VITE STRAORDINARIE: Indimenticabili

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  1. la sirenetta
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    michelangeloeilsuotempo

    In ogni epoca, la vita è attraversata da persone che per il loro percorso restano nella mente della gente comune e non solo...entrano nella storia e alcuni nella leggenda,diventando quasi dei miti.Sono i protagonisti e le protagoniste di Vite straordinarie,gli indimenticabili.

    LADY DIANA

    princessladydianaspence




    Diana Mountbatten-Windsor, Principessa del Galles, nata Diana Frances Spencer (Sandringham, 1º luglio 1961 – Parigi, 31 agosto 1997), fu dal 1981 al 1996 consorte dell'erede al trono del Regno Unito, il principe Carlo. Dopo il divorzio dal coniuge ottenne il privilegio di Principessa del Galles, ma senza l'onorifico di SAR

    Diana era figlia di Edward John Spencer (1924-1992), Visconte di Althorp e della prima moglie Frances Ruth Burke-Roche (1936-2004), Viscontessa di Althorp, figlia a sua volta di Ruth Roche e di Edmond Burke Roche, quarto Barone Fermoy. Nacque a Park House, nei pressi della residenza reale di Sandringham in Norfolk e lì venne battezzata nella Chiesa di Santa Maria Maddalena.

    Era la quarta di cinque figli:

    Lady Sarah Spencer (19 marzo 1955)
    Lady Jane Spencer (11 febbraio 1957)
    Hn. John Spencer (nato e morto il 12 gennaio 1960)
    Charles Spencer (20 maggio 1964)
    La madre Lady Frances lascia la famiglia quando Diana ha solo sei anni e va a vivere con un facoltoso proprietario terriero, Peter Shand Kydd. Prende poi con se i suoi due figli più piccoli, ma, nonostante la richiesta di affido, i bambini tornano dal padre che ottiene la custodia.

    Nel 1975, alla morte del nonno Albert Spencer, 7° Conte Spencer, il padre di Diana diventa l'8º Conte Spencer: lei prende il titolo di Lady Diana Spencer e si trasferisce nel castello seicentesco di Althorp nella contea del Northamptonshire.

    Un anno dopo Lord Spencer sposa Raine McCorquodale, figlia della scrittrice Barbara Cartland.

    Origine "multietnica"

    Diana era nata in una famiglia aristocratica con origini reali. Da sua madre Frances traeva origini irlandesi, scozzesi, inglesi e americane (la nonna era Frances Ellen Work, ereditiera americana). Il padre discendeva dal Re Carlo II d'Inghilterra della famiglia Stuart, tramite quattro figli illegittimi:

    Henry Fitzroy, I Duca di Grafton, figlio di Barbara Villiers, Duchessa di Cleveland
    Charles Lennox, Duca di Richmond e Lennox, figlio di Louise de Kérouaille, Duchessa di Portsmouth
    Charles Beauclerk, figlio di Nell Gwyn
    James Crofts Duca di Monmouth, figlio di Lucy Walter.
    Henrietta Fitzjames, figlia di Arabella Churchill, sorella di John Churchill Duca di Marlbourgh.
    Tra gli antenati di Diana: Roberto I di Scozia, Maria I di Scozia, Maria Bolena, Lady Catherine Grey, Maria di Salinas, John Egerton II duca di Bridgewater, James Stanley VII duca di Derby, Georgiana Cavendish, duchessa del Devonshire.

    La nonna materna di lady Diana, Ruth Lady Fermoy, fu per molto tempo dama di compagnia della Regina Madre Elisabetta.


    Diana frequentò prima la Silfield School a Kings Lynn, Norfolk, poi la Riddlesworth Hall e dopo la West Heath Girls'School a Sevenoaks, nel Kent. A sedici anni frequenta per tre mesi un istituto privato in Svizzera a Rougemont, per la preparazione in attività sociali quali gastronomia, floreale, galateo e altro.

    Rientrata a Londra, va a vivere in un appartamento a Earls Court nel Royal Borough of Kensington and Chelsea con tre amiche; s'iscrive all'Accademia di Madame Vacani per la sua grande passione, la danza ma un brutto incidente sugli sci, la fa abbandonare. Iniziò a lavorare part-time all'asilo d'infanzia 'Young England' a Knightsbridge.

    La famiglia di Diana è una delle più ricche famiglie della nobiltà inglese (più antica degli stessi Windsor). Nel 1977, giovanissima, ad una battuta di caccia conosce Carlo, che allora frequentava la sorella Sarah. Nel febbraio del 1978 i due si lasciano, ma il principe Carlo le invita a novembre dello stesso anno per la festa dei suoi trent'anni.

    A gennaio del 1979 la Regina invita le due sorelle a una settimana di caccia a Sandringham. Nel mese di luglio vengono invitate in Scozia e a febbraio del 1980, per la prima volta, Diana trascorre un fine settimana a Sandringham senza la compagnia delle sorelle.

    Si susseguono una serie di incontri fino a che il 24 febbraio 1981 Buckingham Palace annuncia ufficialmente il loro fidanzamento. Carlo, trentaduenne, e la casa reale avevano trovato una "sposa perfetta": aristocratica, nubile, vergine.

    Il matrimonio avviene nella Cattedrale di Saint Paul a Londra, mercoledì 29 luglio 1981, trasmesso in mondovisione. Diana veste un abito con un velo lungo ben sette metri. Alla cerimonia nella cattedrale partecipano 2 mila e 500 invitati. Il viaggio di nozze di Carlo e Diana è una crociera a bordo del panfilo reale Britannia, il più antico della Marina inglese.

    Carlo e Diana hanno avuto due figli: William, erede diretto al trono, nato il 21 giugno 1982 e Harry, nato il 15 settembre 1984. Ma il matrimonio non è felice e dopo varie vicissitudini e interviste con dichiarazioni di tradimenti - Carlo confessò a Jonathan Dimbleby il tradimento con Camilla Parker Bowles, sua vecchia fiamma, e Diana a Martin Bashir della BBC, di aver avuto un flirt con l'istruttore James Hewitt - la coppia si separò il 9 dicembre 1992.

    Dopo il divorzio, avvenuto nel 1996, Diana ritorna al suo appartamento in Kensington Palace e diventa un fenomeno mediatico per la sua eleganza e per il suo carisma. Si adopera nel mondo per aiutare i meno fortunati e si batte nella lotta contro l'AIDS. Decisivo fu il suo contributo alla campagna per la messa al bando delle mine antiuomo; su un invito della leader americana del movimento, Jodie Foster, Diana si fece riprendere dalla stampa mentre ispezionava un campo minato della ex-Jugoslavia.

    Con la sua immagine aiutò soprattutto i bambini poveri dell'Africa e fu accanto a personalità come Nelson Mandela, il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, e Madre Teresa di Calcutta.
    Il 31 agosto 1997 rimane vittima di un incidente automobilistico sotto il Tunnel de l'Alma a Parigi, insieme al suo compagno Dodi al-Fayed, quando la loro Mercedes guidata dall'autista va a sbattere contro il tredicesimo pilastro della galleria.

    Sabato 30 agosto, a fine serata, Diana e Dodi partono dall'Hotel Ritz di Parigi, in Place Vendôme, sulla loro Mercedes S280, seguendo la riva destra della Senna. Poco dopo mezzanotte imboccano il Tunnel de l'Alma seguiti da fotografi e da un cronista.

    All'entrata del tunnel la vettura urta il muro destro, per poi riprendere la strada e sbattere violentemente sul tredicesimo pilone del ponte, dove ha fine la sua corsa.

    Dodi Al-Fayed e l'autista Henri Paul muoiono sul colpo, Trevor Rees-Jones è gravemente ferito ma sopravviverà, Lady D., liberata, è ancora viva, e dopo i primi soccorsi sul posto, l'ambulanza la trasporta all'ospedale Pitié-Salpêtrière, dove arriva alle 2 circa. Per le gravi lesioni interne, viene dichiarata morta due ore più tardi.

    La conferenza stampa per l'annuncio ufficiale della morte viene fatta alle 5.30 da un medico dell'ospedale, Jean-Pierre Chevènement, dal Ministro dell'Interno e da Sir Michael Jay, ambasciatore del Regno Unito in Francia.

    Verso le 14 il Principe Carlo e le due sorelle di Diana arrivano a Parigi per l'identificazione e ripartono con la defunta 90 minuti dopo.


    Il 6 settembre 1997 per le strade di Londra si riversarono circa 3 milioni di persone. Il feretro di Diana fu posto su un affusto di cannone e da Kensington Palace, passò per Hyde Park fino a St James's, dove il principe Carlo, i principi William ed Harry, il principe Filippo, Charles Spencer e i rappresentanti delle tante organizzazioni di cui la principessa era benefattrice, si unirono al corteo dietro la bara. Il pubblico presente al funerale gettò fiori al passaggio del feretro e per tutto il percorso.

    I funerali della principessa del Galles furono celebrati nell'Abbazia di Westminster e durante la cerimonia Elton John cantò una versione modificata per l'occasione di Candle in the Wind. Furono seguiti dalle televisioni di tutto il mondo ed oltre un milione di bouquet furono lasciati davanti al suo appartamento a Kensington.[2] Diana venne tumulata ad Althorp in Northamptonshire su un'isola in mezzo al lago dal nome Round Oval.

    Edited by Oceanya - 1/3/2013, 18:04
     
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    Mi piaceva moltissimo la Principessa Diana. Peccato per la tragica fine! :wub:
     
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  3. la sirenetta
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    DIEGO ARMANDO MARADONA - EL PIBE DE ORO



    Maradona nasce il 30 ottobre 1960 nel quartiere disagiato di Villa Fiorito, nella periferia di Buenos Aires. Il calcio sin da bambino è il suo pane quotidiano: come tutti i ragazzini poveri della sua città passa gran parte del tempo per strada giocando a pallone o facendosi le ossa in campetti disastrati.
    Sono i piccoli spazi in cui è costretto a giocare, fra macchine, passanti e quant'altro, che lo abitua a manovrare la palla in maniera magistrale.

    Già idolatrato dai compagni di gioco per le sue doti mirabolanti, da subito gli viene appioppato il soprannome di "El pibe de oro" (il ragazzo d'oro), che gli rimarrà affibbiato anche quando diverrà una celebrità. Preso atto del suo talento tenta la strada del calcio professionistico: la sua carriera inizia nell'"Argentinos Juniors", per poi proseguire nel "Boca Juniors", sempre in Argentina.

    Le sue straordinarie capacità non potevano non essere notate e al pari del suo grande predecessore brasiliano Pele', a soli sedici anni è già precettato per giocare nella nazionale Argentina, bruciando in questo modo fulmineamente tutte le tappe. Menotti però, commissario tecnico argentino d'allora, non lo convoca per i mondiali del 1978 ritenendolo comunque troppo giovane per un'esperienza forte e importante come quella.
    Il paese sembra non gradire più di tanto la scelta di Menotti: tutti pensano, stampa locale in testa, che invece Maradona sarebbe perfettamente in grado di giocare. Per parte sua, il Pibe de Oro si rivale vincendo i campionati giovanili per nazioni.

    Da quel momento l'escalation del campioncino è inarrestabile. Dopo fulminanti prove in campionato, vola per i mondiali di Spagna 1982 dove dona luce ad una non eccezionale Argentina con due gol, anche se nei momenti chiave delle partite con Brasile e Italia, non riesce a brillare come dovrebbe, facendosi pure espellere. E' quasi un mito: l'unico calciatore diventato così popolare e così amato da eclissare quasi del tutto la stella del calcio per eccellenza, Pele'.
    Successivamente l'ingaggio-record con il quale il Barcellona lo convince a lasciare il Boca Juniors è di sette miliardi di lire dell'epoca.
    Purtroppo però con la squadra spagnola gioca solamente trentasei partite in due anni, a causa di un bruttissimo infortunio, il piú grave della sua carriera.
    Andoni Goicoechea, difensore dell'Athletic Bilbao, gli frattura la caviglia sinistra e gli rompe il legamento.

    L'avventura successiva è forse quella più importante della sua vita (mondiale a parte, si capisce): dopo numerose trattative approda alla città che lo eleggerà a suo portabandiera, che lo innalzerà a idolo e santo intoccabile: Napoli. Lo stesso Pibe de oro ha più volte affermato che quella è diventata la sua seconda patria dopo l'Argentina...
    Il sacrificio della società fu notevole, non c'è che dire (una cifra colossale per l'epoca: tredici miliardi di lire), ma sarà uno sforzo ben ripagato dalle performance di Diego, capace di portare per ben due volte la squadra allo scudetto. Viene coniata una significativa canzone che mette a confronto i due miti, cantata a squarciagola dai tifosi che urlano "Maradona è meglio di Pelé".

    Diego Armando Maradona tocca l'apice della carriera ai mondiali di Messico 1986. Trascina l'Argentina alla conquista della Coppa del Mondo, segna complessivamente cinque reti (e fornisce cinque assist), e sarà premiato quale miglior giocatore della rassegna. In più: nei quarti di finale con l'Inghilterra realizza la rete passata alla storia come quella della "mano di Dio", uno "sberleffo" che ancora oggi il calcio non ha dimenticato (Maradona segnò di testa "aiutandosi" a metterla dentro con la mano).
    Dopo pochi minuti, invece, realizza il gol-capolavoro, quel "balletto" che lo vede partire da centrocampo, e dribblando mezza squadra avversaria, lo vede depositare la palla in rete. Un gol che è stato votato da una giuria di esperti come il più bello della storia del calcio!
    Infine guida praticamente da solo l'Argentina fino al trionfo contro la Germania Ovest per 3-2 nella finale mondiale.

    Da quel successo Maradona ha portato ai vertici del calcio europeo anche il Napoli: come detto, due scudetti vinti, una coppa Italia, una coppa Uefa e una Supercoppa italiana.

    Poi venne Italia '90 e, quasi in contemporanea, il declino del campione idolatrato in tutto il mondo. L'Argentina in quel mondiale arriva sì in finale, ma perde contro la Germania per un rigore di Brehme. Maradona scoppia in lacrime, denunciando successivamente: "E' un complotto, ha vinto la mafia". Sono solo i primi segnali di un'instabilità emotiva e di una fragilità che nessuno sospetterebbe da un uomo come lui, abituato a rimanere sempre al centro dei riflettori.
    Un anno più tardi (è il marzo 1991) viene scoperto positivo a un controllo antidoping, con la conseguenza che viene squalificato per quindici mesi.

    Lo scandalo lo travolge, fiumi di inchiostro vengono spesi per analizzare il suo caso. Il declino sembra inarrestabile; si presenta un problema dietro l'altro. Non basta il doping, entra in scena anche il "demone bianco", la cocaina, di cui Diego, a quanto riportano le cronache, è un assiduo consumatore. Infine emergono gravi problemi con il fisco, a cui si affianca la grana di un secondo figlio mai riconosciuto.

    Quando la storia del campione sembra avviarsi a una triste conclusione, ecco l'ultimo colpo di coda, la convocazione per USA '94, a cui si deve uno strepitoso gol alla Grecia. I tifosi, il mondo, sperano che il campione sia finalmente uscito dal suo oscuro tunnel, che torni ad essere quello di prima, invece viene nuovamente fermato per uso di efedrina, sostanza proibita dalla FIFA. L'Argentina è sotto choc, la squadra perde motivazione e grinta e viene eliminata. Maradona, incapace di difendersi, grida a un ennesimo complotto contro di lui.

    Nell' ottobre del 1994 Diego viene ingaggiato come allenatore dal Deportivo Mandiyù, ma la sua nuova esperienza finisce dopo solo due mesi. Nel 1995 allena la squadra del Racing, ma dà le dimissioni dopo quattro mesi. Poi torna a giocare per il Boca Juniors e i tifosi organizzano una grande e indimenticabile festa allo stadio della Bombonera per il suo ritorno. Rimane al Boca fino al 1997 quando, nel mese di agosto, viene trovato nuovamente positivo ad un controllo antidoping. Nel giorno del suo trentasettesimo compleanno, el Pibe de oro annuncia il suo ritiro dal calcio.

    Conclusa la sua carriera calcistica Diego Armando Maradona sembra aver avuto qualche problema di "assestamento" e di immagine: abituato ad essere idolatrato dalle folle e amato da tutti, sembra che non si sia ripreso all'idea che la sua carriera fosse finita e che quindi i giornali non avrebbero più parlato di lui. Se non parlano più di lui dal punto di vista calcistico, però lo fanno nelle cronache dove Diego, per una cosa per l'altra (qualche apparizione televisiva, qualche improvvisa rissa con gli invadenti giornalisti che lo seguono ovunque), continua a far parlare di sé.

    Nel 2008, a pochi giorni dal suo compleanno, Diego Armando Maradona viene nominato nuovo commissario tecnico della nazionale di calcio Argentina, in seguito alle dimissioni di Alfio Basile il quale aveva ottenuto scarsi risultati nelle qualificazioni ai Mondiali del 2010.


    Premi in carriera:

    1978: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
    1979: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
    1979: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
    1979: Campione del Mondo juniores con la nazionale argentina.
    1979: "Olimpia de Oro" al Miglior calciatore argentino dell'anno.
    1979: Scelto dalla FIFA come Miglior Calciatore dell'anno in Sudamerica.
    1979: Ottiene il Pallone d'Oro come Miglior Calciatore del momento.
    1980: Capocannoniere del Campionato Metropolitano.
    1980: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
    1980: Scelto dalla FIFA come Miglior Calciatore dell'anno in Sudamerica.
    1981: Capocannoniere del Campionato Nazionale.
    1981: Riceve il Trofeo Gandulla come Miglior Calciatore dell'anno.
    1981: Campione di Argentina con il Boca Juniors.
    1983: Vince la Coppa del Re con il Barcellona.
    1985: Viene nominato ambasciatore dell'UNICEF.
    1986: Campione del Mondo con la nazionale argentina.
    1986: Vince il secondo "Olimpia de Oro" al Miglior calciatore argentino dell'anno.
    1986: E' dichiarato "Cittadino Illustre" della Città di Buenos Aires.
    1986: Ottiene la Scarpa d'Oro consegnata dalla Adidas al miglior calciatore dell'anno.
    1986: Ottiene la Penna d'Oro come miglior calciatore in Europa.
    1987: Campione d'Italia con il Napoli.
    1987: Vince la Coppa Italia con il Napoli.
    1988: Capocannoniere della Serie A con il Napoli.
    1989: Vince la Coppa UEFA con il Napoli.
    1990: Campione d'Italia con il Napoli.
    1990: Ottiene il Premio Konex di Brillante per la sua abilità sportiva.
    1990: Secondo posto nella Coppa del Mondo.
    1990: Nominato Ambasciatore dello Sport dal Presidente dell'Argentina.
    1990: Vince la Supercoppa Italiana con il Napoli.
    1993: Premiato come Miglior Calciatore Argentino di tutti i tempi.
    1993: Vince la Coppa Artemio Franchi con la nazionale argentina.
    1995: Ottiene il Pallone d'Oro alla carriera.
    1995: Premiato come "Maestro Ispiratore di Sogni" dall'Università di Oxford.
    1999: "Olimpia de Platino" al Miglior Calciatore del secolo.
    1999: Riceve dalla AFA il premio come miglior sportivo del secolo in Argentina.
    1999: Il suo slalom del 1986 contro l'Inghilterra è scelto come miglior gol della storia del calcio.
     
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    Massimo Troisi nasce il 19 febbraio del 1953 a San Giorgio a Cremano, una cittadina a 4 chilometri da Napoli. Cresce in una famiglia numerosa: nella sua stessa casa, infatti, abitano, oltre ai suoi genitori ed ai suoi cinque fratelli, due nonni, gli zii e i loro cinque figli.
    Comincia a interessarsi al teatro quando è ancora studente, recitando nella compagnia amatoriale "I Saraceni", di cui facevano parte Lello Arena, Enzo Decaro, Valeria Pezza e Nico Mucci. Il Centro Teatro Spazio, che ospita il gruppo, è già stato il contenitore di molti spettacoli della tradizione napoletana, da Viviani a Eduardo. Nel 1969 Troisi fonda, con Lello Arena e Enzo Decaro, il trio “La Smorfia”. Mentre le rappresentazioni si spostano al Teatro Sancarluccio di Napoli, le prime avvisaglie di successo a livello nazionale arrivano con la trasmissione radio “Cordialmente insieme”. È però la televisione, naturalmente, a portare il trio partenopeo alla vera fama, con i programmi “Non Stop”, la trasmissione laboratorio di Trapani del 1976 e “Luna Park” (1979). Sono quegli anni di sketch come “L'Arca di Noè, “L'Annunciazione”, “I soldati” e “San Gennaro”. Tutti rigorosamente in stile napoletano, pieni di quella tradizione cattolica che sfiora il paganesimo, pieni di superstizioni e allusioni alla magia. L'ultimo spettacolo teatrale de La smorfia è "Così è (se vi piace)".
    Dal 1981 comincia per Troisi l’avventura anche nelle sale cinematografiche con il primo film in cui è regista e protagonista “Ricomincio da tre”. Si tratta forse dell’esordio più esplosivo della comicità italiana, uscito nelle sale al principio di una delle crisi peggiori per il cinema italiano. La verve di Troisi si avvicina di più allo stile di Eduardo, piuttosto che a quello di Totò e Peppino. Nel suo “agro umorismo si combinano ironia e tenerezza, condite con una fantasia nevronapoletana e invenzioni secentesche”. Nella trama, soprattutto, in questo ed altri lavori, si ritroveranno gli stilemi del Seicento popolano, peculiarmente partenopeo. La filosofia di vita basata sull’arte tutta napoletana di sapersi accontentare, si fonde con la capacità di cogliere il particolare delle cose, delle situazioni e delle persone trasformandolo in intima e personale analisi.
    Il suo personaggio dell’insicuro alle prese con problemi di maturità si arricchisce e “matura” nel successivo “Scusate il ritardo” (1982), trovando poi spazio in “Non ci resta che piangere” (1984). Si tratta di un progetto a suo modo anomalo, “un esperimento di fantascienza”, dirà poi Roberto Benigni , che con lui scrive, dirige e interpreta il film. La vicenda dei due amici (insegnante e bidello), nella vita e sullo schermo, misteriosamente catapultati nel Medioevo, diviene una delle icone della nuova comicità italiana, non solo dialettale (napoletana e toscana), ma anche nazionale. Una riflessione sull’origine della cultura di massa italiana leggera e spensierata, ossimoro sempre presente nei lavori del Troisi cineasta.
    È invece datata 1985 una curiosa apparizione in “Hotel Colonial”, un dramma colombiano alla “Apocalypse now” di Cinzia Torrini. Due anni dopo, però, Troisi è ancora una volta impegnato in prima persona, dietro e davanti alla macchina da presa con il film “Le vie del Signore sono finite”. L’ambientazione negli anni fascisti appesantisce forse un po’ lo sforzo comico e comunicativo dei testi, ma la mimica di Troisi si ricorda anche quando è in costume e il prezzo di una trama in certi punti troppo intricata è ripagata dal piacere di vedere il protagonista che porta il proprio personaggio unico attraverso un’altra epoca. Tre film di Ettore Scola lo vedono impegnato di nuovo come attore: “Splendor” (1989), un nostalgico inno al cinema di sala in coppia con Marcello Mastroianni; “Che ora è” (1989), in cui l’incomunicabilità padre-figlio vale la Coppa Volpi a Venezia ex-aequo ancora con Mastroianni e “Il viaggio di Capitan Fracassa” (1990), dal romanzo di Théophile Gautier. Con “Pensavo fosse Amore... invece era un calesse” (1991) di cui è anche autore e interprete, Troisi firma la sua quinta regia cinematografica. Questa tormentata storia d’amore si veste di ironia e diventa una tragicommedia affollata di personaggi in bilico a cui Troisi, imponente nella recitazione come nella scrittura, lascia spazio tuttavia al dialogo con altri artisti come Francesca Neri, che si dimostra all’altezza della situazione.
    Il suo lavoro più intenso e importante, sia per quanto riguarda la sceneggiatura che l’impegno nel tratteggiare storia e personaggi, è “Il Postino” (1994), diretto insieme a Michael Radford,. Tratto dal romanzo di Skarmeta, il film non è più basato sui famosi lunghi monologhi “alla maniera teatrale” di Troisi, ma su fotografia, poesia e pause d’introspezione. Il successo è capillare, non solo grazie al valore della pellicola, ma purtroppo anche a causa della notizia della prematura morte di Massimo Troisi. Il suo cuore, già malato, si spegne nel sonno, a Ostia (RM), il 4 giugno 1994, solo 24 ore dopo aver terminato le riprese.

    Hanno detto di lui:

    "Massimo è stato un leader totale, ma un leader da iceberg, era il leader più nascosto del mondo. Forse quello che manca tanto di lui è il punto di vista, questo punto di vista sempre sorprendente. L'artista è questo, quello che riesce sempre a spingersi oltre il punto di vista normale." (Enzo De Caro)

    "Massimo Troisi era un essere umano leggero, lieve, forse stonato in un'epoca e in una società dello spettacolo dove imporre la propria presenza, essere arroganti, è il comportamento di moda. Massimo sapeva stare al mondo rendendo gradevole la vita dei suoi amici e della gente che gli era cara senza sfiorare mai gli altri con le sue angustie." (Gianni Minà)

    "Piccolo piccolo e anarchico... uniforme e imprendibile, fluidissimo e singhiozzante, febbricitante e dolcissimo"
    Gariazzo e Chiacchiari (su "Pensavo fosse amore... invece era un calesse")

    "Abbiamo scritto due pezzi in macchina mentre andavamo a Viareggio a fare un video, e poi i video che abbiamo fatto insieme, le risate che ci siamo fatti, insomma, ho dei bellissimi ricordi con Massimo". (Pino Daniele)

    "Io sono nata con lui e dopo otto anni in America, ora che sono stata lì, mandavano in televisione 'Il postino' e la gente mi chiamava Beatrice, perché non sapevano neppure come mi chiamo." (Maria Grazia Cucinotta)

     
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    SALVO D'ACQUISTO

    Salvo D'Acquisto nacque a Napoli, a Villa Alba, un edificio di 4 piani in via San Gennaro nel rione Antignano, e frequentò la scuola d'infanzia presso le salesiane Figlie di Maria Ausiliatrice di via Alvino nel quartiere Vomero e successivamente il Liceo Vico.

    Arruolatosi giovanissimo nei Carabinieri come volontario nel 1939, partì nuovamente volontario l'anno successivo per la Libia, a pochi mesi dall'inizio della seconda guerra mondiale; dopo essere rimasto ferito ad una gamba, restò con il suo reparto in zona d'operazioni sinché non contrasse una febbre malarica e rientrò poi in Italia nel 1942 per frequentare la Scuola Allievi Sottufficiali Carabinieri e diventare sottufficiale. Uscitone col grado di vice brigadiere, fu destinato alla stazione dei Carabinieri di Torrimpietra, all'epoca una zona rurale extraurbana a qualche decina di chilometri da Roma, lungo la via Aurelia, oggi frazione del comune di Fiumicino.

    Dopo l'8 settembre 1943, un reparto di truppe tedesche delle SS si era accasermato presso alcune vecchie postazioni precedentemente in uso alla Guardia di Finanza, nelle vicinanze della località Torre di Palidoro, che rientrava nella giurisdizione territoriale della stazione Carabinieri di Torrimpietra. Qui il 22 settembre alcuni soldati tedeschi che ispezionavano casse di munizioni abbandonate, furono investiti dall'esplosione di una bomba a mano, probabilmente per imperizia nel maneggio degli ordigni. Uno dei soldati morì ed altri rimasero feriti.

    Il comandante del reparto tedesco attribuì la responsabilità dell'accaduto ad anonimi attentatori locali e richiese la collaborazione dei Carabinieri, temporaneamente comandata da D'Acquisto per l'assenza del maresciallo comandante. La mattina seguente, D'Acquisto, assunte alcune informazioni, provò a ribattere che l'accaduto era da considerarsi un caso fortuito, un incidente privo di autori, ma le SS insistettero sulla loro versione e richiesero la rappresaglia, ai sensi di un'ordinanza emanata dal maresciallo Kesselring pochi giorni prima.

    Il sacrificio

    Il 23 settembre furono dunque eseguiti dei rastrellamenti e catturate 21 persone scelte a caso fra gli abitanti della zona. Lo stesso D'Acquisto fu forzatamente prelevato dalla caserma, da parte di una squadra armata di SS, e fu condotto nella piazza principale di Palidoro, dove erano stati radunati gli ostaggi. Fu tenuto un sommario "interrogatorio", nel corso del quale tutti gli ostaggi si dichiararono ovviamente innocenti. Nella piazza venne anche condotto un altro abitante ritenuto un carabiniere, Angelo Amadio.

    Nuovamente richiesto di indicare i nomi dei responsabili, D'Acquisto ribadì che non ve ne potevano essere, perché l'esplosione era stata accidentale, gli ostaggi e gli altri abitanti della zona erano dunque tutti quanti innocenti. Durante l'interrogatorio dei rastrellati, il sottufficiale fu tenuto separato nella piazza, sotto stretta sorveglianza da parte dai soldati tedeschi e, "quantunque malmenato e a volta anche bastonato dai suoi guardiani, il D'Acquisto serbò un contegno calmo e dignitoso", come ebbe a riferire in seguito Wanda Baglioni, una testimone oculare.

    Gli ostaggi e D'Acquisto, vennero quindi trasferiti fuori dal paese. Agli ostaggi furono fornite delle vanghe e furono costretti a scavare una grande fossa comune nelle vicinanze della Torre di Palidoro, per la ormai prossima loro fucilazione. Le operazioni di scavo si protrassero per alcune ore; quando furono concluse fu chiaro che le SS avrebbero davvero messo in atto la loro terribile minaccia.

    A quel punto, secondo la testimonianza di Angelo Amadio:

    « all'ultimo momento, però, contro ogni nostra aspettativa, fummo tutti rilasciati eccetto il vicebrigadiere D'Acquisto. ... Ci eravamo già rassegnati al nostro destino, quando il sottufficiale parlamentò con un ufficiale tedesco a mezzo dell'interprete. Cosa disse il D'Acquisto all'ufficiale in parola non c'è dato di conoscere. Sta di fatto che dopo poco fummo tutti rilasciati: io fui l'ultimo ad allontanarmi da detta località. »


    Amadio infatti era creduto dai tedeschi un carabiniere e pertanto inizialmente ritennero di trattenerlo per farlo assistere alla esecuzione. Evidentemente, Salvo D'Acquisto si era autoaccusato del presunto attentato, addossandosi la sola responsabilità dell'accaduto e chiese l'immediata liberazione dei rastrellati.

    I 21 prigionieri furono lasciati liberi e immediatamente si diedero alla fuga, lasciando il sottufficiale italiano già dentro alla fossa, dinanzi al plotone d'esecuzione. Alla fuga si unì immediatamente dopo Amadio, quando riuscì a dimostrare, presentando i suoi documenti, che in realtà era un operaio delle ferrovie e non un carabiniere. Come raccontò nella sua testimonianza resa nel 1957, fece in tempo però mentre correva, a sentire il grido "Viva l'Italia" lanciato dal carabiniere, seguito subito dopo dalla scarica di un'arma automatica che portava a termine l'esecuzione. Si girò e vide un ulteriore colpo sparato da un graduato tedesco al corpo già riverso per terra. Vide i soldati ricoprire il corpo con il terriccio, spostandolo con i piedi. Il comportamento del militare aveva infatti colpito le stesse SS, che il giorno dopo, secondo quanto riferito nella testimonianza della Baglioni, le riferirono: "Il vostro Brigadiere è morto da eroe. Impassibile anche di fronte alla morte."

    Salvo D'Acquisto fu fucilato, all'età di 22 anni. Le sue spoglie sono conservate nella prima cappella sulla sinistra, adiacente all'ingresso, della chiesa di Santa Chiara di Napoli.

    Nel 1983 fu aperta presso l'Ordinariato militare una causa di canonizzazione del sottufficiale.

    La lapide e le caserme

    Di fronte alla Torre di Palidoro sul luogo della fucilazione adesso compreso nella Riserva naturale Litorale romano è stata eretta una lapide. L'accesso all'area non è libero, ma è consentito solo durante le visite guidate gratuite alla riserva naturale, organizzate dal dipartimento politiche ambientali ed agricole del Comune di Roma[1], o durante le cerimonie militari rievocative.

    A Salvo D'Acquisto sono intitolate varie caserme dei Carabinieri. Tra queste:

    la caserma Salvo d'Acquisto di Roma, Tor di Quinto, sede del C.N.S.R. (Centro Nazionale di Selezione e Reclutamento) dell'Arma dei Carabinieri, del Comando Unità Mobili e Specializzate "Palidoro" nonché del Reggimento Carabinieri a cavallo (quest'ultimo inquadrato nella I Brigata Mobile). La caserma è situata lungo viale di Tor di Quinto, all'altezza di via Federico Caprilli;
    la Scuola Marescialli e Brigadieri Carabinieri di Velletri.

    Medaglia d'oro al valor militare

    «Esempio luminoso d’altruismo, spinto fino alla suprema rinuncia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, era stato condotto dalle orde naziste insieme a 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, pure essi innocenti, non esitava a dichiararsi unico responsabile di un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava così — da solo — impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma.»
    — Torre di Palidoro (Roma), 23 settembre 1943
     
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    Maria Montessori



    Maria Montessori nasce a Chiaravalle (Ancona) il 31 agosto 1870 da una famiglia medio borghese. Trascorre l'infanzia e la giovinezza a Roma dove decide d'intraprendere studi scientifici per diventare ingegnere, un tipo di carriera che a quel tempo era decisamente preclusa alle donne. I suoi genitori l'avrebbero voluta casalinga, come la maggior parte delle donne della sua generazione.

    Grazie alla sua ostinazione e all'ardente desiderio di studiare, Maria riesce però a piegare l'ottusità della famiglia, strappando il consenso per l'iscrizione alla facoltà di medicina e chirurgia dove si laurea nel 1896 con una tesi in psichiatria.

    Per rendersi ben conto quale sforzo dovette costarle questo tipo di scelta e quali sacrifici dovette intraprendere, basti dire che, nel 1896, diventò la prima dottoressa d'Italia. Da qui inoltre si capisce come gli ambienti professionali in genere, e tanto più quelli relativi alla medicina, fossero dominati dagli uomini, molti dei quali, spiazzati e disorientati dall'arrivo di questa nuova "creatura", si presero gioco di lei arrivando persino a minacciarla. Un atteggiamento che purtroppo ebbe gravi ripercussioni sull'animo si forte tuttavia sensibile della Montessori, che prese a detestare gli uomini o perlomeno ad escluderli dalla sua vita, tanto che non arriverà mai a sposarsi.

    I primi passi della sua straordinaria carriera, che la porteranno a diventare un vero e proprio simbolo e un'icona del filantropismo, la vedono alle prese con i bambini disabili, di cui si prende amorevolmente cura e a cui rimarrà affezionata per il resto della sua vita, dedicandovi tutti i propri sforzi professionali.

    Intorno al 1900 inizia un lavoro di ricerca presso il manicomio romano di S. Maria della Pietà dove, tra gli adulti malati di mente, si trovavano bambini con difficoltà o con turbe del comportamento, i quali sono rinchiusi e trattati alla pari degli altri malati mentali adulti e in stato di grave abbandono affettivo.

    L'eccezionale dottoressa, oltre alla profusione di amore e di attenzione umana che elargisce a queste povere creature, si rende ben presto conto, grazie al suo acume e alla già ricordata sensibilità, che il metodo di insegnamento usato con questo tipo di "pazienti" non è corretto, non è insomma adeguato alle loro capacità psicofisiche e alle loro esigenze.

    Dopo numerosi tentativi, anni di osservazioni e prove sul campo, la Montessori arriva così ad elaborare un nuovo e innovativo metodo di istruzione per bambini disabili. Uno dei concetti basilari di questo metodo (che affonda comunque le sue radici all'interno dell'evoluzione del pensiero pedagogico), è centrato sulla constatazione che i bambini hanno fasi di crescita differenziate, all'interno delle quali sono più o meno propensi a imparare alcune cose per trascurarne delle altre. Da qui ecco allora una conseguenziale differenziazione dei piani di studio e di apprendimento, "tarati" sulle reali possibilità del bambino. Si tratta di un processo che oggi può apparire scontato, ma che ha richiesto un'evoluzione degli approcci pedagogici e una riflessione attenta, all'interno di questo pensiero, su cosa sia o non sia un bambino e su quali caratteristiche peculiari una creatura del genere, di fatto, abbia.

    Il risultato di questo sforzo conoscitivo porta la dottoressa ad elaborare un metodo di insegnamento del tutto differente da qualsiasi altro in uso all'epoca. Invece dei metodi tradizionali che includevano lettura e recita a memoria, istruisce i bambini attraverso l'uso di strumenti concreti, il che dà risultati assai migliori. Viene rivoluzionato da questa straordinaria didatta il significato stesso della parola "memorizzare", parola che non vienne più legata ad un processo di assimilazione razionale e/o puramente cerebrale, ma veicolata attraverso l'empirico uso dei sensi, che comportano ovviamente il toccare e il manipolare oggetti.

    I risultati sono talmente sorprendenti che, addirittura, in una prova controllata da esperti e dalla stessa Montessori, i bambini disabili ottengono un punteggio più alto di quelli considerati normali. Ma se la stragrande maggioranza delle persone si sarebbe ritenuta soddisfatta da un tale risultato, questo non vale per Maria Montessori che viceversa ha una nuova, propulsiva idea (da cui si può ben valutare il suo eccezionale spessore umano). La domanda di partenza che si pone è: "Perchè i bambini normali non possono trarre profitto dallo stesso metodo?". Detto fatto, apre allora una "Casa dei Bambini" nelle borgate di Roma, uno dei suoi primi centri.

    Ecco cosa scrive, a proposito, un documento redatto dallo stesso Istituto Montessori: "Secondo Maria Montessori la questione dei bambini con gravi deficit si doveva risolvere con procedimenti educativi e non con trattamenti medici. Per Maria Montessori i consueti metodi pedagogici erano irrazionali perché reprimevano sostanzialmente le potenzialità del bambino invece di aiutarle e farle emergere ed in seguito sviluppare.
    Ecco quindi l'educazione dei sensi come momento preparatorio per lo sviluppo dell'intelligenza, perchè l'educazione del bambino, allo stesso modo di quella del portatore di handicap o di deficit, deve far leva sulla sensibilità in quanto la psiche dell'uno e dell'altro è tutta sensibilità.
    Il materiale Montessori educa il bambino all'autocorrezione dell'errore da parte del bambino stesso ed anche al controllo dell'errore senza che la maestra (o direttrice) debba intervenire per correggere.
    Il bambino è libero nella scelta del materiale con il quale vuole esercitarsi quindi tutto deve scaturire dall'interesse spontaneo del bambino. Ecco quindi che l'educazione diviene un processo di auto-educazione ed auto-controllo".

    Maria Montessori è stata anche scrittrice e ha esposto i suoi metodi e i suoi principi in numerosi libri. In particolare, nel 1909 pubblica "Il metodo della pedagogia scientifica" che, tradotto in numerosissime lingue, darà al metodo Montessori una risonanza mondiale.

    Visse in diverse parti d'Europa prima di far ritorno in Italia, dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale.

    Muore il 6 maggio 1952 a Noordwijk, in Olanda, vicino al Mare del Nord. La sua opera continua a vivere attraverso le centinaia di scuole istituite a suo nome nelle più disparate parti del globo.

    Durante gli anni '90 il suo volto è stato raffigurato sulle banconote italiane da Mille Lire, rimpiazzando quello di Marco Polo, e fino all'entrata in vigore della moneta unica europea.

     
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    Padre Pio da Pietrelcina

    Francesco Forgione nasce a Pietrelcina, provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entra in convento e da francescano cappuccino prende il nome di fra Pio da Pietrelcina. Diventa sacerdote sette anni dopo, il 10 agosto 1910. Nel 1916 i superiori pensano di trasferirlo a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, e qui, nel convento di S. Maria delle Grazie, ha inizio per Padre Pio una straordinaria avventura di taumaturgo e apostolo del confessionale. Il 20 settembre 1918 il cappuccino riceve le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni. Muore il 23 settembre 1968, a 81 anni. Dichiarato venerabile nel 1997 e beatificato nel 1999, è canonizzato nel 2002.

    Quando muore, il 23 settembre 1968, a 81 anni, le stimmate scompaiono dal suo corpo e, davanti alle circa centomila persone venute da ogni dove ai suoi funerali, ha inizio quel processo di santificazione che ben prima che la Chiesa lo elevasse alla gloria degli altari lo colloca nella devozione dei fedeli di tutto il mondo come uno dei santi più amati dell’ultimo secolo.
    Francesco Forgione era nato a Pietrelcina, provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. I suoi genitori, Grazio e Giuseppa, erano poveri contadini, ma assai devoti: in famiglia il rosario si pregava ogni sera in casa tutti insieme, in un clima di grande e filiale fiducia in Dio e nella Madonna. Il soprannaturale irrompe assai presto nella vita del futuro santo: fin da bambino egli riceveva visite frequenti di Gesù e Maria, vedeva demoni e angeli, ma poiché pensava che tutti avessero queste facoltà non ne faceva parola con nessuno. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entra in convento e da francescano cappuccino prende il nome di fra Pio da Pietrelcina. Diventa sacerdote sette anni dopo, il 10 agosto 1910. Vuole partire missionario per terre lontane, ma Dio ha su di lui altri disegni, specialissimi.
    I primi anni di sacerdozio sono compromessi e resi amari dalle sue pessime condizioni di salute, tanto che i superiori lo rimandano più volte a Pietrelcina, nella casa paterna, dove il clima gli è più congeniale. Padre Pio è malato assai gravemente ai polmoni. I medici gli danno poco da vivere. Come se non bastasse, alla malattia si vanno ad aggiungere le terribili vessazioni a cui il demonio lo sottopone, che non lasciano mai in pace il povero frate, torturato nel corpo e nello spirito.
    Nel 1916 i superiori pensano di trasferirlo a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, e qui, nel convento di S. Maria delle Grazie, ha inizio per Padre Pio una straordinaria avventura di taumaturgo e apostolo del confessionale. Un numero incalcolabile di uomini e donne, dal Gargano e da altre parti dell’Italia, cominciano ad accorrere al suo confessionale, dove egli trascorre anche quattordici-sedici ore al giorno, per lavare i peccati e ricondurre le anime a Dio. È il suo ministero, che attinge la propria forza dalla preghiera e dall’altare, e che Padre Pio realizza non senza grandi sofferenze fisiche e morali.
    Il 20 settembre 1918, infatti, il cappuccino riceve le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni. Padre Pio viene visitato da un gran numero di medici, subendo incomprensioni e calunnie per le quali deve sottostare a infamanti ispezioni canoniche; il frate delle stimmate si dichiara “figlio dell’obbedienza” e sopporta tutto con serafica pazienza. Infine, viene anche sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse calunniose, può essere reintegrato nel suo ministero sacerdotale.
    La sua celletta, la numero 5, portava appeso alla porta un cartello con una celebre frase di S. Bernardo: “Maria è tutta la ragione della mia speranza”. Maria è il segreto della grandezza di Padre Pio, il segreto della sua santità. A Lei, nel maggio 1956, dedica la “Casa Sollievo della Sofferenza”, una delle strutture sanitarie oggi più qualificate a livello nazionale e internazionale, con 70.000 ricoveri l’anno, attrezzature modernissime e collegamenti con i principali istituti di ricerca nel mondo.
    Negli anni ‘40, per combattere con l’arma della preghiera la tremenda realtà della seconda guerra mondiale, Padre Pio diede avvio ai Gruppi di Preghiera, una delle realtà ecclesiali più diffuse attualmente nel mondo, con oltre duecentomila devoti sparsi in tutta la terra. Con la “Casa Sollievo della Sofferenza” essi costituiscono la sua eredità spirituale, il segno di una vita tutta dedicata alla preghiera e contrassegnata da una devozione ardente alla Vergine.
    Da Lei il frate si sentiva protetto nella sua lotta quotidiana col demonio, il “cosaccio” come lo chiamava, e per ben due volte la Vergine lo guarisce miracolosamente, nel 1911 e nel 1959. In quest’ultimo caso i medici lo avevano dato proprio per spacciato quando, dopo l’arrivo della Madonna pellegrina di Fatima a San Giovanni Rotondo, il 6 agosto 1959, Padre Pio fu risanato improvvisamente, tra lo stupore e la gioia dei suoi devoti.
    “Esiste una scorciatoia per il Paradiso?”, gli fu domandato una volta. “Sì”, lui rispose, “è la Madonna”. “Essa – diceva il frate di Pietrelcina – è il mare attraverso cui si raggiungono i lidi degli splendori eterni”. Esortava sempre i suoi figli spirituali a pregare il Rosario e a imitare la Madonna nelle sue virtù quotidiane quali l’umiltà,la pazienza, il silenzio,la purezza,la carità.“Vorrei avere una voce così forte – diceva - per invitare i peccatori di tutto il mondo ad amare la Madonna”.
    Lui stesso aveva sempre la corona del rosario in mano. Lo recitava incessantemente per intero, soprattutto nelle ore notturne. “Questa preghiera – diceva Padre Pio – è la nostra fede, il sostegno della nostra speranza, l’esplosione della nostra carità”.
    Il suo testamento spirituale, alla fine della sua vita, fu: “Amate la Madonna e fatela amare. Recitate sempre il Rosario”.
    Intorno alla sua figura in questi anni si sono scritti molti fiumi di inchiostro. Un incalcolabile numero di articoli e tantissimi libri; si conta che approssimativamente sono più di 200 le biografie a lui dedicate soltanto in italiano. “Farò più rumore da morto che da vivo”, aveva pronosticato lui con la sua solita arguzia. Quella di Padre Pio è veramente una “clientela” mondiale. Perché tanta devozione per questo san Francesco del sud?
    Padre Raniero Cantalamessa lo spiega così:“Se tutto il mondo corre dietro a Padre Pio – come un giorno correva dietro a Francesco d’Assisi - è perché intuisce vagamente che non sarà la tecnica con tutte le sue risorse, né la scienza con tutte le sue promesse a salvarci, ma solo la santità. Che è poi come dire l’amore”.

     
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    Don Gnocchi



    Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, vicino Lodi, il 25 ottobre 1902. Rimasto orfano del padre all'età di cinque anni Carlo si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli Mario e Andrea. Non molto tempo dopo entrambe i fratelli moriranno di tubercolosi.
    Carlo, di salute cagionevole, trascorre sovente lunghi periodi di convalescenza a Montesiro, paesino della Brianza, presso una zia.

    Carlo Gnocchi entra in seminario alla scuola del cardinale Andrea Ferrari e nel 1925 viene ordinato sacerdote dall'Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi. Don Gnocchi celebra la sua prima messa il 6 giugno a Montesiro.

    Il primo impegno del giovane Don Carlo Gnocchi è quello di assistente d'oratorio: prima a Cernusco Sul Naviglio, vicino Milano, poi dopo solo un anno nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano. Grazie al suo operato raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado.

    Nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l'Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane. In questo periodo Don Gnocchi studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia.

    Sul finire degli anni '30 il Cardinale Schuster gli affida l'incarico dell'assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, che comprende in buona parte studenti dell'Università Cattolica oltre che molti ex allievi del Gonzaga.

    Nel 1940 l'Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte. Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione "Val Tagliamento" degli alpini: la sua destinazione è il fronte greco albanese.

    Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 Don Carlo Gnocchi riparte per il fronte. Questa volta la meta è la Russia, con gli alpini della Tridentina.
    Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Don Gnocchi, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente soccorso, raccolto da una slitta e salvato.
    È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l'idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella "Fondazione Pro Juventute".

    Ritornato in Italia nel 1943, Don Gnocchi inizia il suo pellegrinaggio attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti, per dare loro un conforto morale e materiale.
    In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime.

    A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti pensato negli anni della guerra: Don Gnocchi viene nominato direttore dell'Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como), e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati. Inizia così l'opera che porterà Don Carlo Gnocchi a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di "padre dei mutilatini".

    Le richieste di ammissione arrivano da tutta Italia e ben presto la struttura di Arosio si rivela insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti. Nel 1947 viene concessa in affitto - ad una cifra del tutto simbolica - una grande casa a Cassano Magnano, nel varesotto.

    Nel 1949 l'Opera di Don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la "Federazione Pro Infanzia Mutilata", da lui fondata l'anno precedente per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
    Nello stesso anno il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove Don Carlo Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il problema dei mutilatini di guerra.
    Da questo moment, uno dopo l'altro, vengono aperti nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950) e Pozzolatico (1951).

    Nel 1951 la "Federazione Pro Infanzia Mutilata" viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da Don Gnocchi: la "Fondazione Pro Juventute", riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l'11 febbraio 1952.

    Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura nei pressi dello stadio Meazza (San Siro) a Milano.

    Vittima di una malattia incurabile Don Gnocchi non riuscirà a vedere completata l'opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiunge prematuramente presso la Columbus, clinica di Milano dove è da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.

    I funerali, celebrati il giorno 1 marzo dall'arcivescovo Montini (poi Papa Paolo VI), furono grandiosi per partecipazione e commozione. La sensazione generale era che la scomparsa di Don Carlo Gnocchi avesse privato la comunità di un vero santo. Durante il rito venne portato al microfono un bambino. Un'ovazione seguì le parole del fanciullo: "Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo". A sorreggere la bara c'erano quattro alpini; altri portavano sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime. Tra amici, conoscenti e semplici cittadini erano in centomila a gremire il Duomo di Milano e la sua piazza. L'intera città listata a lutto.

    Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro da lui scritto con le sue ultime forze, come una sorta di testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù delle parrocchie, dell'Istituto Gonzaga, di cappellano militare, ma soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare ad ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto.

    L'ultimo gesto apostolico di Don Gnocchi è stato la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti - Silvio Colagrande e Amabile Battistello - quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi. Il doppio intervento, eseguito dal prof. Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente. La generosità di Don Carlo che ebbe anche in punto di morte e l'enorme impatto che il trapianto e i risultati dell'operazioni ebbero sull'opinione pubblica impressero un'accelerazione decisiva al dibattito. Nel giro di poche settimane venne varata una legge sul tema.

    Trent'anni dopo la mortedi Don Carlo Gnocchi il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione. La fase diocesana avviata nel 1987 si è conclusa nel 1991. Il 20 dicembre 2002 Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato venerabile. Nel 2009 il cardinale Dionigi Tettamanzi annuncia che la beatificazione avverrà il 25 ottobre dello stesso anno.

     
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    Elisabetta d'Austria:

    la principessa Sissi


    Che Sissi, imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, personaggio misterioso e affascinante, dalla complessa e poliedrica personalità, fosse moglie di Francesco Giuseppe, è cosa nota pressoché a tutti, ma il fatto che le sue origini siano strettamente bavaresi è forse ignoto ai più.



    Elisabetta Aurelia Eugenia è nata a Monaco, nel palazzo dei Duchi di Baviera sulla Ludwigstrasse, la notte di Natale del 1837 dall’arciduca Massimiliano e dalla principessa Ludovica. Il bisnonno di Sissi, il Duca Guglielmo von Birkenfeld-Gelnhausen di Renania-Palatinato, era sposato con una sorella del futuro re Massimiliano di Baviera, il quale gli conferì il titolo di Duca. Suo nipote Massimiliano (per tutti Max) sposa, nel 1825, la figlia dell’Elettore Massimiliano di Wittelsbach, Ludovica. Dal matrimonio nascono ben otto figli, la terza dei quali è proprio Elisabetta.




    Il duca Max è un personaggio allegro, spesso definito “gaio libertino”, che ama scherzare, divertirsi, girare il mondo, frequentare birrerie e caffè con amici di ogni ceto e condizione sociale, andare a caccia, cantare, frequentare pubblicamente i salotti delle sue numerose amanti e scandalizzare l’alta società di Monaco e di Vienna con i suoi comportamenti e i suoi numerosi figli illegittimi. Si intende di scienze naturali, storia e politica; pubblica numerosi articoli in cui, con umorismo, ostenta le sue idee liberali che tanto infastidiscono le corti europee.



    La duchessa Ludovica, sorella dell’arciduchessa Sofia (madre dell’imperatore Francesco Giuseppe), è invece radicalmente diversa. I biografi dell’epoca la ritraggono come perennemente insoddisfatta ed annoiata, stanca nell’aspettare il marito assente che viaggia, canta, provoca scandalo, sperpera il denaro della famiglia e la tradisce. Possessiva con i figli al punto da divenire soffocante, abile organizzatrice delle faccende di casa è lei che educa la prole e manda avanti la famiglia.



    I ragazzi vengono allevati in casa, vicini ai genitori (fatto sconvolgente per l’etichetta del tempo) e questa sarà considerata da molti la causa delle loro idee libertine e della loro stravaganza ed originalità. Tuttavia, considerata la loro doppia ascendenza Wittlesbach, il fatto di essere giudicati semplicemente “bizzarri” è ancora una salvezza. La famiglia reale di Baviera, infatti, conta così tanti elementi instabili di mente o anche solo inquieti ed inquietanti, che guardando questi bambini, non si può non avere l’impressione di “avere evitato il peggio”.




    Sissi, come i suoi fratelli, trascorre spensierata la sua infanzia e la sua giovinezza prevalentemente nella residenza estiva della famiglia ducale: il castello di Possenhofen (affettuosamente chiamato “Possi”), sul lago di Starnberg. Qui si vive come in una fiaba: in mezzo ai boschi dove spesso si va a caccia, a fare merenda o anche semplicemente a giocare. A Sissi piace tanto cavalcare quanto trascorrere del tempo nel bosco ad ascoltare gli uccelli cantare e spiare gli animali, i cervi e gli scoiattoli in particolare. E’ qui a Possenhofen che il cuore di Elisabetta viene spezzato per la prima volta: lo scudiero di casa, il conte Riccardo, giovane e carino, fa perdere la testa alla tredicenne Sissi, la quale, rapita da questo amore infantile, si chiude per giorni interi in camera sua a scrivere poesie d’amore. Purtroppo, però, il giovane conte deve presto partire per terre lontane e ritornerà a “Possi” solo dopo quattro mesi, gravemente ammalato. Morirà pochi giorni dopo e Sissi resterà sconvolta e incontra la morte per la prima volta, forse ancora troppo giovane…



    Ma la svolta decisiva nella vita di Sissi arriva nell’agosto del 1853, quando la madre Ludovica e la zia Sofia (madre dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe) si accordano per far sposare il giovane Francesco Giuseppe con la secondogenita di Ludovica e Max: Elena (da tutti chiamata Nenè). E così, il 15 agosto 1853, da Possenhofen parte una carrozza, all’interno della quale siedono le donne della famiglia di Sissi: la mamma, Nenè, Elisabetta e una cameriera. Tuttavia, nonostante la volontà di ferro di entrambe le sorelle, gli occhi del giovane imperatore, allora ventiduenne, non cadono affatto su Nenè, bensì su Sissi. Solo quattro giorni dopo il primo incontro, il 19 agosto 1853, viene ufficialmente annunciato a Bad Ischl (dove si trovava in vacanza la famiglia imperiale asburgica) il fidanzamento e la data delle nozze è fissata per l’aprile dell’anno successivo. La notizia fa scalpore, soprattutto perché nessuno a Vienna conosce la futura sposa né tantomeno si aspetta un così rapido fidanzamento. Tuttavia, già fin da giovane, Francesco Giuseppe (amabilmente chiamato Franz) dimostra fermezza e volontà, che nemmeno la madre riesce a piegare.



    Dopo il ballo del 17 agosto 1853, in cui Francesco Giuseppe trascorre la prima serata di gala con la sua futura sposa, iniziano ferventi i preparativi e le formalità per il fidanzamento e per il matrimonio. La domenica successiva (Sissi amerà ripetere di “essere una figlia della domenica”) l’arciduchessa Sofia chiede formalmente la mano di Sissi a Ludovica, la quale con gioia accetta esclamando successivamente, con non poca ambiguità, che “non si può mica dire di no ad un imperatore d’Austria…”. Dopo pochi giorni, compiute le formalità previste dal cerimoniale, la futura imperatrice e la sua famiglia tornano in Baviera e subito iniziano i preparativi: l’arciduchessa Sofia è stata molto chiara in proposito: Sissi deve imparare altre tre lingue, studiare la storia e la geografia, perfezionarsi nel ballo e migliorare la postura, nonché curare maggiormente il suo personale, soprattutto i denti. Si sa che i problemi ai denti erano ereditari nella famiglia Wittelsbach, ma a Vienna sono stati irremovibili: non si può tollerare una imperatrice che, per quanto bella, non possa mai sorridere perché ha i denti gialli!



    Tutti questi precettori che si alternano in continuazione a Possenhofen fanno girare la testa alla piccola Elisabetta che sempre di più avverte il peso della posizione che sta per assumere. Alla domanda di una dama di compagnia riguardo all’imperatore, Sissi risponde: “Certo che lo amo molto, ma se solo non fosse imperatore…!”



    Francesco Giuseppe si reca frequentemente a Possenhofen, dove la coppia trascorre piacevoli giornate sul lago di Starnberg, lontani da folle e curiosi, da cerimoniali ed etichette che, anche il giovane imperatore, educato rigidamente come un soldato, a stento sopporta.



    Intanto Sissi diviene rapidamente straordinariamente popolare in tutta l’Austria e tutta la Germania: la sua è considerata una storia incredibile, quasi una favola, e da qui molti idealizzeranno questo matrimonio e lo descriveranno molto più roseo e felice di quanto in realtà non lo sia stato.



    Il 20 aprile 1854 Elisabetta lascia definitivamente Monaco per intraprendere un lungo viaggio lungo il Danubio che la porta ad entrare solennemente in Vienna il 23 aprile, accolta dalla famiglia imperiale e da tutta la nobiltà austro-bavarese.



    Numerose sono le raffigurazioni di questo “viaggio” e altrettante sono quelle dell’ingresso di Sissi a Vienna, nonché immagini della coppia di fidanzati a passeggio per i giardini viennesi; ma straordinariamente scarse, parziali ed imprecise sono quelle del matrimonio. Non esistono immagini attendibili che raffigurino la coppia nel giorno del loro matrimonio, celebrato solennemente nella Augustinerkirche dal principe arcivescovo di Vienna, cardinale Rauscher, il 24 aprile 1854. Per esempio, non si sa pressoché nulla sull’abito della sposa (di cui oggi è rimasto soltanto lo strascico), se non che ci sono volute ben tre ore per indossarlo e per sistemare sul capo di Sissi il diadema imperiale, offerto dall’arciduchessa.




    Durante la cerimonia il cardinale Rauscher, confessore di Sofia, esprime dure parole, sicuramente inopportune, nei confronti di Elisabetta, forse suggeritegli dalla stessa Arciduchessa: “Quando la donna ama lo sposo solo perché è ricco e potente, essa non è pura, perché, anziché amare l’uomo, essa ama solo il suo denaro. Una donna deve amare uno sposo anche se questi è povero e privo di ogni titolo e di ogni altra cosa.”. Sissi è molto risentita da queste parole, forse più nei confronti della suocera che del cardinale stesso. Al momento del “si”, la voce di Francesco Giuseppe risuona sicura e decisa nella monumentale chiesa degli Agostiniani, mentre la voce di Sissi appare debole e spaventata, quasi consapevole delle difficoltà che stavano appena per iniziare.



    La vita di Elisabetta cambia radicalmente da questo giorno in poi: dalla città di Monaco, piccola ma al massimo dello splendore e dell’importanza culturale sotto re Ludwig, si trova proiettata nella solenne e antica Vienna, costretta a vivere nella Hofburg, enorme e splendida, ma poco moderna e sicuramente ancor meno confortevole. Per Sissi la vita a palazzo è molto dura, anche aggravata dalla personalità invadente di Sofia e dalla scarsissima privacy che, ad un personaggio pubblico come lei, è riservata. Ogni suo movimento ed ogni sua azione sono strettamente controllati e non può battere ciglio senza che la suocera ne venga informata e che i commenti risuonino per tutto il palazzo. E’ proprio a causa di questa vita “pubblica” a corte e dei ruoli di rappresentanza, mal sopportati dalla giovane imperatrice, che Elisabetta inizia a soffrire di quelle che oggi sono comuni malattie nervose: insonnia, depressione, attacchi di ansia e, sicuramente, anoressia.



    Cresciuta, infatti, in un ambiente dove l’ideale di bellezza femminile è rappresentato da corpi sicuramente non minuti o esili, ma al contrario da dame dalle curve morbide, ulteriormente enfatizzate dai vestiti larghi e gonfiati, Elisabetta elabora tuttavia una sua propria concezione di bellezza che, esasperata e portata all’eccesso dal crescente esaurimento nervoso, viene a coincidere con l’anoressia. Oltre a ciò, anche il destino, con Elisabetta, non è certo stato tenero: la prima figlia, Sofia, nasce nel 1855 (Sissi ha solamente 18 anni), ma muore appena due anni dopo. Nel 1856 nasce la secondogenita Gisella e nel 1858 è la volta del tanto sospirato erede maschio: Rodolfo.

    Elisabetta in questo anno raggiunge lo stremo delle forze, sia fisiche che psichiche: non sopporta più nessuno, considera il marito troppo assente, non appare più in pubblico, è terrorizzata dalle folle e dalla vita di corte. Così non può più andare avanti: decide allora di partire, di lasciare Vienna, la famiglia, la corte e inizia a viaggiare, per più di due anni, alla ricerca di qualcosa che non troverà mai, di una felicità e di una stabilità interiore che lei, l’imperatrice d’Austria, è destinata a non possedere.



    E’ sicuramente triste dover sfatare un mito come quello di Sissi, che troppo spesso ci è stata presentata come la Cenerentola dell’Ottocento, che sposa il suo principe azzurro, bello e potente, e visse felice e contenta nel suo nido d’amore.



    Dagli studi storici più recenti, tuttavia, appare un ritratto ben diverso dell’imperatrice: sposa ad un uomo che nemmeno conosceva, troppo giovane per sapere cosa significasse veramente l’amore, caduta presto nella depressione e nell’anoressia, diviene una donna isterica cui la vita non risparmia nulla, ossessionata dalla paura di invecchiare e di perdere la sua freschezza e la sua bellezza, chiusa in se stessa e profondamente instabile.

    Le disgrazie infatti non tardano ad arrivare e a sconvolgere profondamente la vita di Sissi. Prima la morte dell'amato cugino Ludwig nel 1886 ma il culmine, tuttavia, si raggiunge sicuramente con il suicidio dell’erede al trono ed unico figlio maschio di Elisabetta e Francesco Giuseppe, Rodolfo, il 30 gennaio 1889 nel castello di Mayerling. Questo grave episodio, ancora oggi avvolto nel mistero, ha turbato sia la madre che l’austero padre, lasciandoli profondamente scossi. E’ in occasione di questo incidente che la coppia imperiale, che ormai conduceva vite separate, si riavvicina, seppur per breve tempo. Francesco Giuseppe ed Elisabetta ormai non si vedono quasi più e quasi nemmeno più si scrivono. Sissi trascorre molto tempo in Ungheria (di cui è diventata regina), ama viaggiare e girare l’Europa, ma spesso in incognito, per evitare scorte, parate, cerimonie e ricevimenti che lei tanto detesta. L’imperatore a Vienna si sente molto solo e desidererebbe più di ogni altra cosa avere accanto a sé la “sua” amata Sissi, ma ad Elisabetta ormai poco importa più sia del marito che della corte viennese…



    Anche i ritratti degli ultimi anni di Elisabetta la ritraggono perennemente seria e cupa, mai con un sorriso, ma con una perenne angoscia negli occhi. In quegli occhi v’è chi ci legge la disperazione per la perdita della sua bellezza e per la sua salute precaria, ma c’è anche chi vi scorge la continua ricerca di una soddisfazione e di una pace mai trovati, nemmeno quando, nell’ultimo anno della sua vita, trascorre tanto tempo nella sua terra natìa: la Germania e sul lago di Starnberg in particolare.



    Il 10 settembre 1898 Elisabetta è a Ginevra, in gran segreto, accompagnata solamente dalla sua dama di compagnia, la contessa Sztàray. Nel pomeriggio, mentre passeggia sulle rive del lago, un corvo si avvicina e con un colpo di ali sfiora l’acconciatura di Sissi, che, spaventata e incupitasi, mormora: “Un corvo così vicino… è sicuramente un segno per me… e non è un buon augurio, indica sempre una sventura per la nostra Casa…”. Poi rientra in albergo, riposa un’ora ed esce nuovamente per passeggiare. La mattina seguente alle undici in punto l’imperatrice e la sua dama lasciano l’albergo, felici per intraprendere una gita in battello sul lago. E’ una splendida giornata, Sissi si sente straordinariamente riposata, nonostante l’insonnia ed inoltre è uno dei pochi giorni in cui non avverte particolari dolori. Dopo un giro per la città, alle tredici e trenta, mancano pochi minuti alla partenza del battello. Sissi imbocca il vialetto che conduce al molo.




    Luigi Lucheni, un venticinquenne anarchico italiano, accecato dall’odio verso il potere (“Non importa che forma di potere” commenterà in seguito “Avrei preferito un capo di Stato, ma l’Imperatrice d’Austria, in mancanza di meglio, è andata bene lo stesso”), è nascosto dietro un ippocastano. Ha con sé una lima sottile e affilatissima; dovrà essere rapidissimo e preciso, come una freccia; se per disgrazia, l’imperatrice si scostasse troppo, lui correrebbe il rischio di mancare il cuore. Appena le due dame si avvicinano Lucheni si precipita in avanti. Con la mano destra sollevata balza contro l’imperatrice colpendola all’altezza del petto.



    Sissi cade all’indietro, la contessa urla, Lucheni scappa. Un cocchiere le soccorre, aiuta l’imperatrice a rialzarsi, le sistema il vestito. La contessa Sztàray spiega, convinta, che l’uomo, dopo averle spinte, abbia assestato un forte pugno ad Elisabetta. “Non è accaduto nulla, sto benissimo… forse quell’uomo voleva rubarmi l’orologio!” Elisabetta rassicura in francese e tedesco tutti coloro che sono accorsi per aiutarla.



    Lucheni intanto corre lontano e, voltatosi, vede colei che dovrebbe essere morta rialzarsi ed imbarcarsi. Rallenta allora la sua folle corsa, convinto di avere fallito il suo colpo e di avere perso l’occasione migliore della sua vita. Intanto il vaporetto con Elisabetta a bordo salpa. Le guance di Sissi si fanno improvvisamente pallide “Datemi il vostro braccio…” mormora alla contessa, poi scivola a terra e perde i sensi. Tutti pensano che sia svenuta per lo spavento. Poi le slacciano l’abito nero per farle dei movimenti respiratori ed allora, sulla camicia lilla, si scopre una macchia color marrone: da un minuscolo foro, lasciato dal punteruolo di Lucheni è uscita una sola fatale goccia di sangue.



    A Schönbrunn Francesco Giuseppe riceve la notizia solo alla sera e, devastato dal dolore, mormora: “Nulla mi è risparmiato in questa vita”.



    La vita della bella principessa si chiude dunque così, in un attimo, quasi in sordina, lontano da corte e da occhi indiscreti, ma anche lontano da coloro che amavano la “Sissi di Possenhofen” e “l’imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria”.



    Sicuramente da morta Sissi non può più sottrarsi al cerimoniale, alle parate e ai cortei: il suo funerale, sabato 17 settembre, è imponente, vi partecipano i sovrani di tutto il mondo, l’impero è in lutto, l’Ungheria pare spegnersi per un giorno intero.



    Rileggendo la vita di questa donna e guardando le foto della partecipazione commossa di una folla incredibile, a molti è venuto spontaneo un paragone, forse un po’ azzardato, ma che può far sorridere: quante cose hanno in comune Elisabetta e Lady Diana? A pensarci bene ne vengono in mente troppe, a partire dalle lontane parentele, senza parlare del matrimonio, dapprima fiabesco, poi tormentato e deludente, l’ansia, la popolarità, l’insofferenza per i cerimoniali, per le folle, le malattie nervose ed anche la morte, improvvisa e prematura, ma che ha destato tanto sentimento nel popolo da far meritare pienamente ad entrambe queste donne il titolo di "regine di cuori”.



     
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    MARIE CURIE



    Da Varsavia, dov'era nata nel 1867, Marie Sklodowska si era trasferita a Parigi per frequentare la facoltà di scienze. Qui conobbe Pierre Curie, scienziato già noto ed insegnante alla Sorbona e lo sposò nel 1895. Preparando la tesi di laurea, coadiuvata dal marito, approfondì lo studio dei minerali radioattivi.

    I coniugi Curie scoprirono che un minerale, la pechblenda, emanava radiazioni, e ne attribuirono la causa alla presenza di un elemento ancora sconosciuto contenuto nello stesso minerale. Come separarlo? Dopo quattro anni di lavoro, trattando una tonnellata di minerale, riuscirono a furia di trattamenti chimici a isolare il nuovo elemento che chiamarono radio, per le radiazioni che emetteva. Era la scoperta più sensazionale del nuovo secolo.


    Non brevettarono il metodo di estrazione: volevano che tutti potessero produrre liberamente il radio per il bene dell'umanità. Infatti si era scoperto che il nuovo elemento combatteva efficacemente il più terribile nemico dell'uomo: il cancro. Per queste importantissime ricerche, nel 1903 ai coniugi Curie e al Becquerel venne assegnato il premio Nobel per la fisica. Tre anni dopo Pierre Curie moriva travolto da un carro. Marie resse al dolore per amore delle sue bambine, Irene ed Eva.

    Infatti, sostituì il marito nell'insegnamento, continuando le sue ricerche. Al tempo stesso, curava l'educazione delle figlie ed ebbe la soddisfazione di riscontrare in Irene la sua stessa passione per la fisica. Anche le nuove ricerche proseguite da sola, dopo la morte del marito, vennero coronate dal successo e nel 1910 riuscì ad isolare " il radio metallico". Per questi nuovi meriti, l'anno dopo, le venne conferito il secondo Premio Nobel, questa volta per la chimica. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, sospese l'insegnamento e le ricerche di laboratorio, per organizzare il servizio radiologico per l'esercito. Marie allestì delle vetture dotate di apparecchi a raggi x e, spesso le scortò personalmente al fronte, accompagnata dalla figlia Irene.

    Madre e figlia si prodigarono per lenire le sofferenze prodotte dalla guerra. Finito il conflitto, all'Istituto del Radio di Parigi, affluirono scienziati da tutto il mondo, per dedicarsi alle ricerche, sotto la guida di Madame Curie. La coraggiosa scienziata restò sempre una donna semplice, modestissima, aliena dagli onori. Rifiutò infatti per due volte la Legion d'onore, accettando soltanto di far parte della Commissione Internazionale della Società delle Nazioni, di cui fu eletta vice presidente. Ma il suo posto era al laboratorio. Una sera di primavera del 1935, uscì dal laboratorio, raccomandando al giardiniere di aver cura dei rosai. E non vi fece più ritorno. Si spense il 4 luglio : la sua morte nel sanatorio di Sancellemoz fu dovuta alle conseguenze del lungo ed intenso assorbimento di radiazioni di corpi radioattivi. Irene e suo marito continuarono le ricerche nel medesimo campo. Elena, loro figlia, si occupa oggi di fisica, come la celebre nonna.
     
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    Elvis Presley

    Elvis Presley (Tupelo, 8 gennaio 1935 – Memphis, 16 agosto 1977) è stato un cantante, chitarrista e attore statunitense. È stato uno dei più celebri cantanti di tutti i tempi, fonte di ispirazione per musicisti e cantanti di rock'n'roll e rockabilly
    tanto da meritarsi il soprannome de Il Re del Rock and Roll o semplicemente The King.
    La sua presenza scenica ha avuto un impatto senza precedenti sulla cultura americana e mondiale e i suoi caratteristici movimenti di bacino gli guadagnarono l'altro importante soprannome: "The Pelvis". Stimato da fans, critici e da molte altre personalità dello star system del suo tempo - da Marilyn Monroe ai Beatles - ha saputo andare oltre l'arte musicale finendo per diventare una vera e propria icona della cultura pop del XX secolo.
    Nel corso della sua carriera Elvis Presley ha visto le sue canzoni approdare più volte ai vertici della Top Chart della rivista Billboard, punto di riferimento per le vendite nel mercato discografico statunitense.
    Sul mercato britannico, il cantante di Tupelo piazzò ventuno singoli in vetta alle classifiche di vendita, con ottanta settimane di permanenza al primo posto. I suoi dischi a 45 giri rimasero in classifica 1.277 settimane, mentre i long playing con le sue canzoni stazionarono nella Top 10 dal novembre 1958 al luglio del 1964.

    primi dischi che Elvis fece per la Sun entrarono nella storia del rock: That's All Right (Mama), Blue Moon Of Kentucky, Good Rockin' Tonight, Baby Let's Play House, titoli che catapultarono il giovane Elvis tra le stelle della musica del sud degli Stati Uniti.

    La musica proposta da Elvis era così nuova che gli ascoltatori telefonavano ai DJ delle radio per chiedere chi fosse quel nero che cantava canzoni country, oppure chi fosse quel bianco che cantava pezzi blues. Inoltre Elvis era l'unico artista che appariva sia nelle classifiche di vendita di rhythm and blues, che in quelle di country.

    Nel 1955 il contratto di Elvis venne venduto da Sam Phillips, che con la sua piccola etichetta non poteva far fronte all'incredibile ascesa della sua giovane scoperta, alla RCA per l'allora cifra record di 35.000 dollari. Il manager di Elvis era il colonnello Tom Parker e lo sarebbe rimasto fino alla morte del cantante.

    Parker, intuite le potenzialità del suo assistito, fece esibire Elvis alla televisione nazionale, facendolo entrare in tutte le case d'America. L'opinione pubblica si scandalizzò sia della musica che delle movenze selvagge che Presley portò in TV, ma le canzoni Heartbreak Hotel, Jailhouse Rock (che come singolo per ora ha venduto più di 9 milioni di copie), Hound Dog (13 milioni di copie), Love Me Tender (5 milioni di copie), All Shook up (7 milioni di copie) divennero successi discografici che valsero l'appellativo "Re del Rock and Roll". Inoltre tutti questi singoli risultano tra i più venduti nella storia della musica.

    Il famoso produttore Hal Wallis firmò con il colonnello Parker un contratto in esclusiva per avere Elvis nei suoi film e, negli anni tra il 1956 e il 1958, Presley interpretò 4 pellicole diretto da registi del calibro di Robert Wise e Michael Curtiz.

    Nel 1958 Elvis fu chiamato per il servizio militare e dovette partire alla volta della Germania e rimase lontano dalle scene per ben due anni.
    Il colonnello seppe però mantenere vivo l'interesse del pubblico e la popolarità di Elvis rimase intatta.
    Durante la sua permanenza in Germania, conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie: Priscilla Beaulieu, la figlia di un colonnello americano anche lui di stanza in territorio tedesco, ma gli inizi del nuovo decennio furono piuttosto duri. La madre Gladys morì il 14 agosto 1958 all'età di 46 anni e la cosa ebbe su Elvis effetti devastanti e dai quali, forse, non si è più ripreso.

    Le nuove rock band avevano ormai invaso il mercato dei primi anni sessanta, e i ragazzi avevano nuovi idoli musicali come i Beatles, i Beach Boys o i Rolling Stones.

    Nonostante Presley continuasse a incidere dischi interessanti, non vendeva più come un tempo e il colonnello decise di sfruttare il remunerativo filone cinematografico. In otto anni Elvis interpretò ben ventinove film, dei quali solo tre o quattro erano artisticamente validi. Gli altri erano tutti film B-movie, girati, a volte, in due settimane con trame leggere, ma incassavano bene. Elvis aveva una certa propensione alla recitazione anche se gli furono sempre affidati ruoli poco favorevoli a mostrare le sue doti.[senza fonte] Fu scelto da Barbra Streisand per recitare nel film È nata una stella ma le richieste esose del col. Parker lo impedirono, come accadde anche per le sue candidature ad altri due film di notevole spessore: La gatta sul tetto che scotta, nel ruolo che fu di Paul Newman e Un uomo da marciapiede, nel ruolo che fu di Jon Voight.

    Nel 1960 fu ospite nello show televisivo di Frank Sinatra, che gli volle dare la possibilità di riacquistare la visibilità di un paio di anni prima. Elvis andò allo show pochi giorni dopo essere rientrato dal servizio militare.

    Nel 1968 Elvis, a trentatré anni, sposato e padre di una bambina, Lisa Marie Presley, stanco di fare film di poco conto, volle ritornare nel mondo della musica.

    Il colonnello organizzò uno special televisivo natalizio per la NBC, la regia venne affidata al giovane Steve Binder, che aveva già diretto un paio di documentari sul mondo del Rock & Roll e che aveva intenzione di fare uno special su quello che, secondo lui, era il solo Re del Rock'n' Roll. Quello che fu poi chiamato "68 Comeback Special" non prese però le sembianze di una celebrazione del Natale, ma bensì la celebrazione del ritorno di Elvis Presley.

    Elvis si presentò nella migliore forma di sempre, vestito di pelle nera e dando sfogo alla grinta che aveva dovuto reprimere negli anni dei film, regalando al pubblico americano uno spettacolo entrato nella storia della televisione.

    L'incredibile successo dello show rinnovò in Elvis il desiderio di fare musica di qualità. Decise così di ritornare a Memphis e di chiudersi in studio per una session di registrazione. Il frutto di questo lavoro furono due album acclamatissimi da critica e pubblico, Back In Memphis e From Elvis In Memphis, con canzoni In The Ghetto e Suspicious Minds.

    Tornò anche la voglia di esibirsi dal vivo e, mentre Elvis sceglieva personalmente i membri di quella che sarebbe diventata la TCB Band, che lo avrebbe accompagnato in tour, e che annoverava tra le sue fila il chitarrista James Burton, il bassista Jerry Scheff e il batterista Ronnie Tutt, il colonnello firmava un contratto di esclusiva con l'International Hotel di Las Vegas per una serie di concerti che avrebbero avuto un grandissimo successo di pubblico e critica.
    I lunghi periodi di lontananza e i difficili rapporti con la Memphis Mafia spinsero poi la moglie Priscilla a dividersi da lui, nel febbraio del 1972. Il 9 ottobre del 1973 venne sancito il divorzio a Santa Monica, e, sebbene l'amicizia tra Elvis Presley e la ex moglie Priscilla sia durata per tutta la vita del cantante, ciò gli provocò un lungo periodo di acuta depressione.


    La casa di Presley a Graceland
    La tomba di Presley a GracelandIl suo fisico ben presto iniziò a non rispondere adeguatamente alle sollecitazioni e, conseguentemente, Presley dovette aumentare il consumo di medicinali. Barbiturici, tranquillanti e anfetamine diventarono suoi compagni di tutte le ore del giorno e della notte. La cosa non fu senza conseguenze, e frequenti furono i ricoveri in ospedale.

    A quella che sembrava la crescita di uno stato ipocondriaco, si aggiungevano i risultati di una alimentazione disordinata, che portarono Presley a ingrassare vistosamente e a sottoporsi a diete dimagranti a base di medicinali.

    L'ultima esibizione di Presley fu a Indianapolis al "Market Square Arena" il 26 giugno 1977.

    Un'altra era prevista per il 17 agosto ma il giorno prima, il 16 agosto del 1977 Elvis fu trovato morto nella stanza da bagno della compagna Ginger Alden nella sua dimora a Graceland, a Memphis. Trasportato al Baptist Memorial Hospital, ne fu dichiarata la morte alle 15:30 per un attacco cardiaco.
    Meno di un'ora dopo l'annuncio della morte di Elvis, un migliaio di persone si erano riunite davanti al cancello di Graceland. Un'ora più tardi erano 3 mila. Nel pomeriggio diventarono 20 mila. In tarda serata erano 80 mila. Da tutto il mondo piovvero ordini ai fioristi di Memphis perché confezionassero dei cuscinetti floreali a forma di chitarre, cani, orsacchiotti, cuori spezzati e corone. Furono organizzati due voli speciali che trasportarono 5 tonnellate di fiori dalla California e dal Colorado.

    Graceland, la maestosa tenuta di Elvis Presley, è oggi un museo. Aperta al pubblico nel 1982, essa è divenuta una sorta di santuario del rock, meta del pellegrinaggio continuo dei suoi fan.
    Immediatamente dopo la scomparsa del cantante si diffusero voci sul genere della leggenda metropolitana che sostenevano, e sostengono tuttora, che egli fosse in realtà vivo, e che la sua morte fosse stata una messa in scena, elencando possibili avvistamenti di Elvis.

    Tra le ipotesi più gettonate, spiccano la possibile origine aliena del cantante, il suo inserimento in un programma dell'Fbi per la protezione dei testimoni, e il volontario esilio del cantante stanco della vita condotta fino ad allora.
     
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    GIOVANNA D’ARCO



    Giovanna d'Arco, la figlia più piccola di una famiglia di contadini del villaggio di Domrémy, in Francia, nacque nel 1412, in un periodo in cui la nazione era sotto la dominazione inglese a seguito della sanguinosa Guerra dei Cent'anni. Inoltre, la regione era stravolta da una guerra civile che vedeva gli Armagnacchi, partigiani del re, schierati con gli inglesi contro i Borgognoni. Uno dei fattori decisivi di questo conflitto interno era rappresentato dal controllo della città di Orléans, situata in posizione strategica sulla riva della Loira. Una sola cosa avrebbe potuto salvare la Francia e farle superare il suo periodo più oscuro... un miracolo.

    Alla morte dei re Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, avvenute entrambe nel 1422, gli inglesi proclamarono Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. L'erede legittimo al trono francese, Carlo VII, si rifiutò di abdicare ribadendo i suoi diritti di successione al trono, ma non potè far celebrare la sua incoronazione secondo il rito ufficiale che avrebbe dovuto tenersi nella città di Reims, allora sotto il dominio inglese.

    Nel frattempo, nel villaggio di Domrémy, la tredicenne Giovanna d'Arco trascorreva la sua adolescenza in preghiera. La giovinetta non solo era solita confessarsi più volte al giorno, ma spesso udiva "voci" celesti e aveva strane e sorprendenti visioni.

    Ella stessa racconta:

    La voce mi disse che dovevo lasciare il mio paese per recarmi in Francia. E aggiunse che avrei posto in assedio la città di Orléans. Mi ordinò di recarmi a Vaucouleurs, da Robert de Baudricourt, capitano della città, che avrebbe affidato alcuni uomini al mio comando. Risposi di essere una semplice ragazza che non sapeva andare a cavallo e ignorava come si conduce una guerra.

    Sin dall'inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Delfino Carlo VII, erede legittimo al trono. Per portare a compimento quanto le era stato comandato avrebbe dovuto indossare abiti maschili, brandire le armi e condurre un esercito.

    Un giorno, al suo ritorno dai giochi nei campi, Giovanna scopre che gli inglesi hanno invaso il suo villaggio. Nascosta in una credenza, assiste alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati inglesi. In seguito a questo tragico evento, Giovanna viene mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino. Può sembrare alquanto improbabile che questa giovane ragazza innocente, che non era mai andata a scuola e non sapeva né leggere né scrivere, avrebbe un giorno condotto l'esercito francese alla vittoria sulla grande potenza inglese. Eppure nel maggio del 1428, Giovanna, eliminato ogni dubbio sulla sua chiamata divina in aiuto del re, scende in campo.

    Dopo aver lasciato per sempre l'unica casa che avesse mai conosciuto, Giovanna si reca a Chinon per incontrare il Delfino. In un primo momento, il re e i suoi sudditi non sanno cosa pensare delle parole di Giovanna. Informato sulle presunte "visioni" della ragazza, ma nutrendo al tempo stesso dei sospetti sulle sue intenzioni, Carlo incarica il suo migliore arciere, Jean D'Aulon, di prendere il suo posto. Arrivata al castello, Giovanna si accorge dello scambio e lo rivela apertamente, suscitando lo stupore del re che le concede un colloquio privato.

    Queste le sue parole a Carlo:

    Vi porto notizie dal nostro Dio. Il Signore vi renderà il vostro regno, voi sarete incoronato a Reims e scaccerete i nostri nemici. In questo sono la messaggera di Dio: concedetemi la possibilità e io organizzerò l'assedio della città di Orléans.

    Persuaso a credere alle parole di Giovanna, Carlo la mette a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l'incoronazione. Nonostante siano molti a ritenere che la ragazza sia, nella migliore delle ipotesi, un'isterica innocua e, nella peggiore, una vera e propria minaccia non solo al trono, ma alla stessa vita del re, tutti percepiscono in lei un'aurea magica e un'irresistibile capacità di persuasione.

    Giovanna si presenta sul campo di battaglia con indosso un'armatura bianca e con un proprio vessillo. L'apparizione impressiona profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. Schierata nelle trincee al fianco dei suoi uomini, la Pulzella d'Orléans conduce alla vittoria i francesi, rinvigoriti e ispirati dal loro nuovo comandante. Ma la battaglia non è ancora finita: Giovanna, determinata a sferrare un altro attacco, raduna nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il valore con cui viene condotto l'attacco, gli uomini del suo esercito, già esausti, perdono ogni speranza quando la ragazza viene colpita in pieno petto da una freccia. 1 francesi si ritirano e si prendono cura della giovane donna ferita.

    Gli eserciti di Francia continuano a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma, ben presto, alla vista della carneficina causata dai numerosi scontri, Giovanna inizia a provare un profondo rimorso. Sopraffatta dall'entità del massacro, la Pulzella contatta gli inglesi proponendo loro di ritirarsi. Un estratto della lettera inviata da Giovanna al re d'Inghilterra nel 1429 ce la mostra come una paladina della fede:

    Sovrano d'Inghilterra, rendete conto delle vostre azioni al Re dei Cieli che vi ha conferito il vostro sangue reale. Restituite le chiavi di tutte quelle care città che avete strappato alla Pulzella. Ella è stata inviata dal Signore per reclamare il sangue reale ed è pronta alla pace se le darete soddisfazione rendendo giustizia e restituendo quanto avete preso.

    Sovrano d'Inghilterra, se non agirete in siffatta maniera, io mi porrò a capo dell'esercito e, ovunque sul territorio di Francia trovi i vostri uomini, li costringerò a lasciare il paese, anche contro la loro stessa volontà. Se non dovessero obbedire a questo ordine, allora la Pulzella comanderà che vengano uccisi. Ella è inviata dal Signore dei Cieli per scacciarvi dalla Francia e promette solennemente che se non lascerete la Francia, ella, al comando delle truppe, solleverà un clamore quale non si è mai udito in questo paese da mille e mille anni. E confidate che il Re dei Cieli le ha conferito un potere tale da rendervi incapaci di nuocere a lei o al suo coraggioso esercito.

    Come per miracolo l'esercito inglese si ritira. Si tratta di una vittoria sorprendente che consente l'incoronazione di Carlo a Reims.

    Una volta incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto Giovanna, che decide di continuare a combattere. Le sue truppe, ridottesi ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, sono stanche e affamate. Aulon la informa che non soltanto Carlo ha abbandonato l'intenzione di fare una guerra, ma sta ordendo dei piani per tradirla. Rinnovando la sua fede in Dio, la giovane si sente obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le "voci" non le ordinino altrimenti.

    Contro ogni parere, la Pulzella fa volta verso Compiègne dove ha luogo una battaglia durante la quale viene fatta prigioniera dai Borgognoni, un gruppo di mercenari che sostengono gli inglesi. Venduta al suo nemico, Giovanna si risveglia in una cella insieme alla sua Coscienza, che le appare nelle vesti di un misterioso uomo incappucciato. L'uomo incrina la volontà ferrea della giovane e le pone delle domande che la spingono a mettere in dubbio la veridicità delle sue visioni.

    Abbandonata da tutti, Giovanna viene accusata di eresia e di stregoneria. Ha quindi inizio il processo per dimostrare che è una strega. Più e più volte le vengono poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica. Fra una seduta e l'altra, la giovane conferisce con la Coscienza, che critica la sua fiducia in lui e la sua ingenuità.

    Giovanna ne è devastata e comincia a perdere le speranze.



    Poco prima che il processo si concluda, viene chiesto alla Pulzella di rinunciare ai suoi intenti passati e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna acconsente e viene condannata alla prigione a vita. All'ultimo momento, però, la giovane donna si rifiuta di sottomettersi al giudizio di una corte inglese. La sua decisione fa di lei un'eretica impenitente e la destina a morte certa.

    Nel maggio del 1431, Giovanna d'Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.
     
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  13. la sirenetta
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    Giuseppe Moscati

    Giuseppe Moscati (Benevento, 25 luglio 1880 – Napoli, 12 aprile 1927) è stato un medico italiano. È stato canonizzato da papa Giovanni Paolo II nel 1987 ed è tra i santi più popolari del XX secolo

    Nacque a Benevento il 25 luglio 1880 da un magistrato, Francesco, e da una nobildonna, Rosa De Luca dei Marchesi di Roseto, settimo di nove figli.

    Nel 1884 si trasferì con la famiglia a Napoli dove il padre era Consigliere della Corte d'Appello e dove il piccolo Giuseppe ricevette la Prima Comunione, quattro anni più tardi, nella chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore. In questa chiesa i Moscati incontravano sovente il Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Accanto alla chiesa viveva Caterina Volpicelli, poi Santa, alla quale la famiglia era spiritualmente legata.

    Nel 1892 iniziò ad assistere il fratello Alberto infortunatosi seriamente per una caduta da cavallo durante il servizio militare: da questo episodio cominciò a maturare la sua passione per la medicina.

    Dopo gli studi liceali, si iscrisse, nel 1897 alla Facoltà di Medicina; nello stesso anno morì il padre, colpito da emorragia cerebrale.

    Il 4 agosto 1903 si laureò a pieni voti con una tesi sull'urogenesi epatica, lavoro che gli valse anche il diritto di stampa. Dopo pochi mesi si presentò ai concorsi per assistente ordinario e per coadiutore straordinario agli Ospedali Riuniti degli Incurabili, superando entrambe le prove. Si impiegò all'ospedale degli Incurabili dove rimase per 5 anni.

    La sua giornata fu sempre molto intensa: si alzava presto al mattino per recarsi a visitare gratuitamente gli indigenti dei quartieri spagnoli prima di prendere servizio in ospedale per il lavoro quotidiano, e di visitare al pomeriggio i malati nel suo studio privato. La dedizione per gli ammalati non sottrasse mai il tempo allo studio e la ricerca medica che perseguì attuando un equilibrio fra scienza e fede.

    La sua partecipazione umana ai problemi dei pazienti, unita alle competenze mediche, si espresse con un atteggiamento riassunto in queste parole: «Esercitiamoci quotidianamente nella carità. Dio è carità. Chi sta nella carità sta in Dio e Dio sta in lui. Non dimentichiamoci di fare ogni giorno, anzi in ogni momento, offerta delle nostre azioni a Dio compiendo tutto per amore».

    Moscati, alla madre che, conoscendone la sensibilità, era preoccupata che la sua scelta di iscriversi a medicina l'avrebbe messo a dura prova nel contatto continuo con il dolore, rispose che: "era disposto anche a coricarsi nel letto dell'ammalato". Questo suo impegno fu confermato in seguito dalla assoluta dedizione con cui egli assistette i suoi pazienti, dei quali curò sempre non solo i bisogni del corpo ma anche quelli dell'anima, testimoniando il suo profondo convincimento di fede che la stessa malattia possa essere lenita dal conforto spirituale e religioso.


    Giuseppe Moscati, terzo da sinistra seduto, giovane docente tra i suoi primi studentiCon lui si manifestò appieno quella umanizzazione della medicina che, proprio negli anni in cui egli si trovò a operare, sembrava risentire invece di un'eccessiva scientificità, che comportava un certo distacco della figura del medico dal paziente, quasi come se, per affermare le proprie competenze professionali, basate sulla razionalità e sullo zelo scientifico delle nuove acquisizioni in campo medico, fosse più importante "risolvere la malattia" piuttosto che occuparsi del malato in sé. Moscati, invece, anticipò con il suo comportamento quello che è oggi considerata nell'esercizio della medicina la condizione necessaria ed essenziale per occuparsi del malato, inteso non più come mero portatore di una malattia da guarire, ma come persona che soffre e a cui bisogna perciò riconoscere pari dignità nella sua sfera fisica e in quella emotiva spirituale, con una presa in carico totale dei suoi bisogni.

    Nell'aprile del 1906, mentre il Vesuvio iniziò ad eruttare ceneri e lapilli su Torre del Greco, mettendo in pericolo un piccolo ospedaletto, succursale degli Incurabili, si recò prontamente sul posto, contribuendo a mettere in salvo gli ammalati, poco prima del crollo della struttura.

    Nel 1908, dopo aver superato il concorso di assistente ordinario per la Cattedra di Chimica Fisiologica, iniziò a svolgere attività di laboratorio e di ricerca scientifica nell'Istituto di Fisiologia.

    Nel 1911 un'epidemia di colera funestò Napoli ed egli fu chiamato a svolgere la sua opera di ricerca dall'Ispettorato della Sanità Pubblica, presso la quale presentò una relazione sulle opere necessarie per il risanamento della città, in parte condotte a compimento.

    Nello stesso anno, gli fu conferita la libera docenza in Chimica Fisiologica, su proposta del professor Antonio Cardarelli, da sempre ammirato per la preparazione del giovane medico. Fu anche socio della Reale Accademia Medico-chirurgica e direttore dell'Istituto di Anatomia Patologica. Era stimato dai giovani medici in tirocinio che lo seguivano durante le visite ai pazienti.

    Dopo la morte della madre per diabete, avvenuta nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale presentò domanda di arruolamento volontario, ma la domanda venne respinta in quanto la sua opera fu giudicata necessaria in corsia, agli Incurabili, per prestare soccorso e conforto spirituale ai soldati feriti di ritorno dal fronte.

    Nel 1917 rinunziò alla cattedra universitaria e all'insegnamento, per continuare il lavoro in ospedale e restare accanto agli infermi ai quali era molto legato.

    Il Consiglio d'Amministrazione dell'Ospedale Incurabili lo nominò primario nel 1919, mentre è del 1922 il conseguimento della Libera Docenza in Clinica Medica generale, con dispensa dalla lezione o dalla prova pratica ad unanimità di voti della commissione.

    Numerose sue ricerche furono pubblicate su riviste italiane ed internazionali, tra le quali le ricerche pionieristiche sulle reazioni chimiche del glicogeno.
    Ebbe importanti successi come medico e ricercatore, dedicò la sua attività ed in generale la sua vita alla carità, all'assistenza dei sofferenti, anche nei quartieri più poveri ed abbandonati della città, curandoli gratuitamente ed anche aiutandoli economicamente.

    La sua concezione del rapporto tra fede e scienza ben si riassume in un suo pensiero: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene.»
    Il 12 aprile 1927, dopo aver preso parte alla Messa, come ogni giorno, ed aver atteso ai suoi compiti in Ospedale e nel suo studio privato, si sentì male, e spirò sulla sua poltrona. Aveva solo 47 anni.

    La notizia della sua morte si diffuse rapidamente, riassunta nelle parole "è morto il medico santo". Alle esequie vi fu una notevole partecipazione popolare.

    Il 16 novembre 1930 il suo corpo fu traslato dal Cimitero di Poggioreale alla Chiesa del Gesù Nuovo, dov'è tutt'ora.

    Il pontefice Paolo VI lo proclamatò Beato il 16 novembre 1975.

    Fu proclamato santo il 25 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II. La sua festa liturgica si celebra il 16 novembre
     
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    Madre Teresa di Calcutta

    Gonxha (Agnese) Bojaxhiu, la futura Madre Teresa, è nata il 26 agosto 1910 a Skopje (ex Jugoslavia).
    Fin da piccola riceve un'educazione fortemente cattolica dato che la sua famiglia, di cittadinanza albanese, era profondamente legata alla religione cristiana.
    Già verso il 1928, Gonxha sente di essere attratta verso la vita religiosa, cosa che in seguito attribuirà ad una "grazia" fattale dalla Madonna. Presa dunque la fatidica decisione, è accolta a Dublino dalle Suore di Nostra Signora di Loreto, la cui Regola si ispira al tipo di spiritualità indicato negli "Esercizi spirituali" di Sant'Ignazio di Loyola. Ed è proprio grazie alle meditazioni sviluppate sulle pagine del santo spagnolo che Madre Teresa matura il sentimento di voler «aiutare tutti gli uomini».

    Gonxha è attirata dunque irresistibilmente dalle missioni. La Superiora la manda quindi in India, a Darjeeling, città situata ai piedi dell'Himalaia, dove, il 24 maggio 1929, ha inizio il suo noviziato. Dato che l'insegnamento è la vocazione principale delle Suore di Loreto, lei stessa intraprende questa attività, in particolare seguendo le bambine povere del posto. Parallelamente porta avanti i suoi studi personali per poter ottenere il diploma di professoressa.

    Il 25 maggio 1931, pronuncia i voti religiosi e assume da quel momento il nome di Suor Teresa, in onore di Santa Teresa di Lisieux. Per terminare gli studi, viene mandata, nel 1935, presso l'Istituto di Calcutta, capitale sovrappopolata ed insalubre del Bengala. Ivi, essa si trova confrontata di colpo con la realtà della miseria più nera, ad un livello tale che la lascia sconvolta. Di fatto tutta una popolazione nasce, vive e muore sui marciapiedi; il loro tetto, se va bene, è costituito dal sedile di una panchina, dall'angolo di un portone, da un carretto abbandonato. Altri invece hanno solo alcuni giornali o cartoni... La media dei bambini muore appena nata, i loro cadaveri gettati in una pattumiera o in un canale di scolo.
    Madre Teresa rimane inorridita quando scopre che ogni mattina, i resti di quelle creature vengono raccolte insieme con i mucchi di spazzatura...

    Stando alle cronache, il 10 settembre 1946, mentre sta pregando, Suor Teresa percepisce distintamente un invito di Dio a lasciare il convento di Loreto per consacrarsi al servizio dei poveri, a condividere le loro sofferenze vivendo in mezzo a loro. Si confida con la Superiora, che la fa aspettare, per mettere alla prova la sua ubbidienza. In capo ad un anno, la Santa Sede la autorizza a vivere fuori della clausura. Il 16 agosto 1947, a trentasette anni, Suor Teresa indossa per la prima volta un "sari" (veste tradizionale delle donne indiane) bianco di un cotonato grezzo, ornato con un bordino azzurro, i colori della Vergine Maria. Sulla spalla, un piccolo crocifisso nero. Quando va e viene, porta con sé una valigetta contenente le sue cose personali indispensabili, ma non denaro. Madre Teresa non ha mai chiesto denaro né ne ha mai avuto. Eppure le sue opere e fondazioni hanno richiesto spese notevolissime! Lei attribuiva questo "miracolo" all'opera della Provvidenza...

    A decorrere dal 1949, sempre più numerose sono le giovani che vanno a condividere la vita di Madre Teresa. Quest'ultima, però, le mette a lungo alla prova, prima di riceverle. Nell'autunno del 1950, Papa Pio XII autorizza ufficialmente la nuova istituzione, denominata "Congregazione delle Missionarie della Carità".

    Durante l'inverno del 1952, un giorno in cui va cercando poveri, trova una donna che agonizza per la strada, troppo debole per lottare contro i topi che le rodono le dita dei piedi. La porta all'ospedale più vicino, dove, dopo molte difficoltà, la moribonda viene accettata. A Suor Teresa viene allora l'idea di chiedere all'amministrazione comunale l'attribuzione di un locale per accogliervi gli agonizzanti abbandonati. Una casa che serviva un tempo da asilo ai pellegrini del tempio indù di "Kalì la nera", ed ora utilizzata da vagabondi e trafficanti di ogni sorta, è messa a sua disposizione. Suor Teresa la accetta. Molti anni più tardi, dirà, a proposito delle migliaia di moribondi che sono passati da quella Casa: "Muoiono tanto mirabilmente con Dio! Non abbiamo incontrato, finora, nessuno che rifiutasse di chiedere "perdono a Dio", che rifiutasse di dire: "Dio mio, ti amo".

    Due anni dopo, Madre Teresa crea il "Centro di speranza e di vita" per accogliervi i bambini abbandonati. In realtà, quelli che vengono portati lì, avvolti in stracci o addirittura in pezzi di carta, non hanno che poca speranza di vivere. Ricevono allora semplicemente il battesimo per poter essere accolti, secondo la dottrina cattolica, fra le anime del Paradiso. Molti di quelli che riescono a riaversi, saranno adottati da famiglie di tutti i paesi. "Un bambino abbandonato che avevamo raccolto, fu affidato ad una famiglia molto ricca - racconta Madre Teresa - una famiglia dell'alta società, che voleva adottare un ragazzino. Qualche mese dopo, sento dire che quel bambino è stato molto malato e che rimarrà paralizzato. Vado a trovare la famiglia e propongo: "Ridatemi il bambino: lo sostituirò con un altro in buona salute. ? Preferirei che mi ammazzassero, piuttosto che esser separato da questo bambino!" risponde il padre guardandomi, con il volto tutto triste". Madre Teresa nota: "Quel che manca di più ai poveri, è il fatto di sentirsi utili, di sentirsi amati. È l'esser messi da parte che impone loro la povertà, che li ferisce. Per tutte le specie di malattie, vi sono medicine, cure, ma quando si è indesiderabili, se non vi sono mani pietose e cuori amorosi, allora non c'è speranza di vera guarigione".

    Madre Teresa è animata, in tutte le sue azioni, dall'amore di Cristo, dalla volontà di «fare qualcosa di bello per Dio», al servizio della Chiesa. "Essere cattolica ha per me un'importanza totale, assoluta, dice. Siamo a completa disposizione della Chiesa. Professiamo un grande amore, profondo e personale, per il Santo Padre... Dobbiamo attestare la verità del Vangelo, proclamando la parola di Dio senza timore, apertamente, chiaramente, secondo quanto insegna la Chiesa".

    "Il lavoro che realizziamo è, per noi, soltanto un mezzo per concretizzare il nostro amore di Cristo... Siamo dedite al servizio dei più poveri dei poveri, vale a dire di Cristo, di cui i poveri sono l'immagine dolorosa... Gesù nell'eucaristia e Gesù nei poveri, sotto le specie del pane e sotto le specie del povero, ecco quel che fa di noi delle Contemplative nel cuore del mondo".

    Nel corso degli anni 60, l'opera di Madre Teresa si estende a quasi tutte le diocesi dell'India. Nel 1965, delle Religiose se ne vanno nel Venezuela. Nel marzo del 1968, Paolo VI chiede a Madre Teresa di aprire una casa a Roma. Dopo aver visitato i sobborghi della città ed aver constatato che la miseria materiale e morale esiste anche nei paesi "sviluppati", essa accetta. Nello stesso tempo, le Suore operano nel Bangladesh, paese devastato da un'orribile guerra civile. Numerose donne sono state stuprate da soldati: si consiglia a quelle che sono incinte, di abortire. Madre Teresa dichiara allora al governo che lei e le sue Suore adotteranno i bambini, ma che non bisogna, a nessun costo, "che a quelle donne, che avevano soltanto subito la violenza, si facesse poi commettere una trasgressione che sarebbe rimasta impressa in esse per tutta la vita". Madre Teresa ha infatti sempre lottato con una grande energia contro qualsiasi forma di aborto.

    Negli anni 80, l'Ordine fonda, in media, quindici nuove case all'anno. A partire dal 1986, si insedia nei paesi comunisti, fino allora vietati ai missionari: l'Etiopia, lo Yemen Meridionale, l'URSS, l'Albania, la Cina.
    Nel marzo del 1967, l'opera di Madre Teresa si è arricchita di un ramo maschile: la "Congregazione dei Frati Missionari". E, nel 1969, è nata la Fraternità dei collaboratori laici delle Missionarie della Carità.

    Chiestole da più parti di dove le venisse la sua straordinaria forza morale, Madre Teresa ha spiegato: "Il mio segreto è infinitamente semplice. Prego. Attraverso la preghiera, divento una cosa sola nell'amore con Cristo. PregarLo, è amarLo". Inoltre, Madre Tersa ha anche spiegato come l'amore sia indissolubilmente unito alla gioia: "La gioia è preghiera, perché loda Dio: l'uomo è creato per lodare. La gioia è la speranza di una felicità eterna. La gioia è una rete d'amore per catturare le anime. La vera santità consiste nel fare la volontà di Dio con il sorriso".

    Tante volte Madre Teresa, rispondendo a giovani che manifestavano il desiderio di andarla ad aiutare in India, ha risposto di rimanere nel loro paese, per esercitarvi la carità nei riguardi dei "poveri" del loro ambiente abituale. Ecco alcuni suoi suggerimenti: "In Francia, come a New York e dovunque, quanti esseri hanno fame di esser amati: è una povertà terribile, questa, senza paragone con la povertà degli Africani e degli Indiani... Non è tanto quanto si dà, ma è l'amore che mettiamo nel dare che conta... Pregate perché ciò cominci nella vostra propria famiglia. I bambini non hanno spesso nessuno che li accolga, quando tornano da scuola. Quando si ritrovano con i genitori, è per sedersi davanti alla televisione, e non scambiano parola. È una povertà molto profonda... Dovete lavorare per guadagnare la vita della vostra famiglia, ma abbiate anche il coraggio di dividere con qualcuno che non ha ? forse semplicemente un sorriso, un bicchier d'acqua -, di proporgli di sedersi per parlare qualche istante; scrivete magari soltanto una lettera ad un malato degente in ospedale...".

    Dopo varie degenze in ospedale, Madre Teresa si è spenta a Calcutta, il 5 settembre 1997, suscitando commozione in tutto il mondo.

    Il 20 dicembre 2002 papa Giovanni Paolo II ha firmato un decreto che riconosce le virtù eroiche della "Santa dei Poveri", iniziando di fatto il processo di beatificazione più rapido nella storia delle "cause" dei santi.

    Nella settimana che celebrava i suoni 25 anni di pontificato, il 19 ottobre 2003, papa Giovanni Paolo II ha presieduto la beatificazione di madre Teresa davanti a un'emozionata folla di trecentomila fedeli.
     
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  15. la sirenetta
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    James Dean

    « Sogna come se tu dovessi vivere per sempre, vivi come se tu dovessi morire oggi »
    (James Dean)


    James Byron Dean (Marion, 8 febbraio 1931 – Cholame, 30 settembre 1955) è stato un attore statunitense.

    L'importanza di Dean come icona culturale si riassume perfettamente nel titolo del suo film più celebre: Gioventù Bruciata, in inglese Rebel Without a Cause, letteralmente "ribelle senza una causa", nel quale ricopre il ruolo del problematico ribelle adolescente Jim Stark. La sua estrema popolarità trova le sue radici in soli tre film: Dean morì a 24 anni e questi furono gli unici film in cui compare come protagonista.

    La sua fama ha raggiunto i paesi di tutto il mondo, preservata intatta dalla precoce morte dell'attore. Viene ricordato come un seguace della filosofia del carpe diem e spesso come la quintessenza stessa della gioventù statunitense. Sebbene sia spesso considerato un personaggio la cui fama va ben al di là delle sue qualità di attore, è inesatto dire che Dean non era un bravo interprete. È stato il primo attore ad aver ottenuto una nomination postuma al Premio Oscar, ed è tuttora l'unico, insieme a Massimo Troisi (che fu candidato all'Oscar postumo come attore e come sceneggiatore per "Il Postino") e ad Heath Ledger (Vincitore dell'oscar postumo per il suo ruolo del Joker ne Il Cavaliere Oscuro) e ad avere due nomination di questo tipo. A Dean fu conferito il Golden Globe per il miglior attore nel 1956
    Nato a Marion, nello stato dell'Indiana, nella fattoria della sua famiglia da Winton e Mildred Wilson Dean, si trasferì a Santa Monica in California, sei anni dopo che Winton ebbe lasciato la fattoria per diventare un tecnico odontoiatrico. Dean fu iscritto alla scuola pubblica Brentwood finché sua madre non morì di cancro nel 1940.

    )All'età di nove anni, Dean fu mandato da suo padre a vivere con i parenti in una fattoria vicino a Fairmount (Indiana), dove la sua educazione ricevette una impronta quacchera. Alla scuola superiore Dean si unì alla squadra di basket e partecipò ad attività collegate con il teatro. Dopo essersi diplomato nel 1949, si ritrasferì in California per vivere con suo padre e la sua matrigna.

    Si iscrisse al college di Santa Monica, si unì alla confraternita dei Sigma Nu e si specializzò per prepararsi agli studi in giurisprudenza. Si trasferì alla University of California a Los Angeles e cambiò la sua specializzazione in quella per le discipline teatrali, cosa che lo condusse a scontri con i suoi genitori che lo portarono a lasciare la casa di suo padre.

    Conosciuto come "Jimmy", Dean cominciò la sua carriera con uno spot televisivo per la Pepsi Cola seguito da una parte come rimpiazzo nel ruolo di stunt tester nel gioco televisivo "Beat the Clock". Abbandonò il college per focalizzarsi sulla sua carriera in via di sviluppo ma ebbe difficoltà nell'ottenere del lavoro a Hollywood e gli riuscì di pagare i suoi conti solo lavorando come custode in un parcheggio.

    Seguendo il consiglio di alcuni amici, Dean si trasferì a New York per fare carriera come attore di teatro, città in cui fu ammesso a studiare con Lee Strasberg nell'Actors Studio. La sua carriera decollò e Dean partecipò a numerosi episodi di programmi televisivi come Kraft Television Theater, Studio One, Lux Video Theathre, Robert Montgomery Presents, Danger e General Electric Theater nei primi anni cinquanta. Le recensioni per The Immoralist, tratto dal romanzo omonimo a contenuto omosessuale di André Gide, portarono alla sua chiamata ad Hollywood e alla notorietà cinematografica.

    Apparve in decine di ruoli non attribuitigli in film indimenticabili come Attente ai marinai ma guadagnò riconoscimento e successo nel 1955 con il suo primo ruolo da protagonista, Cal Trask in La valle dell'Eden, grazie al quale ricevette una nomination al Premio Oscar per il ruolo di miglior attore protagonista (la prima nomination postuma nella storia dell'Academy Award). Questo film mette in scena il conflitto generazionale tra un padre autoritario e un figlio imprigionato dalla sua autorità. Seguirono in rapida successione altri due ruoli da protagonista in Gioventù bruciata, film emblematico di Nicholas Ray che fece di Dean un simbolo della gioventù moderna, e Il gigante del 1955, per il quale ottenne ancora una nomination per l'Oscar.

    Dean divenne amico del multi milionario Lance Reventlow, una delle ultime persone ad avergli rivolto la parola prima dell'incontro sulla via di una corsa automobilistica a Salinas, in California. Poche ore dopo James Dean morì in un incidente stradale mentre era alla guida della sua Porsche 550 Spyder vicino a Cholame, quando una macchina (una Ford berlina) guidata da Donald Turnupseed svoltò a sinistra e gli tagliò la strada (questo accade prima dell'uscita de Il gigante). È stato una delle uniche cinque persone ad essere nominate miglior attore per il suo primo ruolo e la sola persona nominata due volte postumamente. È sepolto a Park Cemetery a Fairmount (Indiana).

    Due film del 1955, Gioventù bruciata e Il Seme della violenza (titolo originale Blackboard Jungle) sono spesso citati per aver simbolizzato la crescente ribellione degli adolescenti nel dopoguerra degli anni cinquanta assieme alla sua partecipazione al Rock and Roll come fenomeno culturale. Molti giovani e più tardi intere generazioni si modellarono sul personaggio di James Dean. Il suo bell'aspetto, la carriera molto breve ed il suo stile di vita, la pubblicità che fu fatta sulla sua morte violenta all'età di ventiquattro anni, trasformarono Dean in una figura di culto e in una icona pop di fascino apparentemente senza tempo.
     
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