e 47 minuti; al contrario per i padri aumenta, a 2 ore e 4 minuti da 1 ora e 35. Certo per spostamenti di mezzora o qualcosa in più occorrono decenni.



    Altri progressi in direzione di un maggiore equilibrio riguardano anche la fetta di tempo libero a disposizione, a lui oggi resta circa un’ora di tempo libero in più, ma venti anni fa il divario era ancora più accentuato, con i `mariti´ che potevano vantare quasi 4 ore di riposo dall’attività lavorativa e familiare.

     
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  8. la sirenetta
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    Depressione post-partum?
    Adesso tocca ai padri



    Quando una coppia aspetta un figlio, spesso si preoccupa della salute mentale della madre: depressione, problemi successivi al parto, questioni che possono avere un impatto sulla crescita del bambino e la tenuta della famiglia. Con una certa lentezza, la scienza si sta rendendo conto che questi temi riguardano anche i padri.



    Il giornale “Pediatrics”, ad esempio, ha appena pubblicato uno studio condotto in Norvegia, che lancia l’allarme sulla depressione pre e post natale dei genitori maschi. La ricerca ha seguito 30.000 bambini di tre anni d’età, ed è arrivata alla conclusione che questi problemi mentali dei padri hanno un impatto negativo tangibile sul comportamento e la salute dei figli.



    La depressione degli uomini può essere legata a vari fattori: elementi genetici, preoccupazioni relative alle responsabilità che vengono con la paternità, qualche forma di instabilità precedente. Secondo lo studio norvegese, realizzato da Anne Lise Kvalevaag dell’università di Bergen, circa il 3% dei genitori maschi soffre di questi sintomi. Il problema, oltre alla loro salute, è l’impatto che ciò ha sui figli e sulla famiglia. La ricerca pubblicata da “Pediatrics” sostiene che i bambini di questi padri mostrano difficoltà comportamentali e mentali già quando raggiungono l’età di tre anni.



    Le cause elencate nello studio sono principalmente tre: i figli potrebbero aver ereditato dal genitore maschio una suscettibilità genetica a questi problemi; la depressione dei padri ha avuto un impatto negativo sulla salute mentale delle madri; un padre depresso prima della nascita del figlio sarà probabilmente depresso anche dopo, e questo non ha un effetto positivo sulla crescita dei bambini.



    La risposta definitiva su come gestire queste situazioni manca ancora, tanto sulla diagnosi quanto sulla terapia, perché l’attenzione per il tema è recente e le ricerche sono ancora preliminari. Il passo avanti significativo, però, è il riconoscimento dell’esistenza di un problema e l’impegno della scienza ad affrontarlo. Il parto non è un elemento di stress mentale solo per le donne, e prendere atto delle crisi che può provocare anche negli uomini è il primo passo da compiere per trovare una soluzione.
     
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202 replies since 31/8/2012, 23:45   4278 views
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