Antichi sapori,alimenti di altri tempi,spezie ,intingoli ,utensili dimenticati,ricordi e ...dintorni

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  1. la sirenetta
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    Olio nel Medioevo e suoi riti




    Durante l'alto medioevo la distruzione delle campagne portò anche all'impoverimento degli oliveti. Fu dal XII sec., grazie soprattutto agli ordini monastici (olio rituale), che venne dato nuovo impulso all'estrazione del succo d'oliva. Gli uliveti aumentarano in tutta la Penisola, soprattutto in Toscana, dove anche la borghesia commerciale scoprì nella produzione e nel commercio dell'olio una fonte importante di guadagno. Il valore del liquido verde era elevato, veniva utilizzato per tenere accese le luci sugli altari, per cerimonie come la cresima o l'ordinazione dei cavalieri, e per l'estrema unzione.
    Se nella cucina antico romana l'olio era uno dei condimenti principali, nella quotidianità della tavola medievale che posto aveva?
    Non certo di primo piano: se ne faceva un uso molto parsimonioso, mentre erano indispensabili in cucina: il lardo, lo strutto, la sugna. Il maiale viveva il suo momento d'oro, soprattutto nell'Italia settentrionale il lardo era il "fondo di cucina" per eccellenza, e il “tempus de laride” (tempo del lardo) rappresentava una delle scansioni del calendario contadino pastorale.
    Alcune eccezioni a questi usi si rintracciavano:
    -al Sud e al Centro fra i ceti alti, dove l’olio veniva consumato come condimento dei cibi a crudo, o come grasso alternativo nei giorni di magro e di quaresima (dal XII sec. fu ammesso anche il burro per le focacce e i dolci, mai per cuocere);
    -sulle navi che solcavano il Mediterraneo, dove l’olio assieme alle spezie serviva per condire i cibi dei marinai, come il pesce seccato, la carne salata e le gallette.

     
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  2. la sirenetta
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    Frutta pregiata a Pollentia e Libarna
    Nelle abitudini alimentari dei Romani la frutta pregiata aveva un posto importante. Le fonti letterarie, in particolare Columella e Catone, dedicano ampio spazio ai modi per conservare i frutti, a proposito dei quali si conosce una produzione privilegiata di noci, nocciole, mandorle, pinoli, in quanto protetti dal guscio, oltre che di uva, mele, pere, cotogne, prunus (prugne o albicocche), sorbe e soprattutto fichi che potevano essere essiccati e conservati più a lungo senza guastarsi. Questi ultimi, per l’alto valore nutritivo, integravano anche la dieta delle classi meno agiate e degli schiavi, ma, in quanto molto zuccherini, potevano essere utilizzati come condimento. Nel corso del I secolo d.C. si diffuse in Italia anche la coltivazione delle pesche che Apicio usava come antipasto, ma che all’inizio vennero importate dall’Oriente a fini soprattutto medicinali e curativi.

    Una traccia significativa di alcuni di questi frutti è emersa dalle indagini archeologiche condotte di recente dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte in vari centri urbani di età romana del Piemonte meridionale quali Pollentia e Libarna, fornendo anche nuovi elementi per la ricostruzione del paesaggio antico.

    A Pollentia, corrispondente all’attuale frazione di Pollenzo (comune di Bra, prov. Cuneo), città fondata dai Romani lungo il fiume Tanaro probabilmente intorno agli ultimi decenni del II secolo a.C., lo scavo di una necropoli di età romana e tardo antica (II-metà V secolo d.C.), indagata nel corso del 2001 sotto il sedime dell’attuale piazza Vittorio Emanuele, ha restituito resti di offerte alimentari consumate nel corso del banchetto funebre.

    Le analisi, condotte dal Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como, hanno interessato una sepoltura ad incinerazione entro anfora segata appartenente ad una donna di età matura, il cui corredo comprendente anche vasellame di pregio in vetro, è databile tra la seconda metà e la fine del II secolo d.C. I residui del rogo funebre, conservati all’interno di un’anfora Dressel 20 di produzione ispanica, hanno restituito, oltre a carboni di quercia e di noce pertinenti al legname utilizzato per la pira funebre, tracce di fronde di olmo, deposte come decoro durante il rito funebre, e un consistente numero (128) di resti carpologici carbonizzati, in gran parte pertinenti a frutti. Si tratta di fichi, noci e uva, la cui associazione è un fatto abbastanza raro che risulta documentato finora nella vicina necropoli di Albingaunum (Albenga). Eccezionale è risultato lo stato di conservazione dei frutti; i fichi (Ficus carica), tutti schiacciati, appartengono ad una varietà abbastanza piccola rispetto a quelli rinvenuti nelle tombe di altre necropoli, come Albenga e Nave, e forse furono consumati già secchi. Gli acini d’uva (Vitis vinifera), di forma quasi sferica, contenevano vinaccioli, fatto che esclude la pertinenza ad uve apirene, cioè selezionate per essere prive di semi. Il guscio della noce (Juglans regia), essenza non autoctona, ne conferma l’importazione e la messa a coltura in età romana a scopo produttivo. Esigui invece, erano i resti di cereali, pertinenti a orzo e frumento duro, varietà caratteristiche del periodo romano, gettati sulla pira con significato simbolico.

    Altri dati sulle varietà di frutta provengono anche da Libarna (comune di Serravalle Scrivia, prov. AL), città sorta lungo la via Postumia nel tratto che da Genua (Genova) valicava gli Appennini dirigendosi verso la pianura padana e Piacenza. Lo scavo del quartiere cosiddetto dell’anfiteatro, costituito da due isolati di abitazioni affacciati sul decumano massimo, ha restituito in particolare noccioli e gusci di pesche, noci e nocciole recuperati nel riempimento di un pozzo (lotto B, isolato I) databile tra la seconda metà del I e il II secolo d.C.

     
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  3. la sirenetta
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    Bevande fermentate in Italia nord-occidentale

    La più antica birra

    La birra è praticamente antica come la cerealicoltura (gli Egiziani, anche per definirne le origini remote, ne attribuivano l’invenzione ad Osiride); la sua scoperta deve essere avvenuta in modo autonomo e parallelo in diverse località in un momento pieno del Neolitico, cioè almeno dal VI millennio a. C., per la casuale osservazione del fenomeno con cui, lasciando dei larghi contenitori con acqua e cereali all’aperto, l’aggressione degli enzimi, che trasformano in alcool amidi e zuccheri, produceva abbastanza rapidamente una fermentazione. In realtà sono molto poche le informazioni che ricaviamo negli scavi preistorici europei sull’utilizzo antico di questa bevanda, al di là di alcune ipotesi fatte sulla base di forme vascolari (i vasi potori per la birra devono avere caratteristiche funzionali specifiche, in particolare per l’abitudine di usare lo “sboccamento” della schiuma per asportare gli affioramenti di pula, che in Mesopotamia venivano evitati con cannucce di paglia) e della valutazione secondo cui, su base linguistica, nelle popolazioni indoeuropee l’uso dell’idromele avrebbe preceduto la diffusione su larga scala della birra di gradazione medio-alta.

    Conosciamo abbastanza bene da fonti scritte e iconografiche la birra egiziana, fin dai testi iscritti della piramide di Saqqara verso la fine del IV millennio a. C., prodotta nella variante più antica e diffusa per lo più a partire dal mescolamento in acqua di pani d’orzo o di altri cereali sbriciolati. La birra egiziana (definita per lo più dalle fonti antiche zythum) era però considerata già da Greci e Romani una bevanda di infimo pregio, in un paese in cui non mancavano buoni vini, preferiti del resto anche dalle classi agiate dell’antico Egitto, e ancora nel IV secolo nell’editto sui prezzi di Diocleziano troviamo che la birra europea (cervisia, camum) costava il doppio della birra egiziana e la metà dei vini ordinari. L’imperatore Giuliano l’Apostata nel IV secolo componeva addirittura un epigramma in greco per denigrare con argomenti topici la birra dei Celti (“Del vino d’orzo”).

    Questi fattori hanno reso facile considerare sotto una luce negativa la produzione antica di birra e ritenere comunemente che l’utilizzo del luppolo (Humulus lupulus L.) nella birra risalga alle prime attestazioni della sua coltivazione, diffusa soprattutto dai monasteri della Boemia nel secolo XIII. In realtà il luppolo, pianta endemica in Europa, in boscaglie, siepi e nelle radure ai margini dei boschi tra circa 45° e 60° lat. N., era conosciuto e utilizzato come erba medicinale ed aromatica fin almeno dal IX secolo, comparendo nel Polyptichus d’Erminone e nelle opere di Alberto Magno e della badessa Ildegarda. Del resto il luppolo selvatico è ben attestato in diagrammi pollinici di siti preistorici centroeuropei e in Piemonte in particolare è presente fin dall’avanzato Neolitico. Al di là di possibili usi medicinali (la luppolina è tuttora apprezzata per i suoi effetti sedativi, antispastici, ipnotici e diuretici), il luppolo era certamente ricercato nella preistoria, al pari dell’ortica, per la sua fibra resistente adatta a corde, lenze e sacchi e come aromatizzante di cibi.

    I nomi della birra dei Liguri e dei Celti

    Fin dall’antica età del Bronzo (circa 2.200-1.650 a.C.) in Italia settentrionale e nel resto dell’Europa centro-occidentale dalla tradizione della ceramica “di accompagnamento” del Vaso Campaniforme emergono forme di boccali monoansati a pareti convesse, con capacità media di norma inferiore ai 50 cl.: sembrano destinati a bevande forse fermentate ma senza particolari esigenze di “sboccamento” di schiuma e pula, forse ancora idromele o vinelli di frutti (vite selvatica, corniolo, sambuco, more di rovo), secondo le attestazioni ricorrenti tra i ritrovamenti nelle stazioni palafitticole.

    Se vogliamo cercare le origini della birra moderna dobbiamo rivolgerci all’età del Ferro ed mondo celtico, diffuso per coincidenza nell’Europa dell’età del Ferro nello stesso areale in cui è endemico il luppolo. Del resto la stessa parola “birra”, ted. bier, fr. bière, viene probabilmente dalla stessa radice del celtico brace, riferito da Plinio, che indicava una specie di cereale (la scandella o orzo distico) e il malto fermentato per la fabbricazione della birra (cf. il francese brasser ed il tardo latino di derivazione gallica braciare). L’italiano antico cervogia e lo spagnolo cerveza si rifanno invece al celtico ceruesia, *keruisia, lat. cervisia: era questa presumibilmente la birra scura, per lo più d’orzo, derivando tale nome dalla radice indoeuropea per “animale con corna, cervo” nel senso di determinazione di colore, come il nostro uso moderno del termine “camoscio”. Una voce celtiberica ci restituisce invece il nome celtico della birra chiara ricavata dal frumento, celia o cerea (cfr. l’inglese ale, i.e. *alu, imparentato probabilmente con il celtico alausa o il latino alica, bevanda di cereali priva di alcool); questo nome, la cui origine linguistica non è chiara, doveva essere utilizzato anche in Gallia Cisalpina, a fianco di cervisia o cervogia, visto che sembrerebbe ricorrere in diverse radici toponimiche.

    Questo dato sembrerebbe confermare un ruolo della Cisalpina occidentale nella produzione di birra, non in contrasto con l’attestazione molto antica nell’età del Ferro della importazione e della produzione di vino, almeno dal VII secolo. Secondo Ateneo i Liguri, come i Frigi ed i Traci, chiamavano la loro birra bryton (probabilmente dalla stessa radice i.e. di brace), dunque anche l’area ligure a sud del Po produceva verosimilmente una propria birra d’orzo a fianco dei vini locali. Del resto Strabone (IV 6,2), parlando esplicitamente dei Liguri della costa “tra Monaco e l’Etruria” riferisce che “vivono per lo più delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano le terre vicine al mare e specialmente i monti”, aggiungendo poi che “il loro vino è scarso, resinato ed aspro”.

    Il ritrovamento archeologico di Pombia (NO)

    Di recente una inconsueta scoperta archeologica ha fornito nuove e dirette informazioni sulla produzione di birra nel Piemonte protostorico: nell’ambiente protoceltico della cultura di Golasecca, in una piccola necropoli a cremazione a Pombia, una tomba a pozzetto databile intorno alla metà del VI secolo a.C. ha conservato così particolari condizioni microambientali da restituirci un ritrovamento eccezionale. L’urna cineraria in terracotta e la scodella di copertura erano infatti intatte, tanto da creare una chiusura quasi stagna in un terreno argilloso; le ceneri del defunto (un maschio adulto) all’interno, prelevate dal rogo e fortemente igroscopiche, riempivano quasi del tutto la piccola urna, tanto da creare un ambiente secco in cui il bicchiere d’impasto collocato pieno (circa 18 cl) al momento della deposizione al di sopra delle ceneri ha potuto conservare disidratata una traccia del contenuto. Quest’ultimo si presentava alla scoperta come una crosta d’un colore vivace rosso-brunastro del peso di circa un grammo, in cui le prime osservazioni provavano abbondanti presenze di residui precipitati della fermentazione di zuccheri tanto da non lasciare dubbi sulla natura alimentare: il colore faceva subito pensare al vino ma le analisi polliniche documentavano una percentuale superiore al 90% di pollini di cereali oltre a pollini arborei e di luppolo, tanto da rendere evidente che si trattasse dei prodotti di decantazione di una bevanda ottenuta per fermentazione di cariossidi di cereali con aggiunta di aromi vegetali, cioè in poche parole birra, scura e ad alta gradazione.

    Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la più antica attestazione materiale europea di birra di una certa gradazione ma addirittura retrodata di molto l’utilizzo del luppolo come aromatizzante per la birra: il luppolo selvatico è ancora oggi endemico nelle brughiere del Ticino tra Pombia e Castelletto e viene usato localmente anche per dare gusto al risotto, secondo una tradizione descritta già da Plinio il Vecchio. La birra bevuta a Pombia intorno al 550 a. C. da popolazioni protoceltiche ben anteriori alle invasioni storiche dei Galli era dunque molto simile a certe birre forti attuali: scura e rossastra (dunque corrispondente alla cervisia delle fonti classiche), abbastanza filtrata, prodotta con una miscela di cereali, collocata in un vaso la cui bocca svasata favoriva lo sboccamento della schiuma. Il defunto, che viveva in un centro agricolo a servizio della concentrazione protourbana di Castelletto Ticino, la preferiva evidentemente al vino, abbastanza diffuso nel VI secolo nella cultura di Golasecca ma probabilmente spesso di mediocre qualità, tanto da gradirla come ultima bevanda e viatico per l’oltretomba.

     
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  4. la sirenetta
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    Al gallo non far sapere quanto è buono il vino col miele
    Secondi le malelingue greche e latine gli etruschi erano il popolo più goloso e mangione della terra: sempre a tavola circondati da bellissimi schiavi che servivano loro cibi succulenti e grandi coppe colme di vino inebriante.
    Certo la fertile terra di Etruria offriva orzo, farro e grano in grande quantità, legumi, olio, vino e fichi.
    La fama del benessere etrusco era tale da varcare anche le Alpi: i galli, infatti, attraversavano le montagne per poter gustare le prelibatezze della città etrusca di Chiusi, come racconta una famosa leggenda.
    Come al solito, però, la realtà doveva essere ben più "magra" della maliziose dicerie degli invidiosi vicini.
    Di certo un contadino non poteva permettersi i lussuosi banchetti che vediamo raffigurati sulle pareti di molte tombe.Secondo la moda imposta dai greci, durante le feste, gli etruschi mangiavano semisdraiati su morbidi divani, davanti ai quali piccoli tavolini ospitavano stuzzicanti leccornie.
    La musica allietava i loro pasti; ovviamente non c'era lo stereo, ma persone in carne ed osa con i loro strumenti: flauti, cetre, tamburelli.
    Nelle cucine cuochi provetti preparavano grossi tranci di carne da arrostire o bollire e da condire con salse a base di cereali, verdure e spezie. Come accompagnamento alla carne, vero e proprio cibo di lusso, focacce, uova, verdure e per concludere frutta e dolciumi.
    Il tutto era annaffiato da ottimo vino allungato con acqua e, pensa un po', insaporito da spezie, miele o formaggio grattugiato!
    Ed ecco una cosa inconcepibile agli occhi di un severo greco: anche le donne sdraiate sui divani a banchettare insieme ai maschi di casa. Mai e poi mai una vera signora greca avrebbe partecipato a queste feste con tutti questi uomini.
    Un buon pasto si mangia anche con gli occhi: raffinate stoviglie esaltano il gusto del cibo, scodelle, piattelli e vassoi, cucchiai e coltelli, ma niente forchette! E tanti, tanti recipienti per le bevande: ecco in tavola un bel servizio composta da zina, qutum, thafna, zavena! Forse è meglio chiamarli con il loro nome italiano, e allora avremo una grossa olla nella quale mescolare acqua e vino, una brocca per servire la bevanda così preparata dentro un calice o una tazza.
    Accanto ai vasi etruschi possono esserci costosi vasi greci con splendide decorazioni. ma perché accontentarsi di semplice ceramica quando si possono abbagliare gli ospiti con sfavillanti servizi di bronzo!
    Forse non sai che a Mantova, antica città etrusca nel cuore della Pianura Padana, gli archeologi hanno fatto una scoperta inquietante: hanno trovato tantissimi scheletri di maiali... senza le zampe posteriori! Già allora gli etruschi erano famosi produttori e commercianti di... prosciutto!

    (fonte www.archeobo.arti.beniculturali.it)

     
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  5. la sirenetta
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    La giara

    La giara è un recipiente, solitamente di terracotta, usato in genere per contenere liquidi o granaglie. Simile all'anfora, si distingue da essa per la forma più tozza e la maggiore capacità. Ha forma approssimativamente cilindrica, che si restringe verso l'imboccatura, o panciuta. Può avere dei manici per facilitarne il trasporto. Le giare venivano usate soprattutto nell'antichità, ma il loro uso è proseguito in alcune regioni fino a tempi recenti.

    In Puglia, in particolare, se ne usa una variante locale detta capasone, che, dismessa ormai l'originaria funzione di contenitore, è oggi ampiamente utilizzata come decoro da giardino.

    Nella novella La giara di Luigi Pirandello, un artigiano siciliano viene chiamato a riparare una giara che si è rotta e, per maggiore comodità, mentre reincolla insieme i pezzi vi si siede all'interno; ma al termine del lavoro, quando tenta di uscire, si accorge di non passare dall'imboccatura e di essere intrappolato dentro. Il proprietario della giara esige che, se rompe la giara per uscire, l'artigiano la ripari una seconda volta a proprie spese; questi rifiuta e rimane dentro la giara aspettando che l'altro ceda.

    Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù si serve di alcune giare di pietra nel miracolo delle nozze di Cana: egli le fa riempire d'acqua e, quando poi i servi ne attingono, scoprono che essa si è tramutata in vino.

    Il toponimo di Giarre, in Provincia di Catania, deriva proprio dal nome di questo recipiente.

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    (fonte wikipedia)
     
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  6. la sirenetta
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    Qualche consiglio per la tavola delle feste

    Cè un modo di servire detto alla “russa”,cioè serviremo noi i nostri ospiti o dal piatto di portata o porgeremo a loro stessi i piatti già pieni.

    Ricordate che i piatti si servono sempre da sinistra e così anche quelli puliti, mentre se sono sporchi bisognerà toglierli da destra, il pane dovrà comparire sulla nostra tavola al momento dei secondi ed in bella vista su di un cestino foderato da un tovagliolo magari rosso e Natalizio con dentro una pinza per prenderlo, potete però.per fare una cosa diversa, se volete, mettere davanti ogni invitato un piccolo piattino che lo conterrà.

    Dovrà essere sempre la padrona di casa ad iniziare il pranzo, iniziando col poggiare sulle proprie gambe il suo tovagliolo, non si dirà più buon appetito, ma un augurio caloroso per la festa non ci starebbe per niente male.

    E’ molto più simpatico servire caffè e liquori comodamente seduti nel vostro salotto.

     
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  7. la sirenetta
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    Dobbiamo preparare un fritto per la tavola delle feste ,ma l'odore poi non sarà facile da far ''sparire''

    possiamo però provare cosi....

    Il problema può essere risolto, o meglio prevenuto, gettando nell’olio bollente, prima degli altri cibi, un pezzo di mela non sbucciata. Non solo non si sentirà alcun odore di fritto, ma si diffonderà un gradevole profumo. Gli ospiti ne saranno, a dir poco, deliziati!
    E anche noi ,poichè una volta trascorsa la giornata di festa non ci ritroveremo un orribile odore in casa.

     
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  8. la sirenetta
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    ALBICOCCA frutto di bellezza medievale

    L’albicocca, considerata in passato frutto esotico e rarissimo, pare che fosse apprezzata già quattromila anni fà dagli imperatori cinesi. Proveniente dall’Asia Centrale questa pianta si diffuse in Persia ed Armenia (Prunus armeniaca) per arrivare, dopo le conquiste di Alessandro Magno, sulle rive del Mediterraneo.
    Conosciuta in Europa grazie ai Romani all'inizio dell'era cristiana, ebbe un periodo di oblio durante il Medioevo. Furono gli Arabi a reintrodurre la coltivazione dell'albicocco attorno al X secolo, non solo per finalità gastronomiche ma anche a scopi farmacologici.
    Questo albero conobbe a partire dal XV sec. una fortuna crescente, ed oggi è coltivato dovunque vi sia un clima abbastanza caldo.
    La buccia del frutto è di colore variabile dal giallo pallido al rosso aranciato. La sua polpa, vivace e preziosamente profumata, oltre ad essere piuttosto nutriente e' ricca di sali minerali e vitamine, utili nella terapia delle anemie, dei difetti della vista e del mal d'orecchi.
    Nella cosmesi popolare l’albicocca e' stata sempre accoppiata anche alla cura della pelle. L’olio ottenuto dai suoi semi, racchiusi nel nocciolo, e' molto efficace sia per il trattamento delle smagliature che delle rughe.
    Particolarmente digeribili, le albicocche possono essere consummate fresche, secche, sciroppate e anche sotto forma di succo. Ai piu' golosi, ricordiamo che e' proprio a base di albicocche la marmellata usata per farcire la squisita torta Sacher, celebre specialita' della tradizione dolciaria Viennese. Scelta veramente felice, dato che l'unione tra il sapore a tratti acidulo di questo frutto e quello denso del cioccolato, nonostante l'apparente contrasto, ha generato una delle piu' grandi delizie del mondo.
    (taccuinistoriciit)
     
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  9. la sirenetta
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    Il cardo

    Il cardo (Cinara cardunculus) è un ortaggio invernale di forma simile al sedano, ma appartenente alla stessa famiglia dei carciofi.

    La parte commestibile è il gambo, che ha un gusto simile a quello del carciofo, con sfumature che ricordano vagamente il sedano.

    Il cardo è un ortaggio difficile da coltivare. Infatti i suoi gambi sono duri e di sapore amarognolo, per limitare l'amaro devono essere coltivati in assenza di luce, il che li rende più candidi; e devono subire l'effetto delle gelate tardo-autunnali, che li rendono più teneri.

    I gambi devono essere bianchi e non presentare tracce di colore verde, altrimenti saranno duri e amari.
    I cardi che tendono ad aprirsi non sono più molto freschi, meglio scegliere piante dal colore chiaro, chiuse e pesanti, prive di macchie, con costole croccanti e larghe.
    Solo i cardi di ottima qualità, come quelli gobbi, si possono mangiare crudi, gli altri vanno sottoposti a cottura anche piuttosto prolungata (30-60 minuti).
    Per evitare che si scuriscano, vanno cotti immediatamente oppure conservati in acqua acidulata. Se si vuole mantenere il colore anche dopo la bollitura, è bene spremere il succo di mezzo limone anche nell'acqua di cottura.
    Il cardo si sposa bene con le acciughe sotto sale, infatti è un'accompagnamento obbligatorio per la bagna cauda, la salsa bollente piemontese a base di acciughe, burro e aglio.

     
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  10. la sirenetta
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    La Carne Bovina

    Nell’antichità la carne bovina aveva un ruolo centrale nei riti propiziatori ed espiatori, poiché i rituali d’invocazione delle divinità comportavano l’offerta di tale dono.
    Egiziani, Greci, Etruschi e Romani destinavano alla divinità solo una piccola quantità dell’animale ucciso, il resto veniva suddiviso fra i sacerdoti e i fedeli riuniti nel sacro convito.
    Nacque dai riti sacrificali l’idea che la macellazione dovesse essere praticata secondo norme religiose codificate, con il conseguente consumo della carne rigidamente regolamentato.
    La distinzione fra cibi impuri e puri della tradizione pagana, ebraica e islamica venne negata nel cristianesimo, che tuttavia impose delle restrizioni nel consumo della carne durante la Quaresima.
    Da un punto di vista mistico la carne rappresenta il corpo del Signore nella sua accezione di vittima sacrificale per la Redenzione dell’umanità.
    In senso negativo essa allude alla parte materiale dell’essere umano e alla sua inclinazione verso il vizio e il peccato.
    Nel Medioevo, anche se la macellazione cessò di essere una pratica religiosa, il tagliare la carne restò un fatto pubblico, riconoscendo al cuoco un’aura di sacralità quando elaborava questo piatto simbolo della mensa dei ricchi.
    Scene pittoriche illustrano la centralità della carne nei banchetti del Cinquecento, dove la “ciccia” divenne oggetto dell’arte spettacolare del trinciante, incaricato di tagliarla pubblicamente e di distribuirla secondo un rigido cerimoniale.
    Con il Seicento crebbe il disgusto per la bestia macellata, simbolo del sentimento della morte, così che ogni attività di sua elaborazione e taglio venne relegata in cucina.
    Significato
    Cristo vittima sacrificale, parte materiale dell’essere umano
    Iconografia
    Nell’arte fiamminga essa compare spesso connessa a temi evangelici, ma è anche cibo presente nelle scene di genere e nelle nature morte italiane, fiamminghe, francesi e inglesi del XVII e XVIII sec.


    taccuinistorici
     
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  11. la sirenetta
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    Miele

    La parola miele sembra derivare dall'ittita melit. Per millenni ha rappresentato l'unico alimento zuccherino concentrato disponibile. Le prime tracce di arnie costruite dall'uomo risalgono al VI millennio a.C. circa.

    Anche nell'antico Egitto il miele era apprezzato, e le prime notizie di apicoltori che si spostavano lungo il Nilo per seguire con le proprie arnie la fioritura delle piante risalgono a 4000 anni fa. Gli Egizi usavano deporre accanto alle mummie grandi coppe colme di miele, che il defunto avrebbe consumato durante il viaggio nell’aldilà (vasi di miele ermeticamente chiusi il cui contenuto si era perfettamente conservato sono stati rinvenuti durante gli scavi delle tombe dei faraoni). In alcuni geroglifici si leggono ricette a base di miele impiegate sia nell’arte culinaria che in medicina (cura dei disturbi digestivi, unguenti per piaghe e ferite)
    I sumeri lo impiegavano in creme con argilla, acqua e olio di cedro, mentre i babilonesi lo impiegavano per cucinare: erano diffuse infatti le focaccine fatte con farina, sesamo, datteri e miele. Nel Codice di Hammurabi si ritrovano articoli con cui gli apicoltori erano tutelati dal furto di miele dalle arnie.

    La medicina ayurvedica, già tremila anni fa, considerava il miele purificante, afrodisiaco, dissetante, vermifugo, antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico e cicatrizzante. Per ogni specifico caso era indicato un differente tipo di miele: di ortaggi, di frutti, di cereali o di fiori.

    I Greci lo consideravano "cibo degli dei", e dunque rappresentava una componente importantissima nei riti che prevedevano offerte votive. Omero descrive la raccolta del miele selvatico; Pitagora lo raccomandava come alimento per una vita lunga.

    I romani ne importavano grandi quantitativi da Creta, da Cipro, dalla Spagna e da Malta. Quest'ultima pare anche derivarne il nome originale Meilat, appunto terra del miele. Veniva utilizzato come dolcificante, per la produzione di idromele, di birra, come conservante alimentare e per preparare salse agrodolci.

    Il miele ebbe un ruolo centrale nella alimentazione medievale, ma fu gradualmente soppiantato come agente dolcificante nei secoli successivi soprattutto dopo l'introduzione dello zucchero raffinato industrialmente. Recentemente in virtù delle proprietà terapeutiche il miele sta in parte ritornando in voga.

    Il miele è prodotto dall'ape sulla base di sostanze zuccherine che essa raccoglie in natura.

    Le principali fonti di approvvigionamento sono il nettare, che è prodotto dalle piante da fiori (angiosperme), e la melata, che è un derivato della linfa degli alberi, prodotta da alcuni insetti succhiatori come la metcalfa, che trasformano la linfa delle piante trattenendone l'azoto ed espellendo il liquido in eccesso ricco di zuccheri.

    Per le piante, il nettare serve ad attirare vari insetti impollinatori, allo scopo di assicurare la fecondazione dei fiori. A seconda della loro anatomia, e in particolare della lunghezza della proboscide (tecnicamente detta ligula), le api domestiche possono raccogliere il nettare solo da alcuni fiori, che sono detti appunto melliferi.

    La composizione dei nettari varia secondo le piante che li producono. Sono comunque tutti composti principalmente da glucidi, come saccarosio, glucosio, fruttosio e acqua.

    Il loro tenore d'acqua può essere importante, e può arrivare fino al 90%.

    La produzione del miele comincia nell'ingluvie dell'ape operaia (la cosiddetta borsa melaria), durante il suo volo di ritorno verso l'alveare. Nell'ingluvie si aggiunge al nettare l'invertasi, un enzima che ha la proprietà di idrolizzare il saccarosio in glucosio e fruttosio.

    Giunta nell'alveare, l'ape rigurgita il nettare, ricco d'acqua, che deve poi essere disidradato per assicurarne la conservazione.

    A questo scopo, le api bottinatrici lo depongono in strati sottili sulla parete delle celle. Le api operaie ventilatrici mantengono nell'alveare una corrente d'aria che provoca l'evaporazione dell'acqua. Quando questa è ridotta ad una percentuale dal 17 al 22%, il miele è maturo. Viene quindi immagazzinato in altre cellette che, una volta piene, saranno sigillate (opercolate).

     
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  12. la sirenetta
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    La lumaca

    La lumaca, dal racconto degli anziani umbri, veniva chiamata " cibo dei poveri ", era cucinata nel periodo della potatura degli ulivi, dal mese di dicembre fino a febbraio, perché se ne trovavano molte nei tronchi cavi di questi alberi o sotto le pietre. Questo tipo di lumaca, detta "aspersa ", oppure "zigrinata o maruzza " per la qualità e per la sua ottima carne , è molto ricercata.
    Essa appena raccolta, era già pronta per essere cotta. Così i familiari e gli amici, tornati da una lunga e faticosa giornata di lavoro, accendevano un fuoco con legno d'ulivo e arrostivano le lumache sui carboni ardenti per alcuni minuti; poi le donne con pazienza e bravura, le tiravano fuori dal guscio con uno stecchino e in seguito venivano condite con un pizzico di sale e un filo dorato d'olio d'oliva.
    Quando tutto era pronto, si mangiavano le lumache con pane di buona farina, fatto in casa e si brindava con un bel bicchiere divino rosso nuovo, ottenuto dal lavoro e dalla fatica della passata vendemmia.

     
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  13. la sirenetta
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    Era conosciuta già nel Medioevo...

    Avena

    L'avena è una fonte di carboidrati a lenta digestione, ricca di fibre e per questo in grado di fornire energia a lungo termine senza causare picchi insulinici. Nel nostro Paese le applicazioni dietetiche dell'avena sono relativamente recenti, nonostante questo cereale abbia alle spalle antichissime tradizioni. I popoli germanici e scozzesi, per esempio, basavano la propria alimentazione sull'avena, dal momento che questa pianta annuale riesce a superare anche i climi rigidi delle regioni nordiche. In tali zone il consumo di avena è ancora ampliamente diffuso, soprattutto per la preparazione di gustosi piatti tradizionali come il porridge.

    In Italia, fino a pochi anni fa, l'avena era destinata prevalentemente all'alimentazione dei purosangue, a quattro (cavalli) e a due zampe (sportivi di alto livello e "maniaci" della forma fisica). Oggi, i benefici dell'avena sono ormai giunti agli orecchi del grande pubblico e la sua diffusione nei prodotti alimentari è sempre più capillare. Ingrediente tradizionale del muesli, viene ormai aggiunta in quasi tutti gli alimenti dietetici per la prima colazione.

    Nell'alimentazione umana viene utilizzata la cariosside, generalmente privata dei suoi involucri fibrosi (decorticata) e ridotta in farina (macinazione) o in fiocchi (tramite pressione dei chicchi, freschi o precotti a vapore).

    Le ottime caratteristiche nutrizionali dell'avena si possono intuire già dalla semplice osservazione delle tabelle alimentari. Tra tutti i cereali, detiene il primato di alimento più ricco in proteine (12,6-14,9%) e di sostanze grasse, tra cui l'essenziale acido linoleico. Ottimo anche il contenuto di fibre solubili, che rendono l'avena un alimento ideale per placare l'appetito, regolarizzare la funzione intestinale e normalizzare il peso corporeo. Non è quindi un caso che la medicina popolare descriva la farina di avena come alimento nutritivo e rinforzante, adatto soprattutto per bambini e convalescenti.

     
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  14. la sirenetta
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    Il sale, oro nel tempo

    Il termine sale deriva dal latino "sal", diventa "sel" i francese, "salt" in inglese, danese e svedese, "sal" in spagnolo, "so" in ungherese, "suola", nella lingua finnica.
    Il sale comune, quello da cucina, è costituito da elementi chimici che, presi singolarmente, sarebbero fatali per l’uomo.
    E’ composto, infatti, anche dal cloro (un gas di odore soffocante ed estremamente tossico) e da sodio (un metallo che a contatto con l’acqua, la decompone liberando idrogeno, il quale a sua volta s’infiamma venendo a contatto con l’ossigeno dell’aria).
    I miliziani venivano retribuiti col sale, da cui il termine "salario".

    L'importanza del sale era conosciuta fin dall'antichità.
    L'antico testamento contiene diverse citazioni del sale.
    Nel Vangelo Gesù dice ai suoi discepoli: "Voi siete il sale della vita" .
    Ippocrate, medico vissuto quattrocento anni prima di Cristo, era a conoscenza del processo di evaporazione dell'acqua marina e della precipitazione del sale.
    Nella "Storia Naturale" di Plinio il Vecchio, ben sette capitoli sono dedicati al sale.
    Nell'Odissea di Omero troviamo la citazione: "Finché tu non raggiunga gli uomini che non conoscono il mare e che non mangiano cibi mescolati al sale".
    Fu probabilmente in Egitto che, nel quinto secolo avanti Cristo, il sale assunse l'importanza che lo ha contraddistinto nei secoli successivi.
    Anche nell'antichità il sale veniva utilizzato principalmente per insaporire i cibi e per conservarli. Per la conservazione dei cibi si disponeva in grandi quantità a strati alternati in grandi casse di legno o di terracotta.
    Un forte sviluppo nella produzione e nel trasporto del sale si ebbe sotto l'Impero Romano. Il sale divenne moneta di scambio, al pari dell'attuale oro.
    Lungo le coste del Mediterraneo e in molte zone del continente africano, il sale era conosciuto e largamente utilizzato.
    Al contrario, in Asia, nonostante i numerosi giacimenti e le zone costiere favorevoli all'impianto delle saline, non era molto conosciuto.
    Furono i greci a diffondere il termine sale alle popolazioni orientali fino al Danubio.
    Le popolazioni europee estraevano il sale dalle saline e dalle miniere, mentre le popolazioni asiatiche preferirono impiantare rudimentali miniere di salgemma.
    Nel Medioevo il sale era ritenuto un elemento fondamentale insieme al mercurio e allo zolfo, e alle quattro forze: aria, acqua, terra, fuoco.

     
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  15. la sirenetta
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    Tradizioni e misticismo in Sardegna
    con i riti della Settimana santa

    Atmosfere intrise di un intenso misticismo che spinge alla contemplazione. Sono quelle suscitate dai riti della Settimana santa (17-25 aprile 2011) che si svolgono in numerosi centri della Sardegna. Un’esperienza da vivere con rispetto e condivisione. Riti che ci consegnano saperi antichissimi legati alla tradizione di un artigianato millenario che si esalta negli abiti caratteristici, fatti di tessuti ricercati, abilmente ricamati e indossati per uno spettacolo dove l’ambiente diventa il teatro di una rappresentazione sacra, quasi liturgica. E poi quei canti, i “sos gasos”, come ancestrali evocazioni di divinità antropomorfe che si contaminano con i suoni, anch’essi antichi, della tradizione cristiana.

    “Sa chida santa” (la Settimana santa) si apre con “Sas Pramas”, la processione della domenica delle Palme, e culmina nel giorno di Pasqua in un incalzante susseguirsi di manifestazioni che rivivono i momenti della Passione del Cristo. Nell’arco della Settimana santa sarà possibile percorrere un intenso itinerario spirituale attraverso i vari centri isolani.

    A Santu Lussurgiu, in provincia di Oristano, nella domenica delle Palme (17 aprile) si celebra “Su Nazarenu”, una Via Crucis lungo la quale vengono eseguiti i canti del Miserere e della Novena. Il rito principale della Settimana Santa di Castelsardo (in provincia di Sassari) si svolge il lunedì dopo le Palme, “Lunissanti” (18 aprile). L’originalità di abiti e usanze, la maestosità della lunga processione (5 chilometri di camminata) dalla chiesa di Santa Maria fino alla basilica di Nostra Signora di Tergu, le sensazioni de “La notti Santa” e la forza dei cori religiosi creano un profondo coinvolgimento di fedeli e turisti.

    A Iglesias, nel Sulcis, le origini dei riti risalgono alla fine del Seicento, quando ancora questa Terra era in piena dominazione spagnola. Le manifestazioni hanno inizio il martedì (19 aprile) con “la processione dei Misteri”. Nel pomeriggio del giovedì si prepara il tavolo per la cerimonia del lavabo: su una meravigliosa tovaglia ricamata (gioiello dell’artigianato locale) il tavolo è imbandito con il vino, il pane, il pesce appena pescato, le arance e i carciofi. “S’Iscravamentu” (“Lu Lcravamentu” in sassarese) di Castelasardo, la cerimonia della deposizione di Cristo, è uno dei riti più solenni del Venerdì santo.

     
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80 replies since 4/11/2010, 09:26   3302 views
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