E questa la sapevi?!

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  1. la sirenetta
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    Una città giardino accanto ai binari

    Il Grande Triangolo Arrugginito - così ben visibile sulla cartina di Google Earth - ha i giorni contati. Perché, anche se le finanze dei Comuni rasentano la bancarotta, ci sono progetti decisi da tempo e finanziati dai privati, che stanno per trasformarsi in cantiere.



    C’erano le fabbriche

    È il caso dei 45 mila metri quadri di area post-industriale compresi fra corso Dante, la ferrovia, via Egeo e largo Turati. È l’ex Osi-Ghia: quel cuneo di terreno incorniciato da corso Dante e dai binari che da Porta Nuova corrono fino al Lingotto e da quelli della linea che porta verso la Valsusa, dove un tempo sorgeva la carrozzeria creata da Giacinto Ghia. Quello stabilimento ormai ridotto a scheletro, a memoria di un design pionieristico. Bene, quella vecchia fabbrica ormai abbandonata, diventerà un campus universitario. E sarà una metamorfosi simbolica. I passaggio dalla città operaia a quella della conoscenza: perchè lì nascerà - come spiega l’assessore all’Urbanistica Ilda Curti - l’Istituto europeo di design, con un investimento da oltre 15 milioni di euro. Tutt’attorno, davanti alle finestre della nuova sede della Stampa di via Lugaro 15, nascerà non solo il nuovo Ied, ma nuove piazze, nuove case e nuovi giardini.



    Un nuovo panorama

    «Giardini pensili al posto delle lastre ondulate - spiega la direttrice della divisione Urbanistica Paola Virano - questo sarà il nuovo panorama di chi fra due massimo tre anni si affaccerà dal cavalcavia di corso Dante». Il piano esecutivo convenzionato già approvato dalla giunta, infatti, prevede un investimento da 60 milioni. E punta a recuperare uno spicchio di metropoli dove parecchi anni fa sorgeva l’ex-centro design della Ghia in seguito occupato dai magazzini della famiglia Milanese oggi proprietaria di catene come «G.B. Sportelli» ed «Ego» e lo Ios, l’azienda che affitta uffici con centro servizi.



    Il nuovo Ied

    Secondo quanto previsto dal progetto firmato dallo studio Mellano al posto dell’ex Ghia sorgerà la nuova sede dell’«Istituto europeo del design», esattamente all’angolo tra via Egeo e corso Dante. Affacciato su largo Turati svetterà un albergo - alto diciotto-venti piani - mentre la famiglia Milanese realizzerà la propria sede commerciale ed espositiva. In mezzo a questo fermento immobiliare sorgerà, completamente rinnovata, la palazzina della cooperativa ferrovieri che si inserirà in un contesto completamente nuovo.

    Secondo i dettami di Palazzo Civico la metà degli ex edifici industriali dovrebbe essere preservata.



    I giardini pensili

    Ed è lì che è nata l’idea di costruire sulla sommità delle nuove abitazione dei giardini pensili. In questo modo, dai vecchi edifici industriali incastonati tra via Bertini e i binari della ferrovia che finisce a Porta Nuova, si ricaveranno locali destinati all’artigianato e al commercio sovrastati da aiuole.



    Trecento appartamenti

    In tutto le nuove residenze copriranno un totale di 18 mila metri quadri suddivisi in tre edifici destinati a 500-600 residenti. I giardini saranno raggiungibili da scale mobili per chi si trova sulla strada e da una passerella per chi si trova sul cavalcaferrovia.



    Campus a emissioni zero

    Un eco-campus. Ecco la più preziosa delle caratteristiche del nuovo Ied che si è aggiudicato l’affare attraverso una gara pubblica che garantisce una concessione di 99 anni. L’area su cui nascerà il nuovo Istituto europeo di Design (a nord di via Montefeltro) è stata ceduta dal fondo immobiliare Fondamenta alla Città in cambio del diritto a costruire condomini e uffici tra via Montefeltro e corso Dante. È proprio sulla punta più settentrionale dell’area ex Ghia che lo Ied, su progetto dell’architetto Cucinella, costruirà un residence da 180 posti per ospitare parte dei suoi iscritti. Sarà un edificio a lama molto simile alla «Fetta di polenta» di Antonelli in corso San Maurizio. Le aule e gli uffici dello Ied saranno invece sistemati in un fabbricato già esistente, in cui si ricaverà anche una mediateca da 40 mila volumi.

     
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  2. *Sjiofn*
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    andrea_vico

    Energia? Più in cielo che in Terra

    Le prime tappe della vita si sono abbreviate. Oggi si è bambini fino a 3-4 anni, poi si è ragazzini fino 7-8 e ragazzi fino a 10-12. Dopo si entra in una fascia ampia che gli inglesi definiscono “giovani adulti”. Ecco: la nuova collana “Quattro passi nella scienza” di Editoriale Scienza, un marchio ricco di intelligenza e creatività nato a Trieste negli Anni 80 e ora confluito nel Gruppo Giunti, è calibrata appunto sui giovani adulti, con l’avvertenza che funziona anche per i ragazzi e che molti adulti non più giovani trarrebbero profitto da queste letture .

    “Energia dal fuoco all’elio” di Andrea Vico, è il libro che inaugura la collana. Un titolo riduttivo rispetto al contenuto, perché qui non si parla solo delle fonti di energia ma anche della loro storia e delle macchine che esse fanno muovere.

    Giornalista scientifico free lance, collaboratore de “ La Stampa”, della Rai e del “Sole -24 ore”, Andrea Vico (qui in un disegno di Steve) non pratica solo la divulgazione scientifica scritta. A Torino ha partecipato alla realizzazione di varie edizioni della mostra annuale “Experimenta” basata sul coinvolgimento dei visitatori, fa parte del direttivo di CentroScienza che ha portato a Torino lo spirito dell’”Exploratorium” di San Francisco, ha fondato la sua associazione ScienzaAttiva ed è impegnato in Brasile in un progetto didattico internazionale per i bambini delle favelas di Salvador (Bahia).

    Questo retroterra orientato a spiegare la scienza non in modo astratto ma partendo da cose, oggetti, osservazioni dirette ed esperimenti è ben presente anche in “Energia dal fuoco all’elio” ed è una caratteristica della nuova collana, che spesso associa ai suoi capitoli un “Laboratorio” per invitare i lettori a “fare per capire” (molto ben fatto in questo senso è un altro volume della collana, “Virus, microbi e vaccini” di Clara Frontali).

    Si dirà: che rapporto c’è tra il libro di Andrea Vico e questa rubrica intitolata “Il Cielo”, di solito dedicata a temi di astronomia?

    Il rapporto è più stretto di quanto può sembrare. Alla fine, tutta l’energia dell’universo viene dalle stelle, e la maggior parte delle stelle nel generare energia parte dall’idrogeno e approda alla formazione di nuclei di elio. A questo processo di fusione nucleare è affidata la speranza di ottenere un giorno – diciamo tra una cinquantina di anni – energia in quantità quasi illimitata e poco inquinante. Siamo dunque in pieno nel percorso richiamato dal titolo “dal fuoco all’elio”. C’è solo da sperare che “Iter”, l’esperimento internazionale che si sta mettendo in piedi a Cadarache, in Francia, arrivi davvero a dimostrare la funzionalità di una centrale a fusione nucleare.

    Ovviamente il libro passa in rivista le varie fonti energetiche, da quelle fossili (carbone, petrolio, metano) alle rinnovabili (vento e Sole). Di nuovo, anche se non sembra, stiamo costeggiando l’astronomia. Carbone, petrolio e metano derivano da organismi (piante, alghe, microorganismi terrestri e marini) che molti milioni di anni fa vissero grazie alla luce del Sole. Il vento esiste perché il Sole causa dislivelli termici nell’atmosfera. Celle fotovoltaiche e impianti termici solari sono evidentemente debitori della nostra stella. Insomma, comunque la si giri, campiamo di energia solare: o direttamente o indirettamente, bruciando sostanze che sono, a ben vedere, antica luce solare imprigionata in composti chimici dai quali l’uomo ha imparato a liberarla sotto altra forma.

    Com’è naturale, il libro incoraggia le energie rinnovabili e lo fa non solo per buoni motivi ecologici ma anche perché le fonti fossili sono destinate a esaurirsi: c’è carbone per un paio di secoli, metano per sessant’anni, petrolio per cinquanta.

    In realtà questi dati sono alquanto mobili. Chi li tira da una parte, chi dall’altra. Molto dipende da quanto si è disposti a pagare per l’estrazione. Inoltre c’è la variabile delle scoperte e delle nuove tecnologie. E’ quanto sta avvenendo per il metano “non convenzionale”.

    Questo metano è intrappolato dentro particolari rocce sedimentarie che i geologi chiamano genericamente scisti (shale in inglese, donde “shale gas”). Grazie ad esso è all’orizzonte una rivoluzione nel campo dell’energia. Anzi, negli Stati Uniti la rivoluzione è già in corso da qualche anno, ma se ne parla poco. Forse c’è un buon motivo: il metano non convenzionale è così abbondante che il mercato dell’energia potrebbe esserne scosso violentemente. Un solo dato basta a far capire quanto sia grossa la partita: secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) nel 2035 il 45 per cento del fabbisogno americano sarà coperto da shale gas. E questa è una stima prudenziale. Altri analisti dicono che nel 2020 oltre metà del metano che si brucerà negli Stati Uniti proverrà dagli scisti.

    La rivoluzione non è solo economica, è anche strategica. Perché mentre il petrolio è distribuito nel mondo in modo molto disuguale, con il 70 per cento delle riserve concentrato nel Medio Oriente, il metano delle rocce sedimentarie è assai più democratico.

    La natura ha favorito il Nord America, dove i geologi stimano che le riserve di shale gas superino i 130 mila miliardi di metri cubi. Ma gli altri continenti non possono lamentarsi. L’America Latina dispone di 60 mila miliardi di metri cubi, l’Europa di 15 mila, l’Asia 100 mila (mentre la Russia di Putin ne avrebbe solo 627), l’Oceania 75 mila, l’Africa sub-Sahariana ottomila. Piove sul bagnato in Medio Oriente, perché anche lì il sottosuolo nasconderebbe più di 70 mila miliardi di metri cubi di metano non convenzionale.

    In sostanza, grazie allo shale gas la stima delle riserve mondiali di metano, tenendo conto di ulteriori prevedibili scoperte, è raddoppiata. Ci sarà metano, tanto per capirci, fino a ben oltre il 2100. Ma soprattutto, grazie all’equa distribuzione delle riserve, il quadro strategico dell’energia fossile è destinato a modificarsi. Gli Stati Uniti assaporano nuovamente il dolce gusto dell’autosufficienza energetica che avevano perso a mano a mano che la loro produzione di petrolio andava calando per esaurimento dei pozzi e aumento della domanda. L’Europa, in una certa misura, si sente meno ricattabile dalla Russia (e peggio per quei paesi come l’Italia che hanno stipulato con “l’amico Putin” contratti di acquisto di metano a lungo termine e a prezzi elevati, forse anche più salati del necessario per oscuri interessi dei contraenti). L’Asia in via di sviluppo (Cina, India) può contare su una fonte meno inquinante del carbone che sta avvelenando la loro aria. L’Australia e l’America del Sud acquistano più autonomia energetica. Russia, Iran, Algeria e Bolivia, paradisi del metano classico, sentono scricchiolare il loro potere.

    Ma non facciamoci illusioni. Benché sia meglio del carbone e del petrolio, anche bruciare metano produce anidride carbonica e quindi effetto serra. Inoltre il processo di produzione dello shale gas (fratturazione orizzontale del sottosuolo a grande profondità) è molto energivoro e a sua volta inquinante. Comunque, anche il metano finirà: fosse anche tra cento anni, è sempre un lampo rispetto alla storia dell’umanità passata e (si spera) futura. Dunque non perdiamo di vista il solare, e in particolare il fotovoltaico, ora che abbiamo superato la soglia, anche psicologica, dei 1500 MW.

     
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  3. la sirenetta
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    Ai fornelli con la Divina

    mariacallas-261541

    Dietro l'immagine di Diva trasmessa alla storia dalla sublime Maria Callas, si celava un suo lato più "umano" e recondito, quello di donna, amante della buona tavola e delle migliori ricette della tradizione gastronomica italiana, oltre che dei Paesi visitati dalla grande cantante nel corso della sua lunga carriera. La stagione autunnale di Congusto si apre con un omaggio all'indimenticabile primadonna. Il mese di Ottobre l'appuntamento è infatti con la prima lezione In cucina con la Divina: ricette segrete di Maria Callas: un ritratto "gastronomico" della cantante più amata di tutti i tempi, delineato attraverso le sue ricette preferite e le ricette da lei stessa ideate. Le date disponibili sono sabato 13 ottobre alle ore 11 e lunedi 10 dicembre alle ore 19. Congusto è il salotto della "cultura contemporanea culinaria". La nuova sede milanese del network di scuole di cucina più glamour d'Italia è sita nel cuore della città meneghina, a Via GIovan Battista Nazari.

     
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  4. *Sjiofn*
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    "Una preghiera per la libertà punk" arriva l'e-book sulle Pussy Riot

    Una voce può risvegliare il mondo, e le sbarre del carcere non fermano il grido del movimento Pussy Riot.

    L'organizzazione no-profit Femminist Press, che supporta da sempre la loro causa, ha annunciato la pubblicazione di un e-book per sostenere le spese legali delle ragazze incriminate. "Pussy Riot! A Punk Prayer for Fredoom" verrà lanciato sul mercato globale il 25 settembre.

    La casa editrice ha lavorato direttamente con le componenti della band raccogliendo poesie, testi di canzoni, racconti, lettere e tutti i documenti del processo, e sono in molti a pensare, che il lavoro sia il frutto diretto delle due latitanti.

    Lo scorso 21 febbraio cinque membri del collettivo femminista russo, colorate dai collant e da vivaci passamontagna, si esibirono in uno scatenato punk chiedendo alla vergine Maria di cacciare via il Presidente Putin. Il video, girato nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, divenne uno dei più visti su YouTube irritando, così, gli animi del Cremlino.

    Le cinque ragazze furono identificate e tre di loro, Maria Alekhina, Ekaterina Samutsevich e Nadezhda Tolokonnikova, arrestate con una condanna di primo grado per "vandalismo motivato dall'odio religioso", mentre le restanti due risultano latitanti e ricercate.

    L'e-book, che potrà essere acquistato a soli 2,99 dollari, conterrà anche le testimonianze degli artisti di fama mondiale che hanno sposato la causa Pussy Riot. Tra le star attiviste Madonna, Paul McCartney, Sting, Yoko Ono, Johanna Fateman, Karen Finley, Justin Vivian Bond, Eileen Myles e JD Samson.

     
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  5. *Sjiofn*
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    2923840_Fantasista

    Altruista o egoista: è solo questione di materia grigia

    L’altruismo o l’egoismo sono soltanto questioni caratteriali, o influenzate dall’ambiente in cui si cresce o vive? Sembrerebbe di no. A influenzare il comportamento altruistico sarebbe il volume di materia grigia nel cervello, o anche viceversa.

    Quando si tratta di comportamento umano, o carattere, spesso si fa riferimento all’ambiente in cui una persona è cresciuta, al genere di appartenenza, così come l’educazione, l’istruzione o lo status sociale. Tuttavia, da sempre, nessuna di queste spiegazioni ha risposto in modo definitivo alla domanda, per cui il concetto di altruismo è rimasto nel limbo dell’accettato ma sconosciuto.

    Oggi, una ricerca svizzera pare aver trovato una risposta meno filosofica e più fisiologica: il volume della materia grigia può essere indicatore di quanto siamo altruisti o quanto non lo siamo.
    Lo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Neuron, e suggerisce che chi ha maggiore materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale è più altruista di chi ne ha poca.
    In quest’ottica vi sarebbe quindi una connessione tra l’anatomia del cervello, l’attività di questo e il comportamento altruistico: come detto, dunque, una risposta fisiologica a un quesito filosofico.

    Il team di ricercatori coordinati dal professor Ernst Fehr, direttore del Dipartimento di Economia della UZ, ha coinvolto un gruppo di volontari a cui è stato chiesto di dividere dei soldi con una persona sconosciuta.
    Ai partecipanti era chiaro che avrebbero potuto sacrificare una parte dei loro soldi per il bene dell’altra persona. Il parametro per valutare l’altruismo era quindi basato sul sacrificio, a proprie spese, che la persona faceva in favore dell’altra.

    Come previsto le differenze di comportamento tra i partecipanti erano molte: c’era chi era del tutto maldisposto a sacrificare una parte del proprio denaro in favore di un’altra persona; poi c’era chi lo faceva volentieri.
    Le analisi del cervello e le risposte di questo agli stimoli hanno permesso di individuare non solo che le persone altruiste avevano un maggiore volume di materia grigia a livello della giunzione tra il parietale e il lobo temporale, ma che in fase di decisione nel dividere i soldi con altri vi era una differente e marcata attività cerebrale.
    Altra evidenza riscontrata era che nelle persone egoiste la piccola regione del cervello dietro l’orecchio era già attiva quando si trattava di un sacrificio in denaro di poca entità, e restava tale. Nelle persone altruiste, invece, questa regione diveniva più attiva quando il livello di sacrificio aumentava. E più era alto il costo, più aumentava l’attività.
    I ricercatori ipotizzano che questo fenomeno si verifichi quando vi è la necessità di superare la naturale predisposizione all’egocentrismo degli esseri umani.

    «Si tratta di risultati interessanti per noi – spiega il professor Fehr – Tuttavia, non si deve saltare alla conclusione che il comportamento altruistico sia determinato soltanto da fattori biologici». Ma quali siano gli altri fattori in verità ancora nessuno lo sa spiegare per davvero.

     
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  6. la sirenetta
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    Sherlock Holmes, la lotta contro
    la morte rivive ogni anno

    holmes01g

    «Tutto ciò che non è noto appare straordinario», e di straordinario c'è che le avventure di Sherlock Holmes continuano a vivere in carne e ossa, almeno una volta l'anno.

    Un gruppo di circa 70 professionisti inglesi, di età media 70 anni, partono ogni anno per un pellegrinaggio davvero unico: rivivere l'ultima lotta dell'investigatore creato da Sir Arthur Conan Doyle. Chi conosce il detective inglese è sicuramente anche a conoscenza delle cascate di Reichenbach, nel cantone di Brena, Svizzera.
    Conan Doyle non avrebbe potuto scegliere un posto più drammatico per mettere in scena lo scontro. Lo strapiombo è di 250 metri verso valle, e la forza dell'acqua ha creato grandi buche e numerose cavità nella roccia.
    Lo scrittore ha scoperto questo posto incantato in vacanza con sua moglie 130 anni fa, e innamoratosi dell'atmosfera, ha deciso che sarebbe stato il luogo ideale dove far concludere le avventure dell'investigatore.

    Ad organizzare la messa in scena dell'ultimo capitolo delle Avventure di Holmes e Watson è la "Sherlock Holmes Society", diretta da Guy Marriott, un avvocato in pensione di Londra, che impersona ogni anno il re di Boemia.

    L'amore di mascherarsi è la componente fondamentale di ogni membro dell'associazione, e dal momento che non tutti possono interpretare i protagonisti, Holmes, Watson o Moriarty, anche i personaggi secondari o cattivi sono diventati gettonati.

    L'ex avvocato spiega, come si legge sull'edizione online della Bbc, «Il re di Boemia appare in un breve racconto chiamato "Scandalo in Boemia". Il re assume Sherlock Holmes per recuperare delle foto compromettenti di lui con una cantante di opera». Il presidente aggiunge «Ognuno di noi sceglie un personaggio, a me piace vestire dal re di Boemia perchè è in uniforme militare».

    Jonathan McCafferty, anche lui ex avvocato, ha deciso di interpretare il Cardinale Tosca. Accanto al Cardinale, la regina Vittoria, la cui protagonista sembra così immersa nel personaggio, da aver dimenticato la sua vera identità. La signora commenta: «Io sono la regina e sono anche Imperatrice d'India, ma oggi, viaggio in incognito».

    Avvocati, architetti, imprenditori, che vivono il loro tempo libero immergendosi nel romanzo.
    L'usanza nasce addirittura nel 1968, quando i fan londinesi hanno cominciato a puntare come meta delle vacanze il luogo svizzero.

    Oltre un secolo dopo, la lotta alle cascate resta una delle scene più famose della letteratura inglese, riportata anche in voga dal film uscito lo scorso anno. Sherlock Holmes e il suo antagonista Moriarty hanno una colluttazione violenta, e sporgendosi dal balcone sullo strapiombo precipitano.
    La scena del ballo e della successiva lotta viene riprodotta fedelmente all'originale, a parte che per il volo nel dirupo, a precipitare infatti, sono due manichini. Elementare Watson!
     
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  7. *Sjiofn*
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    paradossi

    "Inseguite i paradossi e troverete la fisica"

    Un tempo la fisica era rassicurante: forniva una visione del mondo in cui le mele cadevano dagli alberi proprio come ci si aspetta da loro e non era impossibile conoscere allo stesso tempo la velocità e la posizione di qualcosa che si muove. Poi gli scienziati si sono spinti a fondo nei segreti della natura, scoprendo come le regole che reggono l'Universo siano spesso in contrasto con il nostro senso comune.

    La teoria della Relatività, la meccanica quantistica oppure la fisica delle particelle ci hanno posto di fronte a fenomeni così paradossali da fare venire il mal di testa al curioso di scienza più motivato. Ma Jim Al-Khalili non è uomo da spaventarsi, non per nulla questo fisico teorico di origini irachene trapiantato in Inghilterra è uno dei divulgatori più noti al mondo. Così ha visto la luce il suo ultimo libro, il cui titolo, «La fisica del diavolo» (edito da Bollati Boringhieri) ammicca al successo del mistico nomignolo del bosone di Higgs («la particella di Dio»), anche se in realtà allude al famoso diavoletto di Maxwell. Al-Khalili prende di petto i più noti rompicapo della fisica e dissolve la loro imperscrutabilità alla luce delle scoperte dell'ultimo secolo.

    Professore, perché spiegare la fisica partendo dai suoi fenomeni più controintuitivi?
    «I paradossi della fisica sono come dei giochi: sembrano inconciliabili con il senso comune, ma basta introdurre un nuovo concetto o una nuova scoperta e si chiariscono. Sbrogliare un paradosso è divertente, è una sfida mentale che spinge a superare gli ostacoli per comprendere non solo la soluzione dell'enigma, ma anche alcuni profondi concetti scientifici».

    Prendiamo uno degli enigmi che lei affronta: perché di notte il cielo è scuro?
    «E’ un quesito vecchio di secoli. L'Universo è enorme e contiene così tante stelle che in qualsiasi direzione si guardi dovremmo vederne abbastanza da non lasciare nessuno spazio di cielo oscuro. Quindi di notte dovrebbe esserci luce come di giorno. Insomma, sembra un paradosso. La soluzione è semplice, a patto di sapere qualcosa che è stato scoperto solo di recente, e cioè che l'Universo ha avuto un inizio ed è in espansione. Ciò vuol dire che possiamo vedere solo la luce dei corpi celesti relativamente vicini, perché quella prodotta dai più lontani non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci».

    Un altro paradosso celebre è quello di Fermi. Viste le caratteristiche dell' Universo, sarebbe plausibile che ci fossero molte forme di vita extraterrestri, e allora come mai non ne abbiamo mai incontrata una?
    «Questo è un paradosso molto intrigante e per rispondere bisogna riesaminare le ricerche della vita extraterrestre che sono state fatte, così come i calcoli per capire le sue probabilità di esistere. Alla fine penso sia piuttosto semplicistico chiedersi se ci sono degli alieni là fuori: presumibilmente dovrebbero esserci, perché l’Universo è così vasto che potremmo non essere stati ancora contattati. Il punto, però, credo sia un altro: la vita è così speciale da poter esistere solo sul nostro pianeta? Questo interrogativo conduce a due grandi misteri ancora senza soluzione. Il primo riguarda l’inizio della vita sulla Terra, mentre il secondo è: come mai tutto nell’Universo sembra essere stato calibrato in maniera finissima proprio per rendere possibile la vita?».

    Alla fine del libro lei accenna anche al bosone di Higgs. Secondo lei, la sua scoperta risolve qualche paradosso?
    «Il bosone di Higgs è una risposta a interrogativi aperti, ma al momento non ci svela nessun mistero e non risolve paradossi. Bisogna aspettare di capire fino a che punto la particella osservata ha le caratteristiche che ci si attendeva. Possiamo essere certi che questa scoperta porterà a nuovi esaltanti sviluppi nella fisica, anche se al momento non abbiamo idea della direzione in cui saranno».

     
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  8. la sirenetta
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    Sadali cerca aspiranti cittadini
    per trasformarsi in ecovillaggio

    sadali_blog_g

    Sadali, oasi naturalistica in provincia di Cagliari, rischia di trasformarsi nell'ennesimo paese fantasma italiano. Per evitare questa decadenza c'è un progetto da parte del Comune, che mette a disposizione dei buoni di 200 euro al mese, validi per due anni e destinati a chi sceglie di tasferirsi stabilmente, e l'impegno di un gruppo di aspiranti sadalesi che si sta organizzando per realizzare il sogno di vivere in un villaggio davvero «green».

    Quest'ultima iniziativa gode del sostegno del blog «Ripopola Sadali» messo in piedi da Andrea ed Elena, una giovane coppia che si è messa in testa di riunire un gruppo di persone disposte a conoscersi, fare amicizia e trasformare Sadali in un ecovillaggio, acquistando la terra necessaria per produrre il cibo necessario e costruire o restaurare le case con materiali naturali e dotate di impianti di energia da fonti rinnovabili.

    Obiettivo: diventare il più possibile autonomi dal punto di vista energetico ed alimentare, ridurre al minimo l'impatto ambientale, avviare attività non a scopo di lucro che privilegino la cultura e le terapie olistiche e alternative, e magari anche bed and breakfast, vendite di prodotti locali, teatro, arte e seminari e, grazie alla rete dei seed-savers, reintrodurre varietà antiche di semi proteggendo e tutelando la biodiversità.

    L'idea è quella di dare all'ecovillaggio la forma di una sorta di azienda biologica e di laboratorio diffuso di cultura e discipline legate all'ambiente e alla natura, in cui ognuno metta a disposizione le proprie competenze e conoscenze contribuendo così a realizzare un nuovo stile di vita e dare una seconda vita al paese.

    Sono molte le case vuote, in affitto e in vendita a prezzi abbordabili, dai 150 ai 200 mila euro. A 12 km circa da Sadali, poi, fanno sapere sul loro blog Andrea ed Elena, sono in vendita 110 ettari comprensivi di un casale di 250mq, stalla (altri 250mq) e 5 ettari a bosco. Il terreno, assicurano, è molto fertile e sarebbe quindi l'ideale per mettere insieme un gruppo di persone disposte a dividere spesa e lavoro per realizzare un'attività come un agriturismo.

     
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  9. *Sjiofn*
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    emoticons01g

    Trent'anni fa la prima emoticon, la felicità espressa in tre puntini

    Felicità, tristezza o complicità, bastano tre punti per esprimere un'emozione.
    Trent'anni fa, dalla sua camera alla Carnegie Mellon University, l'allora studente Scott Fahlman inviò la prima emoticon in un forum di discussione universitario.

    Lo studente suggerì ai suoi compagni un modo convenzionale per distinguere i messaggi positivi da quelli negativi, attribuendo il simbolo :-) ai primi e il :-( ai secondi.
    In realtà, Fahlman, non è stato il primo utilizzatore delle faccine, ma la nascita del simbolo è attribuita a lui in quanto prima persona ad utilizzarlo pubblicamente.

    Comunicare non significa esclusivamente parlare. I gesti, gli sguardi, le espressioni, il tono della voce, sono una componente fondamentale che può attribuire diversi significati alla stessa parola.
    Con l'avvento dell'era informatica e dello scrivere dietro uno schermo, gli individui hanno subito avvertito la necessità di trovare metodi che potessero esprimere il proprio stato d'animo accanto alle parole digitate. La necessità di comunicare le emozioni, affonda le radici addirittura all'epoca del telegrafo, quando per mandare affetto a un caro lontano si utilizzava l'abbreviazione del codice morse 73, che poi diventò 88, per indicare "love and kisses".

    Tra gli utilizzatori di emoticons del '900 troviamo celebri personaggi che hanno ben saputo giocare con le parole, ma che accanto a quelle parole hanno avvertito l'esigenza di una contestualizzazione emozionale. Luigi Pirandello, utilizzò i due accenti circonflessi ^^ per descrivere le sue sopracciglia corrugate e il giornalista americano Ambrose Bierce, già nel 1912 utilizzava il simbolo \_/ per esprimere il suo sorriso.
    Negli anni '60 fu poi il turno della spilletta trasmetti emozione, quando l'artista Harvey Ball inventò il famoso bottone giallo con due punti e una parentesi per rappresentare la felicità.

    La prima emoticons documentata e impiegata in maniera convenzionale resta però quella di Fahlman. Dalle sue prime proposte, l'utilizzo delle faccine si diffuse in tutta la rete Arpanet, diventando una vera e propria corsa all'esprimersi in 3 puntini.
    L'ingresso nella vita quotidiana degli sms e dei social network hanno poi contribuito alla diffusione mondiale di questo fenomeno, del resto, come si può spiegare in maniera più chiara l'emozione che si sta provando mentre si è nascosti dietro uno schermo?

     
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  10. la sirenetta
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    Tutti in punta di piedi

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    Un pugno di terra può contenere migliaia d’insetti, ragni, vermi e miliardi di microrganismi come i batteri, i funghi e i protozoi. La commissione europea in un suo recente documento sostiene che un ettaro di suolo (circa un campo di calcio) contiene un numero di microrganismi pari al peso di una mucca e di due pecore. Questi stessi microrganismi trasformano in un anno una quantità di residui vegetali e animali morti in sostanze nutritive per gli organismi viventi pari al peso di 25 automobili.

    Due esempi figurativi per comprendere come l’assenza della biodiversità nei suoli oltre non solo permetterebbe la produzione di alimenti per l’uomo e gli altri organismi ma porterebbe anche a un disastro ambientale. Nel giro di pochi anni, infatti, saremmo sommersi di sostanza organica indecomposta e in fermentazione.
    La loro presenza ci garantisce inoltre un patrimonio genetico fondamentale per l’evoluzione socio-economica delle popolazioni umane, basti pensare solo alle applicazioni in campo medico e tecnologico.

    Purtroppo la perdita dei suoli agricoli a causa della cementificazione e del cambiamento climatico (desertificazione e alluvioni) insieme alla scorretta gestione agro-forestale sta mettendo in serio pericolo questo bene sociale che è risorsa non rinnovabile. I suoli per l’agricoltura saranno sempre più scarsi nei prossimi anni ed la carenza di cibo costituirà un serio problema per le generazioni a venire. Per questo, pensando a questi piccoli organismi dovremmo camminare in punta di piedi, e quindi tutelare il valore di questa risorsa, intraprendendo azioni concrete.

    Una nuova concezione dei suoli urbani si dovrebbe tradurre in una riduzione di cementificazione e impermeabilizzazione per dare spazio alle bordure vegetali lungo le strade, le linee ferroviarie, le aree amene periferiche. Nelle aree agricole sono necessari aiuti per dare il via a riforme strutturali e comportamentali per lavorare il suolo in maniera più cosciente e creare delle aree di rifugio per questi organismi. Azioni concrete ma in punta di piedi per non calpestare chi ci serve in silenzio.

     
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  11. la sirenetta
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    "Argentino? No, Gardel era francese"
    Finisce il mistero sul padre del tango


    gardel

    Ora Argentina e Uruguay possono smettere di litigare. E mettersi il cuore in pace: Carlos Gardel era francese. Il leggendario padre del tango, al centro di una “guerra” storiografica infinita tra i due “vicini”, nacque a Tolosa. E’ la fine di leggende, speculazioni e colpi bassi lanciati da un lato all’altro del Rio de la Plata.

    La conferma arriva dal libro “El padre de Gardel”, scritto dall’argentino Juan Carlos Esteban e i francesi Georges Galopa e Monique Ruffié. Le ricerche degli autori, durate dieci anni, hanno portato alla luce il certificato di nascita originale: il futuro cantante e attore viene iscritto nel registro civile di Tolosa l’11 dicembre 1890 con il nome di Charles Romuald Gardes. Una grande scoperta se, come fa notare Esteban, “nel XXI secolo stiamo ancora parlando di una persona nata nel XIX”.

    Gli autori ripercorrono le tappe che hanno originato il mito, per gli argentini un’icona al pari di Maradona e Che Guevara. La 19enne Berthe, ragazza-madre di Charles, viene cacciata dalla famiglia e fugge dall’altra parte dell’Atlantico: in Argentina non la avrebbe raggiunta il disonore per il figlio nato fuori dal matrimonio. Dopo una turbolenta adolescenza nel barrio Abasto di Buenos Aires, il giovane sale alla ribalta con il nome d’arte Carlos Gardel. La sua voce baritonale conquista il Paese, facendo innamorare e ballare migliaia di argentini.

    Poi lo scoppio della Prima Guerra Mondiale: il 24enne Gardel, senza documenti, dovrebbe recarsi all’ambasciata francese per registrarsi e raggiungere il fronte. Ma alle armi preferisce le esibizioni nei teatri. “Nonostante parlasse con orgoglio delle suo orgini francesi, si sentiva argentino. Avvalendosi di una speciale legge uruguaiana si reca all’ambasciata e mostra un documento falso dove indica Tacuarembó, città a 400 chilometri da Montevideo, come luogo di nascita”, spiega Esteban. Soltanto qualche anno dopo, ormai celebre, acquisisce la nazionalità argentina. Da qui la confusione e l’annosa disputa sulla città natale di Gardel, che raccontava: “Sono nato a Buenos Aires all’età di due anni”.

    Il resto è storia. La fama che supera i confini argentini e le numerose tournée in Europa e Sudamerica. L’incisione di quasi un migliaio di canzoni, la carriera di successo nel cinema e la morte nel 1935, a 45 anni, in un incidente aereo a Bogotà. Nel 2003, poi, la sua voce viene dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

    Ora all’Argentina non resta che consolarsi con il mauseoleo di Gardel. Insieme alla tomba di Evita Peron, è ogni anno meta di pellegrinaggio al cimitero Chacarita di Buenos Aires. O dovranno consegnarlo ai francesi?
     
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  12. *Sjiofn*
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    Curiosity, siamo tutti su Marte

    Diciamolo tranquillamente: il successo clamoroso, il perfetto funzionamento, l’impeccabile atterraggio sul suolo di Marte della sonda automatica Curiosity è una vera e propria manna dal cielo per la NASA e per gli Stati Uniti. Quella «tonnellata di bravura americana grande quanto un’automobile» in funzione da qualche settimana sul Pianeta Rosso - queste sono state le orgogliose parole adoperate dal consigliere scientifico del presidente Barack Obama, John Holdren - rappresenta infatti un tangibile ed entusiasmante contraltare fatto di risultati, di efficienza e di competenza a una fase dell’esplorazione spaziale non certo particolarmente felice.

    L’astronautica russa sembra infatti affondare in una crisi industriale e tecnologica senza fine. Nonostante ribaltoni ai vertici e minacciosi interventi da parte di Putin e Medvedev, quando si tratta di far qualcosa di diverso rispetto alla routine (la gestione quotidiana della Stazione Spaziale, i lanci delle Soyuz e dei minicargo Progress verso la ISS) si scontra con la crescente fragilità del sistema industriale e scientifico dimostrata dai tanti flop verificatisi negli ultimi mesi.

    Anche per noi europei, nonostante tutto, la «fase» mostra tutti i segni della stazionarietà se non del declino. La crisi generale dei bilanci degli Stati aderenti all’ESA impedisce di mettere a disposizione le risorse finanziarie che servirebbero per attuare programmi più ambiziosi. Programmi, peraltro, per i quali servirebbero idee e progetti innovativi che non ci sono, e che molto difficilmente verranno messi a punto nel corso della ministeriale europea che si terrà (sotto l’egida italiana) in autunno. Dopo anni di discussione l'Europa ancora non ha deciso se e come progettare il successore del razzo vettore Ariane 5. E se già si fatica a portare a compimento i programmi avviati come Galileo e GMES, siamo in altissimo mare per quanto riguarda il come sostituire il cargo ATV, ormai superato e non più utilizzabile come «pagamento» della quota europea dei costi di gestione della Stazione Spaziale Internazionale.

    Resta la Cina, che per molti (troppi) osservatori sembra compiere passi da gigante a ritmo tanto accelerato da rappresentare un pericolo per l’egemonia spaziale degli USA. Così non è, dicono i numeri: i cinesi per passare dal primo lancio in orbita di una capsula abitabile al primo rendez-vous hanno impiegato esattamente lo stesso tempo che ci misero (cinquanta anni or sono) i sovietici o gli americani. Insomma, procedono, ma con un passo lento.

    Quel che è certo è che l’impresa compiuta dagli uomini del Jet Propulsion Laboratory della NASA con l’arrivo su Marte di Curiosity non solo rimette nella giusta prospettiva gli indubbi, ma limitati, progressi della Cina. Ma anche riconferma, se ce ne fosse stato il bisogno, il primato tecnologico e scientifico degli USA nello spazio. L’eccezionale precisione raggiunta nell’atterraggio (a meno di un chilometro e mezzo dal punto previsto), l’ottimo funzionamento al primo tentativo del sistema di discesa Sky Crane, la straordinaria messe di immagini già messe a disposizione dagli scienziati hanno davvero sbalordito.

    E ora, Curiosity muove i primi passi su Marte, spostandosi dal sito Bradbury Landing, in onore dello scrittore di Cronache Marziane, nato proprio il 22 agosto di 92 anni fa e scomparso a inizio giugno, in direzione delle falde del Monte Sharp, dove sfodererà tutta la sua attrezzatura in un luogo geologicamente interessantissimo. Ieri il rover è arrivato a soli 2,5 metri dal suo primo bersaglio sulla superficie di Marte: è una roccia grande quanto un pallone da calcio sulla quale sarà condotta la prova generale in vista del primo utilizzo del trapano montato sul braccio del robot-laboratorio. Nei prossimi giorni, gli esperti della NASA prevedono di "toccare" la roccia con uno spettrometro e una fotocamera che scatterà primi piani. Entrambi gli strumenti serviranno a determinare la composizione della roccia.

    Per raggiungere questa roccia Curiosity ha marciato sei giorni di fila. La zona chiamata "Glenelg", in cui si trova questa roccia, è stata scelta come primo obiettivo di Curiosity perché in essa si intersecano tre tipi di terreno, uno dalle tonalità più chiare, un altro dalle tonalità più scure e uno più ricco di crateri rispetto ai terreni che Curiosity sta attraversando ora. Inoltre il suolo più chiaro è di particolare interesse perché trattiene il calore durante il giorno fino a notte fonda, e ciò suggerisce una composizione insolita. Per scegliere i potenziali bersagli del rover, i ricercatori che lavorano alla missione perlustrano l’area con la fotocamera Mast Camera (Mastcam) montata sul rover. Oltre a scattare immagini del suolo, la fotocamera ha volto lo "sguardo" anche verso l’alto. Di recente Mastcam è stata puntata verso il Sole e ha osservato le due lune di Marte Phobos e Deimos mentre passavano davanti al Sole per studiare le variazioni delle orbite dei due satelliti. Sarà una missione lunga due anni che riserverà certamente molte sorprese.

     
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  13. la sirenetta
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    cicci

    Cicciobello: il bambolotto compie 50 anni

    Compie 50 anni l’eterno bebè Cicciobello, il neonato giocattolo più famoso e amato dalle bimbe. Incredibile ma vero, questo delizioso pupattolo che ispira dolcezza e sentimenti materni solo al vederlo, tanto è somigliante ad un bambino in carne e ossa, venne al mondo, è il caso di dirlo, proprio mezzo secolo fa, nel 1962. A produrlo fu una piccola azienda italiana, la Sebino, che la pensò proprio giusta quando decise di realizzare un giocattolo per bimbe che fosse diverso dalle precedenti bambole di porcellana o di stoffa. Cicciobello doveva essere molto più simile ad un neonato vero, anche nelle proporzioni, doveva far venire voglia di essere cullato e coccolato, doveva essere leggero e morbido per permettere a tutte le bambine di maneggiarlo senza difficoltà, e avere un visetto espressivo.
     
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  14. la sirenetta
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    Tra decanter e portauova
    l’invasione delle cose inutili

    01pore

    Ma le cose, gli oggetti, le calze, hanno un’anima? I sassi, le caffettiere, i giocattoli, provano sentimenti? E gli animali parlano, ragionano? A giudicare dai cosiddetti film per bambini, «i cartoni animati», dovremmo rispondere di sì: caffettiere che parlano e cantano, auto da corsa che si commuovono, giocattoli che soffrono per l’abbandono, robottini che si premurano di pulire il nostro pianeta e che si innamorano di altre macchine, orsi che ballano il tip tap, soldati di latta che combattono contro il cattivo pinguino di lamiera.

    Ma, una volta spento il dvd player e messo a dormire nostro figlio, ritorniamo alla nostra consueta realtà. Le caffettiere scheggiate si buttano via, le calze e la maglia della salute se hanno un buco si gettano, l’auto dopo due anni è insopportabilmente vecchia, anche se aveva l’Abs, la telecamera per parcheggiare, il dvd incorporato nel poggiatesta; il computer ogni sei mesi lo sostituiamo, perché c’è la versione nuova con 16 giga di Ram! E non sappiamo nemmeno che cosa sia la Ram! Ma soprattutto che te ne frega di tutta ’sta Ram? I giocattoli si buttano via, anche perché le nonne riempiono i nostri appartamenti di giocattoli, e gli amici, se li inviti a cena, non si presentano più come una volta con un mazzo di fiori e/o una bottiglia di vino. Ora si presentano con un giocattolo per il figlio piccolo; almeno una volta si chiedeva «porto il dolce o il gelato?», ora ti telefonano e ti dicono «ma ce l’ha Scrat dell’era glaciale o preferisce la canna da pesca di Nemo?».

    Fate attenzione sul numero degli amici da invitare: più inviti, meno spazio agibile per la casa. Se qualcuno si azzardasse ad organizzare il cenone di Natale con gli amici, sappia che il giorno dopo dovrà affittare un capannone di quelli che si vedono sull’autostrada. Vi sarete domandati come mai l’uomo moderno ha la necessità di vivere in appartamenti sempre più grandi? Se dipendesse dal maschio, la necessità sarebbe circoscritta a sei metri quadrati, lo spazio necessario per contenere un divano ed un televisore, e, volendo esagerare, altri tre metri quadri per il bagno per un totale di nove. Invece una famiglia ha bisogno di vivere in 160, 180, 200 metri quadrati. Perché c’è la cabina armadio, che è grande 90, e la scarpiera che ne occupa 25. I restanti metri sono sommersi dai giocattoli. Non che il capofamiglia in casa non contribuisca a saturare gli spazi: tra maglioni in cachemire, camicie a botton down e soprattutto con la deprecabile moda di impomatarsi, depilarsi e profumarsi, anche il maschio ha dato inizio all’annessione del territorio domestico. E’ difficile affezionarsi a tutti gli oggetti che si hanno per casa, sono troppi, e di alcuni non sappiamo nemmeno il nome e nemmeno a cosa servano.

    L’altro giorno stavo nel mio salotto e improvvisamente è comparsa nel mio campo visivo una scatola di legno di mogano, con sul coperchio un termometro e un vetro, ai lati una chiavetta. L’ho studiata per circa un’ora senza capirci nulla, poi alzando uno scomparto ho trovato le istruzioni. Ho scoperto di possedere una scatola climatizzata per sigari e il termometro serve per segnalare la temperatura nella quale vengono conservati, perché anche i sigari non amano stare troppo al caldo o al freddo, anche loro vivrebbero sempre a 22-24 gradi proprio come noi umani. Poi mi sono ricordato che questo Natale sotto l’albero c’era un pacco senza bigliettino: probabilmente uno degli amici «bastardi» che doveva riciclare un regalo inutile. Solo che ora mi ritrovo con un climatizzatore per sigari, io che non fumo.

    La tentazione sarebbe di buttarlo, o di riciclarlo a mia volta a Natale, ma ho paura di ingenerare questa guerra del riciclo delle schifezze, perché potrebbe arrivarmi il set per la bagna caöda, che per la cronaca è il riciclo più temuto in tutto il Triveneto. Forse si potrebbe tentare di riciclare ad un amico del Sud che non sa cos’è la bagna caöda, ma poi, se per vendetta, dovessimo ricevere un vaso di frutta finta di finto Capodimonte sarebbe un bello smacco. Avendo già abbandonato i proponimenti settembrini, voglio provare a darmene degli altri: da questo autunno vorrei affezionarmi agli oggetti. Per esempio questa scatola climatizzata di mogano, siccome in casa mia non potrà mai contenere un sigaro, ho deciso di usarla per le medicine: «Conservare in luogo fresco e asciutto» sta scritto in grassetto sulla confezione del mio antipiretico. Da quest’anno la tachipirina dormirà là dove normalmente vivono gli Avana, il collirio si rilasserà nell’alloggiamento dei Toscani. La casa è piena di oggetti assurdi che ci hanno regalato o che abbiamo acquistato in un momento di compulsione patologica. Parliamo del decanter.

    Nasce per mescere il vino di valore, solitamente rosso, che va aperto qualche ora prima di essere bevuto per metterlo a contatto con l’aria e per fargli sprigionare le sue essenze, i profumi e le «nouances» di vaniglia, di tabacco, di sella, di cuoio, di liquirizia, di cioccolato fondente, di gasolio, di carta da parati ecc. ecc. Tutti hanno avuto l’esperienza di versare il vino nei bicchieri con un decanter: l’unica cosa più scomoda è fare entrare la suocera dentro l’abitacolo di una macchina da Formula Uno. Poi, se servi il vino nel decanter, sei costretto a dire agli amici cosa stai servendo, perché sono sospettosi, non vedendo l’etichetta; ed allora ci si avventura in improbabili vitigni e luoghi di produzione: molto meglio lasciare il Morellino di Scansano comprato in 3x2 al supermercato in mezzo al tavolo. Ricordatevi il cerchio salva-goccia, altrimenti la moglie, oltre a farvi una scenata, sarà costretta a gettare la tovaglia di lino misto seta per comprarne un’altra. Perché, sia detto con assoluto rispetto per le donne moderne, ma non ci sono più le massaie che erano in grado di far sparire ogni macchia dalle camicie, maglioni, giacche e tovaglie. Una semplice macchia di pinot nero e si è costretti a comprare una tovaglia nuova di Fiandra. Per tutti questi motivi ho deciso che il decanter lo userò come vaso di fiori: tre rose faranno felice vostra moglie e il decanter si sentirà finalmente realizzato. Il vero dramma, ve lo confesso, è quello di non riuscire riconvertire il porta uovo alla cocque.

    Ogni casa lo possiede, ma nessuna famiglia ha mai mangiato un uovo alla cocque. Solo nei film, nei romanzi o nei libri di ricette. Per altro nessuno sa come cucinare un uovo alla cocque. Però il portauovo alla cocque non viene mai buttato via, forse perché qualcuno ancora si illude che prima o poi possa accadere di cucinarlo. Esistono al mondo delle aziende che fanno il loro fatturato grazie al porta sale e pepe e al portauovo alla coque; l’unico motivo plausibile per spiegare l’esistenza di questo manufatto inutile è la lista di nozze: senza la lista di nozze non circolerebbe il portauovo alla cocque e nemmeno il guanto lungo tutto l’avambraccio e imbottito di pelo per togliere la teglia dal forno. L’unico modo per dare un senso a quest’ultimo oggetto è quello di essere stato sposato due volte, così almeno avrà una coppia di guanti che, se non utilizzerà in cucina, verranno utili d’inverno per andare a sciare. Ma il portauovo mi fa tenerezza; è come se di Messi, che è nato per giocare a calcio, non sapessimo cosa farne e lo lasciassimo lì negli spogliatoi, inutilizzato. Fino ad ora l’ho usato per metterci la moneta, le viti a stella, e un vecchio francobollo di quando ancora si spedivano le cartoline.

    Prima o poi mi verrà in mente qualcosa di utile per lui. L’ultima cosa di cui vorrei prendermi cura, è una calza a gambaletto blu in filo di scozia. Si è fatto un buchino proprio lì dove stà solitamente l’alluce. A portare una calza rammendata si rischia di essere estromessi da ogni società civile, addirittura ho sentito parlare di un possibile inasprimento delle pene per le persone che non rottamano dopo 10 utilizzi la propria biancheria intima. La userò per la notte dell’Epifania, la riempirò di dolciumi e dirò a mio figlio che l’ha portata la Befana. Spero soltanto che non scopra il trucco ed urli «ma quella è la calza di papà!!!».

    G. Poretti
     
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    lost_ingoogle01g

    Il social media logora chi non ce l'ha

    Perché si parla tanto di social media (da domani al centro di una manifestazione internazionale che per l’Italia sarà ospitata a Torino)?

    Circa vent’anni fa l’inventore del web, Tim Berners-Lee, progettò il web in modo che fosse strutturalmente «read/write», ovvero, «leggi/scrivi». In altre parole, il web nasce come una biblioteca i cui scaffali possono essere arricchiti da chiunque voglia contribuire, senza filtri all’ingresso. E non solo con libri e riviste, ma anche con diari, manifesti, lettere, fogli sparsi e semplici bigliettini. Si tratta di un cambiamento radicale del concetto tradizionale di «pubblicazione», un cambiamento col quale stiamo facendo ancora i conti.

    Per pubblicare su Internet, però, occorre avere a disposizione un computer specializzato detto server web. Poiché purtroppo non è agevole avere un proprio server, a inizio secolo alcuni imprenditori iniziano a offrire spazio - a basso costo o addirittura gratuitamente - sui propri server. Per gli utenti è come accedere a scaffali gratuiti invece di doversene procurare di propri, una semplificazione molto gradita. Nascono quindi le prime piattaforme online che nel giro di pochi anni permettono dapprima la rapida diffusione dei blog e poi anche di fotografie e video. Naturalmente il servizio gratuito comporta rischi - incluso quello che lo scaffale scompaia all’improvviso o che il proprietario sorvegli, o magari reprima, le attività degli utenti - ma è innegabile che grazie alle piattaforme centinaia di milioni di persone sono riuscite a far sentire la propria voce online.

    Negli ultimi anni avvengono due ulteriori svolte che portano alla situazione attuale. La prima è basata sul fatto che molte persone hanno almeno saltuariamente il desiderio di comunicare qualcosa di breve, come la segnalazione di un libro o di un link web, un commento o una notizia. Insomma, di inviare qualcosa che potremmo chiamare sms pubblici. Nascono quindi le piattaforme di «microblogging», tra cui le più famose sono oggi Twitter (circa 150 milioni di utenti attivi) e, con funzionalità più potenti, Tumblr (circa 65 milioni di microblog).

    A questo sviluppo se ne affianca un secondo, ancora più rilevante, ovvero, l’aspetto sociale. A tutti, infatti, piace (anche per contrastare il sovraccarico informativo) concentrare l’attenzione su persone che per un qualche motivo interessano - che siano amici, conoscenti o persone famose - e a tutti piace avere canali per raggiungere la propria cerchia (o, meglio ancora, cerchie) di contatti. Questo desiderio è alla base del successo sia delle già menzionate piattaforme di microblogging, che sono tutte in qualche modo sociali, sia delle piattaforme più specificamente sociali come Facebook.
    Grazie a questi strumenti, chiamati complessivamente «media sociali», e grazie anche ai sempre più diffusi smartphone, comunicare non è mai stato così facile, anche se spesso la comunicazione si riduce a un semplice «mi piace» o a un «retweet».

    Le conseguenze sono pervasive. Dall’ambito personale da cui erano partiti, i media sociali sono ormai strumenti di informazione scientifica, di attività politica, di diplomazia internazionale, di pubblica amministrazione, di lavoro, di cultura, di marketing nonché di formazione della pubblica opinione. Discussioni che una volta si svolgevano esclusivamente nei bar (o nelle mailing list), ora si articolano anche su Twitter o su Facebook - con forti limiti, ma anche con una vitalità spesso straordinaria.

    Con la consueta, ferrea transizione dal «si può» al «si deve» che caratterizza la tecnologia, sta quindi diventando difficile non avere una presenza «social», così come in precedenza, per restare ad anni recenti, era diventato difficile non avere un telefono cellulare. Ciò vale per aziende e istituzioni, ma anche per un numero crescente di individui, fosse anche solo per migliorare le proprie prospettive lavorative: molti datori di lavoro, infatti, usano i media sociali per trovare le persone di cui hanno bisogno (e viceversa). La chiave per affrontare questo cambiamento è triplice: chiarire i propri obiettivi comunicativi; informarsi sugli strumenti che si intende usare, e infine - e soprattutto - provare. Perché - più ancora che per altri aspetti del web - solo sperimentando di persona si riescono veramente a capire potenzialità e limiti di questi strumenti, che ormai sono diventati parti essenziali dell’esperienza digitale.

     
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202 replies since 31/8/2012, 23:45   4278 views
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