Antiche civiltà,popoli leggendari.... abitanti di continenti lontani. Viaggio nella storia.

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  1. la sirenetta
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    La terra nel corso dei secoli ha visto la nascita e la caduta di molte civiltà,popoli guerrieri,marinai,nomadi,conquistatori e tanti altri.
    Intorno alle varie popolazioni e ai lori insediamenti sono stati compiuti studi e ricerche ,molti quesiti li abbiamo risolti ,ma tanti restano ancora un affascinante mistero.
    Gli antichi popoli che hanno popolato la terra e da cui tutti noi discendiamo hanno contribuito a riempire pagine e pagine dei libri di Storia .Le leggende che nei secoli ci sono state tramandate raccontano anche di civiltà ''scomparse ''o persino provenienti da altri mondi.

    Ebbene ,qui ci saranno cenni storici ,tradizioni ,leggende ,notizie riguardanti i popoli di antiche civiltà,ma anche di genti che si trovano distanti da noi ,in altri continenti .

    ATLANTIDE ,IL CONTINENTE PERDUTO


    Una delle più affascinanti storie che ci vengono dal lontano passato è senza dubbio quella di Atlantide, un continente inabissato nel mare del quale non ci rimane altro che la descrizione di Platone nei suoi dialoghi Timeo e Crizia.Platone riporta una discussione avvenuta nel 421 a.C. ad Atene, cui parteciparono Socrate, Timeo, Ermocrate e Crizia:

    « Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. (...) In tempi posteriori (...), essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte (...) tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve. »
    Nel Timeo si racconta di come Solone, giunto in Egitto, fosse venuto a conoscenza da alcuni sacerdoti egizi di una antica battaglia avvenuta tra gli Atlantidei e gli antenati degli Ateniesi, che ormai vedeva vincenti i secondi. Secondo i sacerdoti, Atlantide era una monarchia assai potente, con enormi mire espansionistiche. Situata geograficamente oltre le Colonne d'Ercole, politicamente controllava l'Africa fino all'Egitto e l'Europa fino all'Italia. Proprio nel periodo della guerra con gli Ateniesi, un immenso cataclisma fece sprofondare l'isola sotto l'Oceano, distruggendo per sempre la civiltà di Atlantide.

    Nel dialogo successivo, il Crizia, Platone descrive più nel dettaglio la situazione geopolitica di Atlantide, collocando il tutto novemila anni prima.
    Secondo Platone il dio Poseidone si sarebbe innamorato di Clito, una fanciulla di Atlantide, e "recinse la collina dove ella viveva, alternando tre zone di mare e di terra in cerchi concentrici di diversa ampiezza, due erano fatti di terra e tre d'acqua ...". Al centro della città vi era il tempio di Poseidone e Clito, lungo 250 metri ed alto in proporzione, rivestito di argento al di fuori e di oricalco all'interno, con al centro una statua d'oro di Poseidone sul suo cocchio di destrieri alati, che arrivava a toccare la volta del tempio. Poseidone e Clito ebbero 10 figli, il primo dei quali, Atlante, sarebbe divenuto in seguito il governatore dell'Impero. Questa divenne una monarchia ricca e potente e l'isola fu divisa in dieci zone, ognuna governata da un figlio di Poseidone e dai relativi discendenti. Inizialmente il loro era stato un governo saggio e giusto ma la convivenza con i mortali li corruppe a tal punto che Zeus fu costretto ad intervenire, inabissando l'isola.

    Ancora oggi alcuni scienziati e archeologi stanno cercando la mitica Atlantide.


    La Storia di Atlantide

    Diamo un’occhiata ad alcuni particolari stupefacenti che Edgar Cayce fornì nella serie 364 su Atlantide.
    Secondo Cayce la massa terrestre del continente di Atlantide era enorme. Il continente si trovava “fra il Golfo del Messico da una parte e il Mediterraneo dall’altra.” In queste letture egli descrisse l’attuale Mare dei Sargassi (in mezzo all’Oceano Atlantico) come una parte importante di Atlantide e la posizione geografica dove Poseidia - “l’Eden del mondo” - e una delle cinque grandi regioni di Atlantide - sprofondò nel mare (1159-1). Il Mare dei Sargassi è ancora oggi parte dell’Oceano Atlantico Settentrionale trovandosi grosso modo fra le isole dei Caraibi e le Azzorre, a 900 miglia dalla costa portoghese. Esso deriva il suo nome da una specie di alghe chiamate sargassum che galleggiano pigramente su tutta la sua superficie. Dal momento dell’avvistamento di questi enormi estensioni di alghe si è sempre delimitato il perimetro di questo particolare mare. Colombo stesso ne prese nota. Credendo che la terra fosse vicina egli scandagliò il mare, solo per trovarlo senza fondo. Infatti il fondo è oltre 3 miglia più in basso sul Piano Abissale Nares. Il Mare dei Sargassi occupa quella parte dell’Atlantico fra 20 e 35 gradi nord e 30 e 70 gradi ovest (note come latitudini del cavallo). E’ in completo contrasto con l’oceano che lo circonda. Le sue correnti sono calme, nonostante siano circondate da alcune delle correnti marine più forti del mondo.
    Cayce disse che ci sono alcune “parti sporgenti” che “in un’epoca o nell’altra devono aver fatto parte di questo grande continente. Le Indie Britanniche occidentali o Bahamas, e una parte delle stesse che si possono vedere attualmente. Se si facesse un rilevamento geologico in alcune di queste, specialmente a Bimini e nella corrente del Golfo, esse potrebbero essere rilevate anche adesso.”
    Indicando però il punto in cui si possono trovare prove della cultura di Atlantide Cayce ci fece guardare delle aree dove la civiltà in migrazione si recò per fuggire alla distruzione e alla morte quando la loro patria s’inabissò. Cayce disse che da una parte “prove di questa civiltà perduta si trovano nei Pirenei e in Marocco”, e dall’altra nell’“Honduras Britannico, nello Yucatan e in America.”
    Cayce faceva riferimenti al nord America quando parlava degli irochesi reali (1219-1): “Allora l’entità fu fra il popolo, gli indiani, degli irochesi; quelli di nascita nobile, quelli che erano dei puri discendenti degli atlantidi, quelli che si attenevano alle influenze ritualistiche della natura stessa.” Gli irochesi originali erano costituiti dalle tribù dei Mohawk, Oneida, Onondaga, Cayuga e Seneca. Questi popoli furono una delle democrazie partecipative viventi più vecchie del mondo. Il governo era davvero basato sul consenso dei governati. L’11 giugno 1776, mentre la questione dell’indipendenza coloniale veniva discussa, i capi irochesi in visita vennero formalmente invitati nella sala d’incontro del Congresso Continentale. Sia Ben Franklin sia Thomas Jefferson adottarono parti della costituzione irochese per sviluppare la costituzione degli USA.
    E’ interessante notare che gli irochesi erano matriarcali. Le donne avevano posizioni di potere. Esse possedevano case lunghe, controllavano la terra e sceglievano il capo. I figli appartenevano al clan della madre. Quando un uomo si sposava viveva con il clan della moglie. Questo è interessante perché Cayce disse che prima del leggendario Diluvio Universale il femminino era dominante in tutto il mondo antico. Era naturale, disse. Dopo le distruzioni in quei tempi antichi il mascolino divenne dominante. Presto questi aspetti della dualità dell’umanità (yin e yang) si congiungeranno in una esercitazione unita del potere, come dovrebbe essere.
    Un punto chiave da rilevare qui è che gli atlantidi erano di razza rossa. Cayce descrisse che in origine erano “forme di pensiero, capaci di spingersi fuori da se stesse, in modo molto simile come l’ameba farebbe ora nell’acqua di una baia stagnante. Via via che assumevano maggiore forma fisica essi diventarono più induriti o fissi, molto simili alla forma del corpo umano esistente allora, con il colore somigliante all’ambiente, molto simili a come fa l’odierno camaleonte, quindi entrarono in quella forma come i rossi o popoli o colori misti, noti più tardi come la razza rossa.”
    Secondo le letture di Cayce, il periodo glorioso per Atlantide fu dal 210 000 a.C. fino a circa il 50 722 a.C. quando avvenne la prima distruzione. Cayce disse che gli atlantidi erano in origine un “popolo pacifico” il cui sviluppo nella forma fisica e nel potere fisico cresceva rapidamente.
    Egli spiegò che era così perché “essi si riconoscevano come parte di ciò che li circondava. Perciò per quanto riguarda il rifornimento di ciò che era necessario a sostenere la vita fisica com’è nota oggi, del vestiario o delle necessità corporee, queste cose venivano fornite dagli elementi naturali.” Grazie alla loro unione con le Forze Naturali gli atlantidi rapidamente svilupparono quelle capacità che “verrebbero chiamate l’era aerea o era elettrica, e che fornirono quindi le modalità di transposizione per mezzo di quella capacità che esisteva in loro di essere trasportati nel pensiero come anche nel corpo.” Essi potevano viaggiare con la mente nonché col corpo. Sorprendentemente questo non avveniva solo nei regni terrestri! Cayce disse che erano in grado “di trasportarsi fisicamente da una parte dell’universo all’altra”!
    Oltre alla capacità degli atlantidi di “spostarsi”, Cayce parlò anche del cristallo di Atlantide, la loro famosa fonte di potere. Per la verità le letture di Cayce non sono chiare su questo punto come potremmo sperare, soprattutto perché poche persone hanno fatto domande sul tema. Ciò che si può dedurre dalle sue letture è che forse c’erano vari cristalli e pietre simili a cristalli e che venivano usati in vari modi durante la storia di Atlantide. Dapprima egli indicò che in origine ci fu un cristallo che era sintonizzato con le forze cosmiche, datrici di vita, dell’universo. Questa sintonizzazione fu usata per aiutarli a rigenerare i loro corpi fisici per la longevità e a connettere le loro menti al cosmo e alle Forze Creatrici. Inoltre una delle letture di Cayce (440-3) indica che gli atlantidi avevano “un insieme di cristalli” che incanalava i raggi provenienti dalla lontana stella Arcturus, dotandoli della “trasmissione di energia eteronica” per ottenere un “forte riscaldamento”.
    Infine c’era la pietra Tuaoi. Nella lettura 2072-10 Cayce affermò che questa pietra era in origine “il mezzo e fonte o modo attraverso cui i poteri esistenti si concentravano per rendere noti ai figli degli uomini e ai figli di Dio, le forze o poteri che li guidavano.”
    Più tardi essa venne usata per “guidare le varie forme di transizione o viaggio attraverso quei periodi di attività degli atlantidi. Fu in quei periodi che venivano guidati aerei o mezzi di trasporto; anche se questi viaggiavano in quei tempi allo stesso modo nell’aria o sull’acqua o sotto l’acqua . Ma la forza con cui venivano guidati si trovava nella centrale energetica principale, o pietra Tuaoi, che era il raggio su cui agiva.” Durante questa era d’oro i Figli di Dio (maschi e femmine), identificati da Cayce anche come Figli della Legge dell’Uno, vivevano e lavoravano in armonia con le forze della Natura e con le Forze Cosmiche.
    Intorno al 106 000 a.C. venne creato un nuovo corpo fisico che avrebbe aiutato le nostre anime ad incarnarsi meglio in questo mondo difficile. In realtà si trattava di due corpi, uno maschile e uno femminile. Cayce lo chiamò il “corpo della terza razza originale”. Le leggende dei Maya lo chiamavano il corpo “Labirinto Blu”, facendo notare che era perfetto sotto ogni punto di vista.
    In quel momento della storia di Atlantide Cayce raccontò come le anime che conosciamo come Gesù e Maria arrivarono ad Atlantide come Amilius e Lilith. Essi vennero per aiutare le anime a cavarsela meglio con le sfide e le necessità durante le incarnazioni in questa dimensione. Inizialmente Amilius e Lilith erano uniti in un’unica superanima (il Logos o Cristo - Cayce disse che “non ci fu mai un periodo in cui non ci fu un Cristo”). Ma Amilius e Lilith si resero conto come la dualità di questa dimensione separava gli aspetti gemelli dell’anima nelle sue parti yin e yang. Cayce disse che ci vollero 78 anni per dividere del tutto Amilius e Lilith in corpi specifici per gli aspetti maschili e femminili di un’unica anima. Dopo questo compimento si divise anche la maggior parte delle altre anime. Il risultato fu maggiore amicizia in questo mondo di separazione e dualità.
    La storia parallela nella Bibbia è quella in cui Dio si rese conto che Adamo era solo in questo nuovo mondo, e fra tutte le creature di questo mondo non si riuscì a trovare un compagno adatto a lui. Per cambiare questa situazione Dio fece scendere un sonno profondo su Adamo ed estrasse da lui il suo lato femminile, separandolo dal lato maschile. Ora essi poterono essere amici e compagni uno per l’altra.
    Secondo Cayce, Amilius continuò a creare e a migliorare le condizioni e le forme fisiche così che le anime potessero incarnarsi con una maggiore presenza della loro coscienza più elevata e usarla nella fisicità. Si costruirono dei templi per conservare e insegnare l’importanza dell’unione con il Cosmo, con le Forze Creatrici e con gli altri. Furono tempi gloriosi per Atlantide.
    Tragicamente molte anime incarnate, chiamate da Cayce i “figli di Belial”, cercarono sempre di più di seguire i propri interessi e le gratificazioni egoistici con sempre meno preoccupazione per l’integrità e la cooperazione necessarie per l’unione con la Vita e le creazioni della Vita. Decadenza morale, follia del potere, mancanza di rispetto per la Natura, ignoranza dell’unione con le Forze Cosmiche e un senso crescente di gerarchia e superiorità su altri gettarono Atlantide nello scompiglio. Per quanto i Figli della Legge dell’Uno cercassero a richiamare l’attenzione su queste cose, le influenze dei figli di Belial portarono Atlantide in un’era di attività e pensiero distruttivi. La leadership di Amilius venne sostituita con quella di Esai. Le vibrazioni in precedenza pacifiche ora attrassero grandi animali pericolosi - che entrarono sul continente per la prima volta (tigri dai denti a sciabola, mastodonti, mammut ecc.). C’era bisogno di nuove armi per proteggere la gente.
    Apparecchiature, prima pacifiche, per curare le malattie vennero trasformate in macchine per uccidere quando gli atlantidi cominciarono a cercare i propri interessi egoistici senza considerare l’effetto sull’interezza della vita. Cayce dice sulla pietra Tuaoi, più tardi chiamata pietra focaia, che “l’uomo infine la convertì in un canale per le forze distruttive”. La pietra che ringiovaniva diventò ciò che Cayce chiamò un “raggio della morte”. Dalla perdita successiva della sintonizzazione e della coscienza elevata risultò che i cristalli perdevano la loro sintonia, e le centrali di energia vennero usate per uccidere piuttosto che per ravvivare e rigenerare il corpo e la mente. I cristalli fuori sintonia causarono una disarmonia colossale con il campo di forze sulla terra ed intorno ad essa. Il potente raggio della morte non uccise solo i nemici, esso disturbò le sfere che circondavano il pianeta in tal modo che Cayce dichiarò che il pianeta si levò contro queste vibrazioni, e si verificò la prima distruzione.

    Cayce segnò il regno di Esai come un punto di svolta nella storia di Atlantide. “Con questo regno, con queste forze distruttive, troviamo la prima trasformazione dei fuochi degli altari in sacrifici di quelli che vennero catturati, e il sacrificio umano ebbe inizio. Con questo venne anche il primo esodo di gente prima ai Pirenei, [poi] ad Og, o quei popoli che più tardi diventarono l’inizio degli Inca, [poi] quelli degli abitanti dei tumuli [nord America].”
    Cayce spiegò che tale attività “fece nella natura e nella forma naturale la prima delle eruzioni che si svegliarono dalle profondità della lenta Terra in fase di raffreddamento, e quella parte ora vicino a ciò che si chiamerebbe il Mare dei Sargassi sprofondò per prima negli abissi.” Fatto triste, Cayce fece rilevare che la distruzione non solo tolse la vita a molte anime negative, essa portò con sé “TUTTE quelle forme di Amilius che egli raggiunse ... in quel grande sviluppo in questo posto, l’Eden del mondo.” Queste eruzioni violente spezzarono il grande continente in 5 isole. Il primo Eden, come Cayce lo chiamò, non esisteva più.
    Nonostante la reazione violenta del pianeta, i Figli di Belial continuarono a lottare e tolsero il controllo ai Figli della Legge dell’Uno. Il problema era complesso. Se questi ultimi rimanevano, essi dovevano combattere con Belial; ciò faceva venir fuori atteggiamenti e energie che essi non volevano sviluppare. Molti scelsero invece di migrare in altre terre e di continuare la loro unione con le Forze Creatrici, insegnando a chi voleva ascoltarli. Coloro che rimasero ad Atlantide, Cayce dichiarò, lottarono contro l’oscurità di Belial, Baal, Baalila e persino Belzebù! Alla fine il consiglio governativo di Atlantide si trovò sotto il totale controllo delle energie e dei desideri negativi. Per la verità le letture di Cayce descrivono come alcuni sacerdoti e sacerdotesse ben intenzionati e in grande sintonia cercarono di accogliere i figli di Belial nella convinzione che la cooperazione avrebbe potuto aiutarli a ritornare alla verità, ma essi infine si trovarono corrotti da Baal e a sprofondare in oscurità e disperazione.

    Tre sacerdoti di Atlantide, Atlan, Iltar e Hept-supht, stabilirono che l’era di Atlantide era terminata. Essi conservarono la storia di Atlantide incidendola su tavolette di pietra. Ognuno di loro prese una serie di queste documentazioni con l’intenzione di conservarle per un futuro in cui l’umanità avrebbe nuovamente cercato di conoscere la verità. Iltar salpò con 10 compagni alla volta delle coste dello Yucatan. Hept-supht salpò per l’Egitto. Atlan nascose le sue tavolette in una volta nel suo tempio a Poseidia, vicino al Bimini di oggi .

    Fra il 28 000 e il 22 000 a.C. (le letture di Cayce non sono molto chiare su questo) avvenne una seconda distruzione. Questa inondazione lasciò solo tre isole sopra la superficie dell’acqua e solo parti di esse abitabili, distruggendo il tempio di Atlan e portandolo negli abissi. Essa distrusse anche il tempio di Iltar, ma egli ricuperò le tavolette e le spostò nell’entroterra, forse dove oggi si trova Piedras Negras, nel Guatemala. Le tavolette di Hept-supht erano sull’altopiano di Giza e furono infine nascoste in una camera sotterranea sotto la zampa anteriore destra della Sfinge.

    A questo punto le migrazioni diventarono critiche. Quelli che avevano il senso della verità più grande e dello scopo per la vita cominciarono a fare piani per conservare la propria saggezza e continuare a mantenere un certo livello di luce sulla Terra salvando nello stesso tempo il proprio corpo fisico. Per i successivi dieci a ventimila anni le anime emigrarono da Atlantide e istituirono templi in terre nuove. La distruzione finale avvenne nel 10 040 a.C. quando le terre rimanenti di Atlantide sprofondarono in mare.
    Nel 1932 Cayce dichiarò che le anime di Atlantide si stavano reincarnando sulla Terra e “stanno esercitando e eserciteranno un‘influenza sugli eventi del mondo attuale.” Cayce insegnò che in una nuova era di rapido avvento tutti i poteri e le consapevolezze conosciute ad Atlantide sarebbero tornati da noi. Allora essi avevano portato alla distruzione. Come li useremo noi adesso ? Egli spiegò che riacquisteremo la nostra capacità di avere una consapevolezza cosciente della nostra unione con le forze della Natura e le Forze Cosmiche e saremo in grado di usare questa consapevolezza per prenderci cura delle nostre necessità materiali. Ma dovremo stare attenti nell’usare tale consapevolezza e potere preoccupandoci dell’effetto sull’Insieme della Vita. Atlantide e tutto ciò che aveva di buono e di cattivo stanno sorgendo di nuovo. Come ce la caveremo questa volta ?

     
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  2. la sirenetta
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    Trovati siti sommersi in Inghilterra nell'Era Glaciale

    Archeologi si sono imbattuti nella prima testimonianza sottomarina di insediamenti risalenti all'Età della Pietra in Inghilterra. Un team dell'Università di Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell'Inghilterra, dice di aver trovato manufatti di selce comprendenti strumenti e punte di frecce, al largo della costa vicino Tynemouth, durante una sessione di addestramento per prepararsi ad alcune ricerche sottomarine.
    Gli archeologi affermano che gli oggetti localizzano due siti, risalenti fino a 10.000 anni fa, che un tempo sarebbero stati sulla terraferma ma che furono gradualmente sommersi quando il livello del mare si innalzò dopo la fine dell'ultima Era Glaciale.
    La dott.sa. Penny Spikins, l'archeologa che guida il gruppo, ha comunicato che inizialmente aveva richiesto fondi per cercare questo tipo di siti in Scozia ed è rimasta meravigliata nel trovare questi oggetti giacere indisturbati sul fondo del mare, vicino ad un area così edificata.
    E' stata davvero una scoperta fenomenale perché sebbene ci fossimo preparati per ricercare questo tipo di luoghi, quando ci siamo imbattuti in questi manufatti, non avevamo ancora realmente iniziato il progetto", ha detto a Reuters.
    "Questi siti ci forniscono un'opportunità unica per iniziare a comprendere le occupazioni costiere del primo Mesolitico" ha detto Spikins.
    Secondo il team, un sito risale al Tardo Mesolitico, da 8.500 a 5.000 anni fa, mentre l'altro, trovato oltre, in mare più aperto, si pensa sia del Primo Mesolitico - cioè dagli 8.500 ai 10.000 anni fa.

     
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  3. la sirenetta
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    I Maya

    In Messico, vi sono i resti di numerose città e piramidi Maya.

    La piramide a gradini, nota come il Tempio di Cuculcàn aveva 365 gradini, quanti sono i giorni dell'anno ed era stata progettata in modo che nel giorno degli equinozi di primavera e d'autunno (e solo in quei giorni) dei raggi di luce formavano l'illusione che un serpente gigantesco ondeggiasse sulla scalinata Nord per 3 ore e 22 minuti esatti.

    Nei pressi di Cholula, invece, sorge imponente come nessun altro edificio, tlahchiualtepetl, la montagna fatta dall'uomo.

    Questa gigantesca piramide a gradini misura 500 metri per lato e 64 metri d'altezza, tre volte più grande della piramide di Cheope. Secondo le leggende dei maya, questo edificio era stato eretto da uno straniero dalla pelle chiara, molto alto, con la barba, che era venuto dal mare con alcuni compagni, in una zattera che si muoveva da sola.

    Le caratteristiche erano analoghe ai Viracocha peruviani dato che erano considerati potenti divinità, maestri delle scienze e della magia, in grado di guarire con l'imposizione delle mani e di resuscitare i morti.

    Durante la loro presenza avevano trasmesso avanzate conoscenze agli indigeni, come il calendario, la matematica, l'astronomia, l'agricoltura, ecc.

    Le capacità di calcolo dei maya erano impressionanti... secondo il calendario maya la durata dell'anno era di 365,2420 giorni, mentre il valore esatto è di 365,2422 giorni ( un errore di soli 0,0002 giorni !).

    Sapevano prevedere le eclissi e conoscevano lo zero.

    Non solo... avevano misurato perfino il periodo di rivoluzione del pianeta Venere (senza errori).

    Non è strano che con tutta quella genialità non conoscessero la ruota ?

    O che non usarono mai tutta quell'abilità matematica nemmeno per pesare un sacco di patate ?

    Così come erano venuti, gli stranieri (Cuculcan, nella lingua maya) se ne andarono via mare.

    Recentemente una piramide maya semisommersa dalla lava eruttata da un vulcano vicino è stata oggetto di indagine; si è scoperto che l'ultima eruzione di quel vulcano risale a 8500 anni fa.

    La città maya di Teotihualcàn era una riproduzione esatta del sistema solare.

    Vi era una grande piramide che rappresentava il Sole (detta appunto Piramide del Sole) e un viale dirittissimo (il Viale dei Morti) in cui vi erano alcuni contrassegni.

    Le distanze reciproche tra i contrassegni corrispondevano alle distanze dei pianeti del sistema solare.

    C'erano tutti. Da Mercurio a Plutone, compresa la fascia degli asteroidi.

    Ma Plutone non è certo visibile ad occhio nudo... occorre un telescopio.

    Avevano anche un telescopio i maya ?

    Ovviamente gli storici dicono che è semplicemente un caso e che i contrassegni sono casuali. I noltre, per finire, la piramide del Sole, aveva una particolarità. Il rapporto tra il lato di base e l'altezza era pari al numero irrazionale pi-greco proprio come per la Grande Piramide di Giza, in Egitto.

    Non conoscevano la ruota, ma conoscevano il pi-greco che serve per calcolare la circonferenza.

    Spero che nessun archeoscienziato pensi che sia un puro caso.

    Gli indizi a sostegno della tesi che tutti questi edifici siano stati costruiti dagli stessi autori, in un'epoca antichissima, intorno al 10.500 a.C. sembrano farsi sempre più numerosi.

    Decine di piramidi con le stesse analogie si trovano in Cina e le leggende sono in tutto simili.

    Il mito dell'arca di Noè, ad esempio, è presente in più di 500 leggende di popoli antichi da tutte le parti del mondo.

    Si usano nomi diversi, ma in tutti i casi, un uomo fu avvisato dalla divinità di costruire un'enorme barca per scampare un imminente diluvio e salvare il salvabile.

    Nel 10.500 a.C. un immenso diluvio ci fu veramente. Ma da dove venivano questi "stranieri" civilizzatori e come scomparirono ?


     
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  4. la sirenetta
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    MEROVINGI

    Gregorio di Tours, nel 700 d. C.,scriveva che: "emersero nell'antica tradizione nazarea per diventare i re pescatori dai lunghi capelli". Nella cronaca di Fredegario si legge che i Franchi Sicambrici invasero la Francia e che Argotta, figlia di Génobaude, sposò Pharamond, re pescatore, nipote di Boaz, discendente del figlio di Giosuè. Dalla loro unione nacque Clodion, padre di Merovee.
    La dinastia prende il nome proprio da Merovee, generale francese che combatté a fianco dell'Impero Romano contro gli Unni. Secondo una leggenda Merovee era figlio di due padri. La madre, infatti, già fecondata, sarebbe stata violentata da un mostro marino. Per tale motivo nelle vene di Merovee scorreva non solo il sangue del vero padre, ma anche quello del mostro marino. Tutto questo può solo avere un significato simbolico. I Franchi si erano uniti con una stirpe che veniva d'oltremare.

    Merovee, sembra, era dotato di poteri sovrumani. Tutti i re merovingi, iniziati a scienze occulte, praticavano arti esoteriche. Venivamo chiamati "re taumaturghi". Baigent, Leight e Lincoln scrivono:"erano re sacerdoti, incarnazione del divino, non diversamente dagli antichi faraoni egizi". Quando morivano veniva praticato sul cranio un foro, forse per consentire all'anima di fuggire per unirsi con il divino.

    Un teschio con un foro nella calotta cranica è stato rinvenuto, durante la seconda guerra mondiale, nella Chiesa di Rennes-le-Chateau.La dinastia regnò dal 451 al 751. Il regno ha conosciuto diverse divisioni (Austrasie, Neustrie, Paris, Bourgogne) ed anche delle riunificazioni. Il primo re fu Clovis I nato nel 465 e morto nel 511. Cominciò a regnare il 481, sposò Clotilde che, poi, divenne Santa Clotilde.

    In quel periodo esisteva una fede gnostica che considerava Gesù creatura umana e la Chiesa di Roma si considerò vincitrice quando Clovis I chiese di essere battezzato sotto le pressioni della moglie Clotilde. Roma aveva garantito ai Merovingi il diritto di ereditare il trono per i secoli futuri. Dopo la morte di Clovis I, il regno fu diviso in quattro parti, tra i suoi quattro figli.

     
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  5. la sirenetta
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    ESSENI


    Gli Esseni furono una setta di grande interesse, con una visione del mondo molto particolare.
    Essi espressero per la prima volta idee che sono della massima importanza per il nostro tempo. Per avere notizie su di loro bisogna risalire alla grande scoperta, fatta nel 1947, all'interno di grotte situate nei pressi di Qumran, nel Mar Morto
    nelle quali vennero ritrovati rotoli interi di documenti e numerosi frammenti degli stessi. Una parte consistente di documenti è già stata pubblicata, una parte ancora no.
    I primi scopritori si convinsero che la setta dei rotoli fosse la comunità degli Esseni. Questa comunità era già conosciuta da secoli, attraverso gli scritti degli autori antichi, tra i quali Flavio Giuseppe e Filone Alessandrino, famoso filosofo giudaico. Lo stanziamento degli Esseni è menzionato anche da Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo della nostra era, autore di un'opera di storia naturale in lingua latina.
    Nei rotoli ritrovati non compare il nome Esseni. Nelle fonti greche essi sono citati come Essaioi o Essenoi. Sul significato della parola Esseni sono state fatte numerose congetture. Secondo alcuni sembra che la forma latina potesse derivare dall'ebraico " hasidium" (pii), secondo altri il nome derivava dall'aramaico "asya" (medico).
    La questione, però, è di secondaria importanza; infatti, sebbene alcuni autori antichi abbiano citato gli Esseni, solo oggi, attraverso i loro scritti, possiamo capire chi essi siano.
    Tra i rotoli vi sono opere che sono sicuramente collegate agli scritti esseni, ma ve ne sono altre che non sono interamente di provenienza essena. Gli Esseni erano impegnati nello studio della Bibbia per ritrovare il loro ruolo nella storia del mondo; essi composero delle opere di esegesi biblica.
    Si stanziarono nella zona del Mar Morto, vicino a Ein Gedi, e qui fondarono la loro comunità e misero i rotoli nelle grotte, proprio nel luogo dove essi vennero ritrovati.

    La vita quotidiana
    Secondo Plinio gli Esseni erano una comunità che aveva abbandonato le vanità del mondo.
    Essi si erano elevati spiritualmente ed avevano conseguito una conoscenza mistica piuttosto consistente. Si erano isolati vivendo tra le palme da dattero, tenevano la proprietà in comune e non si sposavano, vivendo in uno stato di santità. Si dichiaravano pacifisti, ma si preparavano, al tempo stesso, per la guerra di distruzione totale, una rivoluzione mondiale nella quale essi sarebbero stati l'Elite di Israele. Vivevano presso le rive dei laghi e dei fiumi, lontani dai centri abitate e dalle città. Erano principalmente agricoltori e frutticoltori, vantavano una grande conoscenza del suolo e del clima, e questo permetteva loro di coltivare una notevole varietà di frutta e vegetali anche in zone relativamente desertiche.
    Gli Esseni non avevano schiavi o servi: furono il primo popolo che condannò la schiavitù sia nella teoria che nella pratica. Nella loro comunità non esistevano il ricco e il povero, perché queste condizioni erano considerate delle deviazioni dalla loro legge.
    Si dedicavano principalmente allo studio, sia della Bibbia che delle discipline come la medicina e l'astronomia. Essi furono considerati gli eredi dell'astronomia persiana e caldea e dell'arte egizia della guarigione. Erano anche esperti profeti e si preparavano alla profezia con un digiuno prolungato. Conducevano una vita semplice, alzandosi ogni mattina prima dell'alba per studiare, si bagnavano ritualmente nell'acqua fredda ed indossavano tuniche bianche.
    Dopo il lavoro quotidiano nei campi e nelle vigne consumavano il loro frugale pasto in silenzio: non mangiavano carne e non bevevano vino. La sera era l'inizio della loro giornata, e il loro Sabato, o giorno santo, cominciava il venerdì sera ed era, per loro, il primi giorno della settimana.
    Questa giornata era dedicata allo studio, alla discussione, alla musica, poiché essi suonavano diversi strumenti musicali. Dato il loro stile di vita, essi erano persone sane e robuste e raggiungevano spesso la tarda età.
    Per essere ammessi alla loro comunità bisognava sostenere un periodo di prova di un anno, quindi seguivano tre anni prima dell'iniziazione, seguiti da sette anni di tirocinio prima di essere ammessi completamente.
    Testimonianze riguardanti il loro stile di vita giungono dagli scritti dei loro contemporanei. Oltre ai già citati Plinio, Giuseppe Flavio e Filone, anche Solanius ed altri ne parlarono in vari modi, definendoli "una razza particolare, più interessante di tante altre" e venivano considerati "i più antichi iniziati che ricevono il loro insegnamento dall'Asia centrale".

    La dottrina
    Tracce del loro insegnamento sono apparse in tutte le religioni.
    I principi fondamentali erano insegnati anticamente in Persia, Egitto, India, Tibet, Palestina, Grecia e molti altri paesi.
    La parte esoterica del loro insegnamento era rappresentata dall'Albero della Vita, dalle Comunioni Essene con gli Angeli, e dalla Settupla Pace.
    L'insegnamento essoterico appare nel primo libro del Vangelo Esseno della Pace e nei Rotoli del mar Morto. La loro dottrina si ritrova nello Zend Avesta di Zarathustra, che la trasformò in uno stile di vita seguito per migliaia di anni.
    Esso contiene i concetti fondamentali del Brahmanesimo, dei Veda, e anche i sistemi dello Yoga derivano dalla stessa sorgente. Budda divulgò le stesse idee di base e il suo "sacro Albero dell'Illuminazione" è collegato all'Albero della Vita.
    In Tibet il loro insegnamento viene espresso nel Cerchio della Vita Tibetano. Esso fu parte integrante della cultura dei Fenici e della scuola alessandrina di filosofia in Egitto e contribuì a manifestazioni della cultura occidentale come la Massoneria, lo Gnosticismo, la Cabala e il Cristianesimo.
    Gli Esseni vivevano in questo mondo, ma non ne facevano realmente parte. Essi erano convinti di vivere in compagnia degli angeli, sentivano di essere la "comunità di Dio", gli eletti, e tratteggiavano una Città del Tempio spirituale secondo la loro propria concezione.
    L'idea di base che il Maestro di Giustizia trasmise al mondo fu la "dottrina della predestinazione". Il principio di base consiste nell'affermare che tutto è predestinato da Dio e che, quindi, non può essere modificato.
    Secondo le loro credenze il termine "pentimento" acquistò un significato differente tra gli Esseni rispetto agli altri Ebrei. L'eletto esseno era una persona la cui elezione era stata predestinata. Egli viveva nel mondo, ma il fatto che ne avrebbe abbandonato le vanità entrando nella comunità e accettandone le regole, questo era oggetto di predestinazione. Gli Esseni chiamavano questo cambiamento, disposto da Dio, "pentimento". Essi non avevano , però, solo un pensiero riguardante la predestinazione, il loro pensiero era anche dualista. Il dualismo tra bene e male era già apparso nella Bibbia, ma gli Esseni vi aggiunsero un altro dualismo: l'opposizione tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre.
    Secondo il loro modo di vedere, Dio aveva predisposto in anticipo la divisione di due campi rivali, in opposizione. Dalla fonte della luce provenivano tutte le generazioni dei Figli della Luce, dalla fonte delle Tenebre provenivano le generazioni dei Figli delle Tenebre. Quindi una delle componenti base della predestinazione essena era la suddivisione tra malvagi e giusti.
    Se un uomo era predestinato, fin dalla creazione, ad essere Figlio della Luce, lo diventava effettivamente; allora si univa alla comunità e Dio stesso lo avrebbe preservato dalla sofferenza e dal peccato. A questa concezione si aggiungeva la divisione tra bene e male all'interno del mondo spirituale: al di sotto di Dio c'erano due generi di uomini e due generi di esseri spirituali.
    Gli spiriti erano divisi in due tipi; gli spiriti di menzogna e gli spiriti di verità. A capo degli spiriti di menzogna si trovava Belial, cioè Satana, al di sopra degli altri l'arcangelo Michele.
    I Figli della Luce erano considerati, quindi, gli eletti della setta, mentre gli altri, Ebrei e gentili, erano i Figli delle Tenebre, condannati all'inferno. Il malvagio sarebbe stato sconfitto con la Guerra della Fine dei Giorni e il giusto sarebbe sopravvissuto.
    Nonostante la loro idea di predestinazione, gli Esseni non pensavano affatto che l'uomo dovesse rimanere inattivo; egli doveva dar prova della sua elezione attraverso la sua iniziativa, dimostrando a se stesso e agli altri di essere stato scelto a far parte degli eletti.
    Gli Esseni erano molto più rigorosi degli altri Ebrei nell'osservanza dei precetti e consideravano gli altri come seguaci di una via più facile ed agevole.
    Essi raggiunsero delle alte vette dal punto di vista spirituale e di pensiero. Sono gli Ebrei che riuscirono ad affrontare, anche se in modo irreale e piuttosto utopistico, problemi molto gravi della condizione umana che ancora oggi hanno per noi una grande importanza.

     
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  6. la sirenetta
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    Le rovine di Baalbek

    Le rovine di Baalbek, in Libano sono quanto rimane del piu' grande tempio che sia stato costruito dai Romani, eretto sopra enormi blocchi di pietra granitica, resti ciclopici di quella che viene considerata la piu' antica costruzione del mondo.

    Data la vicinanza della fertile pianura della Beqa'a, piu' facilmnte percorribile, non è pensabile che Baalbek sia sorta come via di scambio commerciale.

    'interrogazione degli oracoli, non giustifica i lunghi viaggiaffrontati dagli imperatori romani per giungere a Baalbek e costruire il piu' grande tempio dell'epoca lontano da Roma.

    Per quale recondito motivo furono spinti a venerare questo luogo e inviarvi colonne di granito rosso affrontando un tragitto di 200km da Assuan, attraverso il porto di Tripoli e Homs, girando attorno alle montagne in un cammino scomodo e tortuoso ?

    Il tempio di Giove poggia su di un piedistallo formato da pietre disposte in filari sovrapposti e ancora visibili sotto le colonne rimaste in piedi.

    E' stato costruito con accuratezza sopra un alto piedistallo che si eleva di ben 13mt. rispetto al terreno; il lato occidentale è stato eretto con lastroni squadrati di 9,5mt., alti 4mt. e spessi 3,5mt., ognuno del peso di 500 tonellate.

    Le tre pietre piu' grandi sono conosciute come "Triliton", o "la meraviglia delle tre pietre"; le loro dimensioni esagerate di 18 o 20 mt., e il loro peso di 1000 tonellate, non hanno ostacolato il loro posizionamento millimetrico.

    Sono state estratte tutte da una cava vicina, dove è possibile ancora ammirarne una, conosciuta come la "Pietra del Sud", ancora attaccata alla vena madre.

    Misura 21mt. di lunghezza, 10MT. di altezza con uno spessore di 4,5mt.; raggiunge il ragguardevole peso di 1200 tonnellate.

    Una pietra uguale a questa si troverebbe, secondo alcuni archeologi, sotto il Triliton, e sarebbe stata nascosta con alcune incisioni che la farebbero apparire come fossero piu' blocchi messi assieme.

    La pietra del sud testimonia che la costruzione fu bruscamente interrotta; in seguito a questo sorgono molti interrogativi.

    Nel muro di sud est è stata trovata una fila di nove blocchi grandi la meta' di quelli che formano il Triliton; sono tutti sullo stesso livello delle pietre su cui poggia il Triliton, prolungando cosi' la piattaforma fino al muro di sud ovest.

    Questo particolare si nota solo con una visita accurata del luogo, e certifica il fatto che il Triliton è stato eretto sopra a delle pietre ciclopiche.

    A detta degli esperti si puo' affermare che la piattaforma non fu completata e il progetto iniziale abbandonato.

    I nove blocchi non sono ben accoppiati come gli altri, il taglio non si sposa bene con i blocchi adiacenti.

    A prima vista puo' sembrare il tentativo di ricostruire, dopo un avvenimento catastrofico, la piattaforma usando altre pietre rimaste integre.

    come possono essere state mosse le pietre del Triliton, e le altre, dalla miniera, anche se la distanza era di soli 2km , resta un mistero.

    Anche se è stato stimato che 40000 uomini possono muoverle, gli ingegneri non hanno accertato, non solo in che modo siano state mosse, ma sollevate, trasportate e poste in loco con grande precisione.

    La pietra del sud equivale a be tre Boeing 747.

    Molti ingegneri si chiedono perchè sono stati usati grandi blocchi di pietra, dal momento che era piu' facile portare a termine la costruzione usando blocchi piu' piccoli, considerando anche che nelle grandi pietre vi puo' essere anche un difetto trasversale, causa di un successivo problema strutturale.

    Avevano una smisurata fiducia nel materiale usato, o disponevano di una tecnologia a noi sconosciuta che permetteva loro di attuare velocemente una costruzione senza che il numero ed il peso delle pietre rappresentasse un ostacolo?

    Si puo' ipotizzare che la piattaforma sia stata pensata per resistere alla violenza dei terremoti in una zona notoriamente interessata al fenomeno; o , forse, doveva resistere ad enormi spinte verticali, come nel caso di discesa e ascesa di veicoli volanti del tipo "razzo" .

    E' l'ipotesi del sumerologo Zecharia Sitchin.

    Le strane coincidenze rilevate da Sitchin nel triangolare le Piramidi, l'Ararat, il Monte Santa Caterina e le perfezioni geometriche, non casuali, evidenziano tali luoghi come possibili "corridoi di volo" degli Annunaki, gli esseri scesi sulla terra da Nibiru , il pianeta fantasma del sistema solare, gia' conosciuto dai Sumeri.

    In tal modo baalbek diviene il centro di uno di questi corridoi, che utilizzava come riferimento il Monte santa Caterina; situato tra l'altro sulla stessa linea dell'Ararat, il quale con il Monte Umm Shumar formava un "corridoio piu' lungo".

    A Baalbek si conservava una "pietra dello splendore", un Omphalos, la pietra conica che "sussurrava messaggi incomprensibili all'uomo", che "lanciava le parole", il dispositivo che Baal voleva installare sulla Vetta di Zafron, altro nome con il quale si indicava, appunto , baalbek.

    L'incrocio delle strade di Ishtar, il luogo da cui si poteva tenere uniti cielo e terra, uno dei luoghi "DELL'ATTERRAGGIO".

    Il punto ove nell'epopea di Gilgamesh si situa la "foresta dei cedri".

    La pietra conica ricorda il Dur.An.Di., "il legame fra cielo e terra", controllato dal dio Entil in un luogo detto ki.Ur descritto come "un'altissima colonna che si perdeva nelle nuvole" e posto su di un piazzale che non poteva essere "scosso o ribaltato", e serviva, al Dio, "per pronunziare parole rivolte verso i cieli".

    Tale descrizione lo presenta a noi come un mezzo usato per le telecomunicazioni.

    L'origine delle pietre coniche sembra si debba ricercare in Egitto, e non solo perchè "conica" era la "camera celeste" con la quale il Dio scese in terra;

    Erodoto parla di un essere immortale che gli Egizi veneravano, il cui culto risaliva ai tempi dei Fenici: "Nella Fenicia esiste un tempio grande e bello a lui dedicato. Nel tempio si trovano due colonne, una d'oro puro, l'altra di smeraldo, che di notte si illuminano di splendore".

    La pietra lucente e brillante dei Sumeri, il na.Ba.R.

    Zacharia Sitchin annota che l'oro è il migliore conduttore elettrico e lo smeraldo la pietra ottimale per gli impianti laser in grado di emettere un irreale bagliore.

    Un collegamento tra la Heliopolis egizia e quella fenicia lo si trova negli scritti dello storico Macrobio che parlano di un oggetto dedicato al soleportato dalla terra del Nilo a Baalbek; una pietra magica e sacra dalla forma conica.

    Furono i Fenici a trasmettere l'usanza oracolare in Grecia, piu' precisamente a Dodona.

    Il centro oracolare piu' celebre, Delfi, contiene un recinto, rivolto verso la valle, costruito su di una piattaforma rialzata.

    Di fatto Baalbek era considerato un importante centro religioso, anche per i Romani; luogo di una triade di Dèi, o entità considerate tali che potrebbero avere contribuito fattivamente alla sua costruzione.

    Il nome ebraico di Baalbek è "Beth-Shemesh", ovvero la "casa di Shamash", nome semitico del dio sumero Utu, capo degli astronauti, al quale si attribuisce un ruolo importante nel disegno e nella costruzione, sia dell'oracolo libanese che dell'Arca del diluvio.

     
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  7. la sirenetta
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    I Giganti

    I miti e le leggende che costellano la lunga marcia dell'umanità, dalla preistoria fino alla moderna società postindustriale, hanno spesso riguardato esseri infinitamente piccoli o invisibili (elfi, folletti, troll) oppure infinitamente grandi (Giganti, ciclopi).

    È interessante notare come tali miti, pur nella loro fantasia e a volte manifesta irrazionalità, si siano radicati nell'essere umano quali espressioni di eventi ancestrali, come se l'uomo insomma avesse cercato di rendere razionalmente comprensibili alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili.

    Oltre a rappresentare una "dimensione parallela", il mito si configura allora quale espressione di una delle qualità più eminentemente umane: la fantasia, il potere di sognare e creare, e in qualche modo sostituirsi alla Forza Creatrice in cui ogni uomo crede.

    Le forze della Terra, nell'immaginario degli antichi, assumevano volti e corpi; uno dei più usati era quello dei Giganti. Essi compaiono nei miti ora come nemici degli Dei, ora come razza che va scomparendo, ora come corpo da cui la vita stessa ha origine.

    Talvolta i viaggiatori si vantavano di averne visti, e nei loro racconti riportavano avventure incredibili. I crani degli elefanti, sbiancati dal tempo, facevano pensare a immani esseri con una sola cavità oculare... e furono i Ciclopi, compagni di Polifemo. Furono Giganti, primi figli degli Dei.

    «La figura dei Giganti è nata probabilmente da molteplici rappresentazioni originarie», presume lo scrittore e divulgatore scientifico Ernst Probst. Secondo lui la fonte è da cercarsi «nei criteri di misurazione assai diversi che esistevano allora, nel vedere in insoliti fenomeni della natura la manifestazione di creature dalla forza eccezionale (si pensava che l'avversario sconfitto avesse proporzioni sovrumane: tali concezioni avevano un loro ruolo nelle storie di draghi), forse anche nelle allucinazioni dovute al consumo di droghe». E ancora: «Quasi ogni Paese aveva un tempo il suo Gigante nazionale, che risaliva quasi sempre al ritrovamento di ossa di elefanti, la cui vera natura era sconosciuta.».

    Tra i numerosi miti, ci soffermeremo ora su quelli riguardanti i "giganti" nati in un delimitato ambito geografico, il bacino del Mediterraneo.

    Generalmente, parlando di Mediterraneo, si pensa alle sole civiltà greca e romana, con i loro vastissimi repertori mitici; la mitologia romana è però frutto della commistione tra quella greca e quella italica ed etrusca, e più a ritroso nel tempo non si esclude che uno tra i più antichi cantori del mito greco, Esiodo, nella metà del VII a.C., sia stato influenzato dalle culture micenee o persiane, per citarne solo un paio, come si vedrà in seguito a proposito di uno dei suoi testi più famosi, la Teogonia.

    Presso gli antichi popoli Italici, in epoca antecedente all'avvento di Roma, esisteva ad esempio un etimo particolare: "Volcanus, Volkanus o Vulcanus"; si ritiene che sia di origine indoeuropea, e veniva associato a una divinità messa in relazione col fuoco vulcanico, se è vero che il suo culto conservava uno dei principali centri a Pozzuoli, nei Campi Flegrei (luogo che incontreremo, e non a caso, in uno dei miti più importanti, la Titanomachia), secondo quanto ci racconta il geografo greco Strabone (64 a.C - 21 d.C.). I Romani ereditarono questo culto dagli Etruschi e finirono per identificare questa divinità con il dio greco Efesto. In particolare, a Roma assunse forte rilevanza il culto di Vulcano nel corso dell'età monarchica, tanto che Servio Tullio - uno tra gli ultimi re - era ritenuto diretto discendente di tale dio.

    A loro volta i Greci derivarono il mito di Efesto dai popoli stanziati in Asia Minore e nelle isole Cicladi, quindi da una sorgente diversa da quella italica del dio Vulcano. È risaputo, infatti, che i popoli mediorientali ebbero a che fare con le eruzioni dei vulcani delle Cicladi e dell'Anatolia.

    Il tratto dominante dell'area mediterranea, dunque, è questa sorta di sincretismo mitologico che trova ragion d'essere in una delle caratteristiche fondamentali dei popoli stanziati nella zona: la voglia sempre viva di esplorare lo sconosciuto. L'opera di Omero in tal senso ne è l'emblema.

    Il viaggio, lo spostamento, è l'attività privilegiata di questi popoli, di quello greco in particolare; viaggi principalmente a scopi commerciali, per aprire rotte più vantaggiose e sicure, e scovare mercati vergini dove poter vendere i propri prodotti: nulla di nuovo, in fondo. I viaggi marittimi avvenivano prevalentemente tra la stagione primaverile e quella estiva, e in ogni caso era raro che ci si allontanasse dalla costa; accadeva quindi che, durante la navigazione, con un occhio si sfiorasse l'immensità delle acque, ma con l'altro si rimanesse attaccati alla Madre Terra. A questo punto, bisogna considerare un fattore per così dire "geologico" dominante del bacino mediterraneo: la presenza di eventi vulcanici primari (soprattutto) e secondari. Tra il XIV e il VII secolo a.C. si ritiene che tali fenomeni dovessero presentarsi in numero ed entità maggiori rispetto ai giorni nostri.

    La combinazione di navigazione a vista e vulcani deve aver prodotto nell'immaginario dei marinai la credenza nell'esistenza di Giganti, enormi esseri viventi i cui occhi erano scambiati per quegli enormi fuochi che ardevano sulle coste. Purtroppo, a causa del sincretismo e delle stratificazioni culturali succedutesi nel corso dei secoli, non è possibile gettare uno sguardo unitario sul panorama mitologico complessivo dell'epoca: basti citare il caso della quasi sconosciuta civiltà micenea, cui subentrò quella ben più famosa dei greci. Certo è che in tutte le culture mediterranee esistono riferimenti a culti specifici correlabili a quello primordiale del fuoco sotterraneo: tra i vari esempi ci sono quello delle Vestali romane, o dell'antichissima dea Hestia nel pantheon greco, passata poi in quello romano appunto come Vesta.

    Il panorama mitologico mediterraneo è strettamente legato al tema del "fuoco", inteso come forza insopprimibile, la quale può essere creatrice o distruttrice: tra i miti più famosi si possono inserire la distruzione di Atlantide, la guerra fra i Giganti e Zeus, Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, il ciclope Polifemo ed Ulisse, la Fucina di Vulcano, fabbro di Zeus, l'Averno e la porta degli Inferi, mito vivo addirittura al tempo della Commedia dantesca!

    In area greca esiste una leggenda nella quale si vede riflesso il legame tra eventi vulcanici e Giganti: quella che narra del Gigante Talo. Di questo mostro si parla soprattutto nelle Argonautiche, poema epico redatto da Apollonio Rodio (290 - 260 ca a.C) in età ellenistica nel tentativo di rivitalizzare un genere oramai agonizzante. Ci troviamo nel corso del viaggio di ritorno degli Argonauti; Giasone ha già raggiunto il suo obiettivo, recuperare il vello d'oro, ed è riuscito a sedurre la maga Medea (la seduzione era un tema caro alla cultura ellenistica) quando, nei pressi di Creta, si erge innanzi alla sua nave (l'Argo) un immenso Gigante di bronzo, Talo appunto. La forza vitale di quest'ultimo risiede in un'unica vena che corre dalla testa alla caviglia, dove è situato una specie di tappo. Il Gigante cerca di staccare delle rocce da scagliare contro l'Argo, ma Medea riesce, con le sue arti magiche, a provocargli visioni malefiche, che gli fanno perdere l'equilibrio; nella caduta la caviglia si scalfisce, determinando la rottura della vena cosi che il sangue inizia a sgorgare a fiotti. Talo si abbatte morto sulla riva.

    Apollonio usa il mito come semplice spunto narrativo (retaggio anche questo della cultura ellenistica) ma le informazioni riguardanti Talo sono numerose, e in genere riconducibili a eventi vulcanici: il Gigante manifestava appunto tale costituzione "vulcanica" scagliando massi contro gli intrusi, bruciandoli, arroventandosi e stringendoli in un abbraccio mortale, e lui stesso aveva lava al posto del sangue.

    In mitologia esistono varie storie legate a Talo: per dovere d'informazione bisogna aggiungere che, oltre ad un Gigante di bronzo, in altre versioni si tramandava che fosse un toro fabbricato o donato a Minosse dal dio Efesto, per custodire Creta. Il mito narra che egli compiva tre volte al giorno il giro dell'isola, o che visitava tre volte l'anno i villaggi di Creta, recando tavolette di bronzo con sopra incise le leggi; è presente un legame tra Gigante e cupa oppressione, il che rafforzerebbe l'ipotesi che nell'immaginario collettivo dell'epoca Talo fosse la personificazione del vulcano di Santorini, la cui esplosione si ritiene abbia avuto conseguenze devastanti per la civiltà cretese. Un'altra versione ancora racconta che Talo, nella veste di Gigante di ferro costruito da Efesto, fu da Zeus posto a guardia di Creta quando vi lasciò la ninfa Europa.

    Rimanendo sempre nello stretto ambito ellenico, trattando di Giganti non si può tacere circa uno dei testi sul quale si fondano gran parte dei miti che li riguardano: la Teogonia. Si presenta nella forma tradizionale dell'epoca, il poema, ed è composta di 1022 esametri epici: con quest'opera Esiodo tenta di ordinare l'immensità del materiale tradizionale e popolare che circolava fin dalla notte dei tempi circa la generazione degli dèi e l'origine dell'Universo. Per dare un esempio della diversità che si poteva riscontrare nei miti, basti ricordare che per Esiodo la coppia di divinità generatrici è rappresentata da Gea e Urano - scelta obbligata per chi intendesse presentare una sistemazione razionale del materiale mitologico; quale coppia migliore di "Terra/Cielo? - mentre per Omero, (il quale, da alcuni passi dell'Iliade, pare essere a conoscenza di cose relative agli dèi che però non sembra aver avuto interesse a trattare nella sua narrazione), tale coppia è rappresentata da Oceano e Teti. Dunque, in ogni autore che si apprestava a trattare argomenti mitologici (e sicuramente ce ne saranno molti le cui opere sono perdute) si nota un'estrema libertà nello scegliere o tralasciare fatti e personaggi.

    Va presa con le pinze la definizione di Erodoto (480 - 430 a.C. ca) "pròtoi heuretaì" dedicata ad Esiodo e Omero, che tradotta suona quasi come "primi scopritori" (delle cose relative agli dei). Infatti, il progresso degli studi e le più recenti scoperte archeologiche hanno permesso di capire quale ingente quantità di materiale cosmologico vi fosse alle spalle di Esiodo, materiale risalente per lo più a civiltà anteriori e diverse da quella greca (quella del Vicino Oriente per esempio), e poi passato nella civiltà ellenica per quel fenomeno di sincretismo già accennato prima. Bisogna ricordare che lo stesso Esiodo era figlio di un colono che aveva abitato per lungo tempo a Cuma, una città affacciata sulla costa dell'Asia Minore; inoltre il poeta era originario della Beozia, regione che in tempi anteriori era stata il maggior centro di sviluppo della cultura micenea.

    È interessante osservare come, nella Teogonia, Esiodo abbia in un certo modo "classificato" i Giganti in varie stirpi, tutte discendenti dalla coppia Urano-Gea; i due procrearono dapprima i Titani: "l'Ocèano profondo, e Coio, Crio, Giapèto, Mnemòsine, Tèmide, Rea, Iperïone, Tea, l'amabile Tètide, e Febe dalla ghirlanda d'oro" e il più importante di essi, "il fortissimo Crono... di scaltro consiglio, fra tutti i figliuoli il piú tremendo; e d'ira terribile ardea contro il padre". Il motivo di tanto odio è presto detto, e ce lo narra lo stesso Esiodo: "Uràno come nascevano, tutti li nascondeva giú nei bàratri bui della Terra, non li lasciava a luce venire".

    La seconda stirpe è quella dei Ciclopi (propriamente dal greco kuklops = dall'occhio rotondo): "...(Gea) generava (i Ciclopi) dal cuore superbo, Stèrope, Bronte, ed Arge dal cuore fierissimo: il tuono diedero questi a Giove, foggiarono il folgore... solamente un occhio avevano in mezzo alla fronte ed ebbero quindi il nome di Ciclopi". In età arcaica i mitografi distinguevano a loro volta tre stirpi di Ciclopi: i figli di Gea e Urano, appartenenti alla prima generazione di giganti; i Ciclopi "costruttori", artefici di tutti quei monumenti presenti in Grecia o in Sicilia formati da blocchi di pietra così giganteschi che non erano creduti frutto di attività umana (da qui le "mura ciclopiche"); infine, i Ciclopi "siciliani", resi famosi dalla letteratura greca, quella omerica in particolare (ad esempio Polifemo). Si diceva che essi occupassero le zone più calde dell'Etna, gli antri più inaccessibili e sperduti della Sicilia e delle Eolie, e che fossero, agli ordini di Efesto, i fabbri degli dèi ai quali procuravano le armi. Relativamente al legame dei Ciclopi con il fuoco, bisogna aggiungere che nella Grecia primitiva esisteva una sorta di "corporazione" dei mastri fabbri ferrai, i quali portavano tatuati sulla fronte dei cerchi concentrici, simboli del Sole e del fuoco. Nell'immaginario collettivo, dunque, il simbolo del tatuaggio (che poi diventò l'unico occhio centrale) si legò quindi indissolubilmente al "fuoco".

    Mi sembra opportuno evidenziare due importanti conseguenze legate al mito dei Ciclopi: in primo luogo si deve rilevare ancora una volta la relazione "vulcanica", poiché essi abitavano in caverne sotterranee, dove i colpi delle loro incudini e il loro ansimare faceva brontolare appunto i vulcani della zona, mentre il fuoco della loro fucina arrossava la cima dell'Etna. Inoltre, c'è uno stretto legame tra Ciclopi e Natura che sarà avvertito in maniera particolare in età ellenistica, quando l'imponente fenomeno di inurbamento spinse autori come Teocrito (315 - 260 ca a.C.) a riscoprire i valori della natura, seppur in un'atmosfera sognante e idealizzata (insomma, ben lontana da quella delle Georgiche virgiliane). Proprio a questo autore, ad esempio, si deve un idillio incentrato sulla figura di un Ciclope, innamorato della bella Galatea, che tuttavia non riesce a conquistare pur sfoderando tutte le sue arti "seduttive"; si assiste, insomma, ad una profonda frattura, ormai consolidata, tra mondo cittadino e naturale.

    La terza stirpe di Giganti figli di Gea e Urano furono gli Ecatonchiri: "...Cotto, Gía, Briarèo, figliuoli di somma arroganza. Ad essi cento mani spuntavan dagli òmeri fuori, indomabili, immani, cinquanta crescevano teste fuor dalle spalle a ciascuno..."

    Oltre alla versione mitica, bisogna registrare anche la posizione assunta dai cosiddetti "evemeristi", seguaci cioè della teoria portata avanti dal filosofo Evemero di Messene (III a.C.): secondo questi, gli dèi altro non erano che uomini leggendari (come potevano essere, per i Romani, Muzio Scevola o la guerriera Camilla) realmente esistiti e divinizzati dalla fama popolare. Secondo tale ottica, dunque, gli Ecatonchiri erano uomini che, in un tempo lontanissimo, avevano occupato la città di Ecatonchiria e avevano porto il loro aiuto agli abitanti di Olimpia (gli olimpici) nella guerra per cacciare i Titani dalla regione. Ovviamente, non si tardò ad accusare chi appoggiava le tesi di questa vera e propria "filosofia della storia" quali propugnatori dell'ateismo.

    Lo stato di equilibrio tra queste tre stirpi venne rotto ad opera del Titano più intraprendente, Crono, alleatosi con la madre Gea (disperata per la sorte dei propri figli) contro il padre Urano. Gea gli offrì lo strumento: "generò del cinerèo ferro l'essenza, una gran falce..." ma lo spirito vendicativo e punitivo era tutto di Crono: "O madre, io ti prometto di compier l'impresa ché nulla del tristo mio padre m'importa: ché egli ai nostri danni rivolse per primo la mente". La ribellione di Crono segna l'inizio di quell'immane lotta che prende il nome di "Titanomachia", una guerra combattuta tra generazioni successive di Giganti (Urano, Crono, Zeus) per la conquista del potere sull'Universo. La detronizzazione di Urano avvenne in maniera molto cruenta: con la falce prodotta dalla madre, Crono evirò il padre, lasciando che i genitali cadessero nel mare (e da qui prende avvio il famoso mito di Venere nata dalla spuma del mare).

    Dopo aver precipitato negli Inferi i fratelli Ciclopi ed Ecatonchiri, ed essersi congiunto con la sorella Rea, Crono ottenne il pieno potere; siamo nel pieno della seconda generazione di Giganti. Ben presto, però, Crono cadde nella cattiva usanza di divorare i propri figli, indotto a ciò dalla predizione dei genitori - depositari di saggezza e conoscenza - secondo cui egli era destinato a venire a sua volta deposto da un figlio: "...aveva saputo dalla Terra, da Uràno fulgente di stelle, che era per lui destino soccombere al proprio figliuolo." In tal modo, a mano a mano che Rea generava i figli, Crono"...l'inghiottiva, come ciascuno dall'utero sacro su le ginocchia della sua madre cadesse...", e questa fine fecero Estia, Demetra, Era e Ade. In una società patriarcale, quale doveva essere quella greca dell'epoca, il timore di venire spodestati dai propri figli doveva essere molto sentito, tanto da aver prodotto una mitologia incentrata proprio su tale "pratica". In tempi più recenti il tema è stato efficacemente trattato da Goya attraverso un affresco eseguito nella fase terminale della sua carriera, nella "Quinta del Sordo": mi riferisco a "Saturno che divora uno dei suoi figli"(1821 - 1823), esposto ora al museo del Prado, a Madrid. Tale affresco è stato riconosciuto dai critici quale emblema della disperazione e della più cupa bestialità del potere che non esita a compiere l'atto più vile per un genitore pur di mantenere il predominio.

    Con la nascita di Zeus si giunse al momento della definitiva resa dei conti e allo spiegamento della terza generazione di Giganti. Rea, in procinto di mettere al mondo Zeus, l'ultimo dei suoi figli, su suggerimento dei genitori Gea e Urano fuggì a Creta, dove partorì; in seguito presentò a Crono una pietra avvolta di fasce, che egli prontamente divorò senza accorgersi dell'inganno. A tal proposito, Esiodo ci dice: "...concertarono insieme quanto era segnato dal Fato... la mandarono a Litto, fra il popolo ricco di Creta... (Rea) lo nascose in un antro inaccesso, con le sue mani, sotto santissimi anfratti terrestri... una gran pietra ravvolta di fasce, la porse all'Uranide (figlio di Urano) grande...con le sue mani quello la prese, la cacciò nel ventre, né gli passò per la mente (che) era rimasto immune dal danno l'invitto suo figlio, che con le forti sue mani doveva ben presto domarlo..."

    Ecco come ha origine la terza generazione di Giganti, quella che avrà più fama nella mitologia greca: la stirpe olimpica. Ben presto, infatti, la Titanomachia entrò nella sua fase più dura e violenta, lo scontro tra Zeus e gli alleati Ciclopi ed Ecatonchiri, liberati dalla prigione in cui li aveva gettati il fratello("del suo beneficio poi memori furono sempre") contro Crono unitosi ai fratelli Titani. Il mito racconta che Atlante e suo fratello Menezio si coalizzarono con Crono (il "tempo", ovvio nemico degli dèi immortali) ed agli altri Titani nella loro guerra contro gli dei dell'Olimpo. Da parte sua, Zeus, tramite una pozione, indusse Crono a vomitare i figli divorati in precedenza, i quali divennero i suoi alleati più forti.

    "E Giove non frenò la sua furia, ma subito il cuore a lui di negra bile fu colmo; e di tutta la forza sua fece mostra..." dice Esiodo. La lotta durò dieci anni, e vide alla fine vincere Zeus e i suoi alleati in accordo al responso di un oracolo, il quale gli aveva predetto che sarebbe riuscito vincitore se avesse liberato i fratelli di Crono - Ciclopi ed Ecatonchiri - imprigionati nel Tartaro.

    Anche in tale mito è ravvisabile un legame con eventi vulcanici, basti pensare al modo in cui combattevano Zeus e i suoi: "...ben trecento massi lanciavan dai pugni gagliardi sempre via via piú fitti, copriano i Titani con l'ombra dei colpi...", terribilmente simile ad un'esplosione vulcanica. Inoltre il mito narra che la battaglia decisiva si svolse nel cielo sovrastante la già citata area vulcanica dei Campi Flegrei. Al fatto che gli eventi naturali, che all'epoca sferzavano l'area mediterranea, col tempo non si attenuarono, è probabilmente legata l'ultima prova che gli olimpici dovettero sopportare. Il mito prosegue narrando, infatti, la nascita di 24 nuovi Giganti, figli della Terra, nei pressi di Flegra, in Tracia (zona caratterizzata non casualmente dalla presenza di vaste distese ignee) che avrebbero nuovamente dato l'assalto al cielo degli dei, per vendicarsi di Zeus. Ognuno di tali Giganti venne sconfitto e sepolto vivo sotto i massi scagliati da Zeus o da qualche altro dio olimpico. Il legame più evidente con l'attività vulcanica si nota osservando i luoghi in cui tali Giganti vennero sepolti: Tifone o Encelado nell'Etna, Tifeo a Ischia, altri sotto i Campi Flegrei.

    Dunque anche nella "Titanomachia", uno dei miti più famosi e importanti legato ai Giganti, s'intravede riflesso il legame tra leggenda e attività vulcanica, evidente nel modo di affrontare la battaglia (con il lancio di massi e tizzoni ardenti) oppure nella scelta dei luoghi chiave, devastati da cataclismi vulcanici.

    Esiste, per la precisione, anche una versione differente del mito, elaborata secondo interpretazioni orfiche, seguendo la quale si assiste ad una successiva riconciliazione tra Zeus e Crono, con quest'ultimo che assume la veste di re buono e magnanimo. In ambito latino, Crono passò come Saturno (divinità tipicamente italica, cui è legato anche un particolare metro arcaico della latinità, il saturnio appunto) con una propria importanza: era usanza, infatti, porre in Campidoglio, come buon auspicio, il trono di Saturno, creduto opera diretta di Romolo.

    Presso i Celti e nelle leggende nordiche i ritrovamenti dell'agire dei Giganti, più che ad ossa di elefanti, erano probabilmente legati all'esistenza dei dolmen, o all'attività degli elementi naturali (solo degli esseri eccezionali potevano rappresentare il lavorio delle forze che muovono la Terra).

    In Irlanda un'intera area, la Giant's Causeway, si ritiene sia stata costruita dal leggendario Gigante Finn MacCool per permettere ad un Gigante scozzese, Benandonner, di raggiungere la terra d'Irlanda e sfidarlo. Secondo altre fonti, Finn avrebbe costruito il ponte per raggiungere la donna amata attraverso il mare. Una serie di lunghe colonne di basalto s'innalza dal terreno, lungo la costa, e pare tendere verso terre lontane. La zona, creata da una catena di eruzioni vulcaniche e dall'erosione del mare in milioni di anni, è tuttora meta di turisti.

    Anche nell'Edda, saga nordica per eccellenza che fu messa per iscritto nel primo Medioevo, troviamo presenza dei Giganti. I Giganti nordici sono assimilabili per alcuni profili ai Titani delle leggende mediterranee (ad esempio anch'essi sono collegati all'elemento fuoco), per altri sono invece più simili ai Troll.

    L'inizio dei tempi è scandito dalla nascita di due esseri, uno dei quali è Ymir il Gigante. Da Ymir discende una razza di giganti, e solo in seguito la razza degli uomini. Tra uomini e Giganti, malvagi di natura, nasce una lotta vinta dai primi e dai loro Dei. Dal corpo di Ymir, Odino e i suoi fratelli creano il mondo: dalla carne la terra, dal sangue mare e fiumi, dalle ossa le montagne, dai capelli gli alberi, dal cranio la volta celeste e dal cervello le nuvole.

    Il rapporto tra uomini e Giganti è raramente pacifico; come gli antichi dèi (Zeus, Odino) così gli eroi delle leggende bretoni e scozzesi affrontano i Giganti come nemici, sconfiggendoli più spesso con l'astuzia che non con la forza. In Scozia, due Giganti del Loch Shiel vengono gabbati da un uomo: con la scusa di stabilire chi sia il più forte tra loro, vengono convinti a lanciare le rocce di un glen, un appezzamento di terreno, il più lontano possibile. Gli sciocchi finiscono poi per perdersi per sempre agli estremi del mondo, una volta giunto il momento di recuperarle, lasciando agli uomini un campo eccezionalmente privo di rocce.

    Dietro alla costruzione dei maggiori cerchi di pietre ci sono leggende di Giganti: di fronte a quei massi colossali infissi nel terreno, ci si chiedeva quali forze immani fossero state in grado di erigere tali opere. Lo stesso cerchio di Stonehenge viene chiamato "danza dei giganti".

    Anche la Bibbia parla spesso di Giganti. Nel "Deuteronomio" gli Ebrei, giunti nella Terra Promessa, trovano a Rabbath il letto di ferro di un Gigante scomparso, "era lungo nove cubiti e largo quattro...", o li incontrano: "vedemmo i giganti i figli di Anak che discendono dai giganti e ai nostri occhi noi eravamo di fronte ad essi come dei grilli - ed ai loro occhi eravamo come dei grilli". In Genesi 4,1.4: "in quel tempo sulla terra vi erano dei Giganti ed in seguito quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini ed ebbero dei figli, questi figli divennero uomini potenti e furono celebri eroi nell'antichità".

    Senz'altro il più famoso tra i Giganti biblici è Golia, e la sua vicenda diviene il simbolo della vittoria del bene sul male, dell'astuzia sulla forza violenta. Benché non altrettanto celebre, Og è un altro dei Giganti citati nella Bibbia meritevole di richiamo. Mosè lo sconfigge durante la conquista di Canaan, e secondo la mitologia ebraica esso faceva parte dei numerosi Giganti antidiluviani, l'unico a sopravvivere al diluvio perché l'acqua gli arrivava appena fino alle ginocchia.

    Un altro episodio biblico narra che nei dintorni di Ebron vivesse una stirpe di Giganti, discendenti da Anak: gli Anakiti. Tre figli di Anak (Achiman, Sesai e Talmai) gettarono nel panico gli israeliti durante il loro cammino verso la Terra Promessa. Probabilmente da questi Giganti prendono il nome quelli che nel mondo greco erano venerati come stirpe di dèi e di antichi re, gli anachi.

    In Austria e in Germania i Giganti si muovono in selve, grotte e boschi. Aimone, ad esempio, era un gigante che aveva dimora vicino alle sorgenti del Reno. Scontratosi con un suo simile di nome Tirso, che abitava la valle dell'Inn, l'aveva ucciso. La cosa non era piaciuta agli abitanti locali, tant'è che Aimone fu costretto a riparare al proprio misfatto affrontando una creatura mostruosa che funestava la zona.

    Il Bayernkonigsloch (tana dell'imperatore bavarese), una località situata nel nord del Tirolo, secondo alcune leggende locali deve il suo nome ai Giganti che avevano cura di sorvegliare «l'ingresso ai padiglioni dell'imperatore».

    Molte leggende narrano di Riibezahl, il genio del monte dei Giganti, che aiutava i viandanti ma si vendicava senza pietà di chi osava dileggiarlo.

    Nelle saghe del Reno i Giganti sono numerosissimi.

    Un Gigante di nome Tannchel avrebbe fatto saltare le rocce che facevano ristagnare le acque del Reno nella zona della Foresta Nera.

    Cronache medioevali infine raccontano che l'imperatore Massimiliano in persona abbia sconfitto l'ultimo Gigante dell'Odenwald, in un torneo svoltosi nella città di Worms, situata sulla riva occidentale del Reno. In epoca medioevale un uomo particolarmente grosso e alto non poteva che far pensare ai caratteri del mito.

    Non c'è area del mondo conosciuto in cui i Giganti non abbiano avuto un qualche ruolo. Espedienti nella crescita del personaggio, o spiegazione di fenomeni inspiegabili, queste leggende sorgono dappertutto, perfino in America Latina (alcuni studiosi parlano a riguardo di una razza vera e propria, teorizzandone l'esistenza... in qualche luogo).

    Il Gigante pare dunque rispondere ad un'esigenza umana, quella di dare alla natura un volto razionale simile a quello umano. Un archetipo quindi, un mito per spiegare quanto non è o non era possibile spiegare.




     
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  8. la sirenetta
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    I CATARI

    Nel sud della Francia, in Linguadoca, viveva un popolo la cui religione per certe specificità fu concorrenziale alla Chiesa Cattolica d'Occidente. L'eresia dei Catari o "Puri" fu l'incubo del papato agli albori del secondo millennio. La repressione della Chiesa, risoluta a diventare il primo potere del mondo occidentale, fu commisurata alla paura che i Catari potessero, con il loro credo, mettere in crisi l'intero fondamento della chiesa cristiana. La risoluzione nell'occultare il Sapere (religioso, filosofico, scientifico) portò a sterminare chiunque si opponesse al suo progetto. Non si trattava, infatti, di singoli eretici da punire, ma di un fenomeno di vasta portata, cui l'Europa dell'epoca non era abituata, e che ricordava i grandi movimenti religiosi scismatici che avevano afflitto l'impero romano d'oriente, come ad esempio i Pauliciani. E' arduo in altro modo spiegare la creazione di un potentissimo mezzo di soppressione come l'inquisizione, la costituzione di un ordine religioso (i domenicani), preposti a controbattere le dottrine catare, e all'organizzazione di una crociata, cristiani contro cristiani, con connessa licenza di massacro. Nel 1209, l'esercito crociato condotto da Arnaud-Amaury, abate di Citeaux, massacra la quasi totalità della popolazione di Béziers, senza distinzione d'età o di sesso. Circa 25000 furono i morti, tra cui donne e bambini che si erano rifugiati nella chiesa San Nazaire. Gli abitanti, solidali tra loro, rigettarono la richiesta di consegnare i catari. In quella circostanza, ad Arnaud-Amaury, fu attribuita la frase "uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi". A giustificazione di una cosi efferata crociata fu l'uccisione, il 14 gennaio del 1208 presso Arles, di Pierre de Castelnau legato del Papa (Innocenzo III, al secolo Lotario dei Conti di Segni), per mano di sconosciuti, circolò ad arte la voce che incolpava i Catari come esecutori. Il grave fatto di sangue permise al papa di suonare subito le trombe di guerra. Inoltre uno stato sovrano, come la Francia, già dilaniata dalla guerra dei cent'anni, sarebbe potuto essere messo in discussione da questa setta e dal suo alleato laico, il potente conte di Tolosa, essa quindi fu schiacciata dall'azione combinata tra Stato e Chiesa. Il catarismo era un movimento cristiano con alcune particolarità che lo distinguono dal cristianesimo. Per i Catari esistono un Dio malvagio, falso e crudele (Satana) e un altro Dio, buono, santo e giusto. Il mondo materiale è opera del Dio malvagio, mentre il creatore di ciò che rimane in eterno è il Dio Buono. I Catari erano convinti che Satana avesse scritto il Vecchio Testamento. Per loro Abramo, come tanti, non era altro che una figura diabolica. Tutte le cose materiali che si vedono sulla terra sono vane e vengono da Satana. La terra è un luogo malvagio e tornerà nel nulla da dove è venuta. Satana ha modellato tutto dalla materia preesistente, il Dio Buono crea dal nulla. L'uomo è fatto di corpo, anima e spirito. Il corpo è stato modellato dal Dio malvagio, mentre l'anima e lo spirito sono creati dal Dio Buono. L'anima si trova nel corpo, mentre lo spirito è al di fuori e sorveglia l'anima. Gesù Cristo è la salvezza, Egli rivela la verità, libera gli spiriti imprigionati ed indica la via che porta al Dio Buono. Per i Catari il battesimo non è quello d'acqua, ma è un battesimo spirituale, che gli uomini ricevono da adulti: il consolament. Con il battesimo l'anima si riunisce con lo spirito. Solo chi ha ricevuto il consolament faceva parte della Chiesa di Dio, e questi erano chiamati Parfaits (Perfetti), mentre gli altri erano i Credenti. L'unione per eccellenza di anima e spirito è quella tra Maria Maddalena e il Cristo. Per i Catari esisteva la reincarnazione. Le persone che non avevano ricevuto il battesimo spirituale si sarebbero reincarnate da una a nove volte. "Ogni creatura fatta dal Padre celeste sarà salvata, e nessuno di loro perirà... essi andranno di corpo in corpo, finché non giungano in un corpo nel quale pervengano allo stato di verità e di giustizia e vi diventino buoni cristiani" dicevano, in uno scritto Giacomo Antier e Guglielmo Balbaria. I Catari criticavano la Chiesa Cattolica. A questa era contrapposta la loro Chiesa, una Chiesa interiore. Non ammettevano il battesimo dell'acqua né l'eucarestia, non esisteva alcun edificio sacro, la loro Chiesa erano i fedeli in mezzo ai quali stava Gesù e vi sarebbe rimasto fino alla fine del mondo. Una loro preghiera recita."Padre santo, Dio legittimo degli spiriti buoni, che non hai mai ingannato né mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero - perché noi non siamo del mondo né il mondo è nostro - concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci - e di amare ciò che tu ami. Farisei ingannatori, che state alla porta del regno e impedite di entrare a coloro che lo vorrebbero, mentre voi non volete! Per questo prego il Padre santo degli spiriti buoni, che ha il potere di salvare le anime, e fa germogliare e fiorire per gli spiriti buoni, e per causa dei buoni dà vita ai malvagi e lo farà finché essi vadano nel mondo dei buoni".
    I Catari, come detto all'inizio, erano buoni cristiani, non sono da considerare eretici, tanto che Bernard de Clairvaux (San Bernardo) diceva di loro: "Nessun sermone è più cristiano dei loro e la loro morale è pura". I Catari avevano qualcosa che poteva mettere in discussione il cattolicesimo? Come poteva la Chiesa Cattolica rimanere insensibile? Anzi doveva fare di tutto per impossessarsene. Bisognava prendere una decisione, l'unica possibile era il loro sterminio. C'è da aggiungere che in quel periodo il movimento cataro era molto radicato nella Linguadoca ed era diventato ormai alternativo al cattolicesimo. Nel 1244 cadde l'ultima fortezza, Montségur. Montségur si trova a 40 Km da Rennes-le-Château. I Catari si erano stabiliti nella fortezza nel 1208, due anni dopo che Raymond de Péreille, signore di Montségur, la aveva ristrutturata.L'architettura della fortezza di Montségur ha una particolarità; durante il solstizio d'estate, i primi raggi del sole attraversano il loggione da parte a parte. Per alcuni è un caso, per altri è la prova di un culto solare. Forse non è altro che il desiderio di essere in armonia con la natura. Comandante della difesa era Pierre-Roger di Mirepoix, e il Conte di Tolosa Raymond VII li aiutava inviando loro viveri e acqua. Nel mese di gennaio del 1244 due catari, Mattheus e Pierre Bonnet, lasciarono la fortezza per nascondere in una grotta il loro tesoro. Il 13 marzo dello stesso anno, tre Perfetti, Amiel Aicard, Hugo e Poiterin e un credente, lasciarono la fortezza, durante una tregua, portando via qualcosa di molto prezioso per loro e legato alla "loro religione", un tesoro spirituale. Manoscritti? Il segreto di un nascondiglio di un tesoro più che materiale? Pierre Roger di Mirepoix dichiarerà agli inquisitori che i tre Parfaits erano fuggiti, affinché la Chiesa Catara non perdesse il suo tesoro e non restasse privo del suo tesoro nascosto, nella foresta, di cui solo i tre "parfait" ne conoscevano il nascondiglio. Essi si erano congiunti con il loro spirito celeste. Pierre-Roger Mirepoix era discendente di Mérovèe Levi, signore di Mirepoix, il quale, su ordine di Bera II, aveva salvato Sigiberto IV portandolo a Rennes Le Château, quando Pipino II fece assassinare Dagoberto II. Pierre Roger di Mirepoix era molto legato alla sovranità merovingia. I Crociati dovevano recuperare qualcosa a Montségur, ma non la trovarono mai, perché era stata portata via la notte di quel famoso 13 marzo 1244. Il loro segreto lo conoscevano anche i Templari, cha a distanza di qualche anno, nella notte di venerdì 13 ottobre 1307 vennero messi al rogo. Nei paesi catari, non solo non era concepita l'idea della violenza, ma convivevano in perfetta armonia, catari, cristiani, mussulmani ed ebrei. Essi intendevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli. Un'isola felice dell'anno 1000 è definitivamente morta.

    (fonte htttp://www.catarvoyageur.it)


    Edited by la sirenetta - 4/12/2010, 21:47
     
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  9. pirata57
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    I GALLI

    Galli era il nome con cui i Romani indicavano i Celti che abitavano in epoca antica la regione della Gallia, corrispondente grossomodo ai territori attuali di Francia, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi, Germania lungo la riva occidentale del Reno e Italia settentrionale a nord del fiume Esino.
    Politicamente disomogenei, frazionati in varie tribù tra loro spesso in conflitto, i Galli trovarono momenti di unità solo sotto la pressione della minaccia romana, in particolare durante la Campagna di Gallia condotta da Giulio Cesare, quando seppero trovare una guida riconosciuta nella figura di Vercingetorige. Sconfitti e sottomessi interamente a Roma nel I secolo a.C., vennero ripartiti in varie province romane e sottoposti a un processo di latinizzazione.

    Etnonimo

    Il termine latino Galli origina dal termine greco Γαλάται (Galatai), etnonimo attestato sin dal III secolo a.C. e che i Greci riferivano alle tribù celtiche che invasero la Tracia nel 281 a.C. spingendosi con incursioni fin nel cuore della Grecia. Per Gal è stata ipotizzata una derivazione dalla radice celtica *gal- ("potere", "forza") o dalla radice indoeuropea *kelH ("essere elevato"). In entrambi i casi, trattandosi di un attributo positivo, potrebbe essere stato un endoetnonimo, anche se proprio probabilmente più di un singolo gruppo cui appartenevano le tribù celtiche spintesi nella penisola Balcanica e nel centro della Turchia, piuttosto che dell'intero popolo dei Celti
    Il termine Celti (latino Celtae) con cui oggi indichiamo l'intero popolo condividente la stessa origine etnica, culturale e lo stesso fondo linguistico, deriva dal greco Κελτοί (Ecateo di Mileto e Erodoto) o Κέλται (Aristotele e Plutarco), che è il primo attestato etnonimo riferentesi ai Celti nel momento in cui i Greci vi vennero a contatto alla fondazione della colonia greca di Marsiglia. Probabilmente anche il termine Celti era proprio di una singola tribù dell'area dell'odierna Francia meridionale, poi applicato per estensione a tutte le genti affini
    Storia

    Le origini

    La diffusione dei Celti in Europa all'epoca dell'apogeo della loro civiltà (III secolo a.C.)
    I Celti, probabilmente formatosi come popolo indoeuropeo a sé stante in un'area dell'Europa centrale compresa tra le attuali Germania meridionale e la Francia orientale, si espansero fino alle coste atlantiche dell'odierna Francia e lungo il corso del Reno tra i secoli VIII e V a.C., nel corso dell'Età del Ferro (culture di Hallstatt e di La Tène). Più tardi, a partire dal 400 a.C. circa, penetrarono nell'odierna Italia settentrionale.
    IV-II secolo a.C.

    L'insediamento nella Gallia cisalpina

    A partire dall'inizio del IV secolo a.C., migrazioni di popolazioni celtiche attraversarono a più riprese le Alpi e si installarono nella Pianura Padana. Vennero così a contatto con i Liguri e i Veneti, popoli con i quali si scontrarono e in parte assorbirono, e gli Etruschi che invece vennero spinti al di là degli Appennini. Continuarono a premere verso Sud, tanto che nel 388 a.C. la tribù dei Senoni attaccò Chiusi e poco più tardi, guidati da Brenno (il nome Brennan, dio celtico della guerra, era assunto dai condottieri galli durante le operazioni militari), saccheggiarono Roma (nel 390 a.C. o, più probabilmente, nel 386 a.C.). Nel 385 a.C. i Senoni si installarono definitivamente nel Piceno settentrionale, colonizzandolo interamente nel 322 a.C..
    In seguito i Galli cisalpini presero parte a varie iniziative militari contro l'ascesa di Roma, dalle guerre sannitiche alle guerre puniche (un forte contingente gallico era presente alla battaglia di Canne), prima di essere assoggettati definitivamente con una serie di operazioni militari condotte dai Romani nel III secolo a.C.

    Il frazionamento della Gallia transalpina

    I popoli della Gallia al principio del 58 a.C.
    I Galli stanziati al di là delle Alpi erano frazionati in numerose tribù; Cesare attesta che al momento delle sue campagne si distinguevano due fazioni, capeggiate rispettivamente dagli Edui e dai Sequani, presto scalzati dai Remi

    La conquista romana

    L'occupazione romana della Gallia cisalpina avvenne in seguito a una serie di battaglie (Sentino, 295 a.C.; Talamone, 225 a.C.; Clastidium, 222 a.C.) condotte contro le varie tribù che appoggiavano volta per volta i nemici di Roma, dagli Italici ai Cartaginesi. Non è nota la data dell'istituzione della provincia della Gallia cisalpina, sottoposta per tutto il II secolo a.C. a un intenso processo di latinizzazione attraverso la creazione di numerose colonie romane; probabilmente avvenne intorno al 90 a.C.
    La conquista della Gallia meridionale iniziò attorno al 125 - 121 a.C. con l'occupazione di tutta la fascia mediterranea fra le Alpi Liguri e l'Hispania costituita successivamente in Provincia con capitale Narbona (fondata nel 118 a.C.).
    Il dominio romano sulla regione poté dirsi compiuto solo nel 58-51 a.C. grazie alle campagne di Giulio Cesare, che sconfisse le tribù celtiche in Gallia e nelle Isole britanniche e descrisse le sue esperienze nel De bello Gallico (in italiano, Della guerra gallica o La guerra gallica). In questa guerra Cesare si avvalse anche dell'alleanza di molte popolazioni della Gallia, che ottenne in cambio di una serie di concessioni, successivamente non avallate dal Senato romano; fra queste, l'estensione del diritto latino. Al ritorno dalla guerra, Roma si rifiutò di onorare il patto, dato che l'estensione del diritto latino ai Galli avrebbe comportato il riconoscimento di uno status che li avrebbe quasi equiparati ai cittadini romani. Qualche anno più tardi, fu lo stesso Giulio Cesare, uscito nel frattempo vittorioso dalla guerra civile, che concesse la cittadinanza romana e fece distribuire terre ai veterani galli che lo avevano seguito. Fu sempre Cesare che decise di costituire la prima legione non italica dell'e[ssercito romano, la Legio V Alaudae o Legio Gallica, interamente formata da guerrieri galli.
    L'intera regione venne divisa in età augustea in province, che originariamente erano quattro: la Gallia Narbonensis, la Gallia Aquitania, la Gallia Belgica e la Gallia Lugdunensis la cui capitale era Lione (Lugdunum).
    La situazione della Gallia indipendente era caratterizzata soprattutto dall'assenza di veri e propri centri cittadini, paragonabili a quelli del mondo greco-romano, e dall'organizzazione per tribù,che impediva necessariamente la formazione di una solida struttura statale. Ciò serve a spiegare sia il successo ottenuto da Cesare con forze relativamente esigue, sia l'esito diversissimo della dominazione romana in Occidente rispetto a quella stabilita in Oriente. In Grecia ed in Asia Minore le legioni dell'Urbe poterono imporsi, ma in definitiva la signoria di Roma fu, in quei paesi di antica civiltà, poco più di una lunga parentesi;in Gallia invece la romanizzazione ebbe effetti permanenti ed irreversibili.
    Dopo essere stato sottoposto alla crescente pressione da parte delle tribù germaniche a partire dalla metà del III secolo, il dominio romano in Gallia iniziò comunque a crollare nel 406, quando un'orda di Vandali, Alani e Suebi, attraversò il Reno, occupando gran parte della Gallia. Il potere romano sulla regione ebbe definitivamente termine con la sconfitta del governatore Siagrio da parte dei Franchi nel 486.
    I Galli dopo la caduta dell'Impero romano

    Nel VI secolo, l'ex Gallia continuava ad essere divisa in tre parti, come già era stata descritta da Cesare. I Franchi occupavano la maggior parte del territorio. Un regno visigoto venne fondato nella regione sudoccidentale che sarebbe divenuta l'Aquitania, mentre nelle aree che sarebbero divenute la Provenza e la Linguadoca una cultura gallo-romana continuò fino all'epoca di Gregorio di Tours.

    Società

    La struttura sociale articolata in tre classi: i guerrieri, i liberi (allevatori e agricoltori) e i sacerdoti, o druidi. Al di sotto di questi membri veri e propri del popolo, pare esistessero anche schiavi. Come tutte gli antichi popoli indoeuropei (e, in particolare, quelli celtici dei quali rappresentavano un ramo), si ripartivano in gruppi famigliari; il padre aveva diritto di vita e di morte sulla moglie e sulla prole e i figli potevano presentarsi a lui solo nell'età di imbracciare le armi. I funerali, sfarzosi, prevedevano la cremazione mediante pire, nelle quali venivano gettati anche oggetti e animali cari dal defunto.
    Le famiglie erano a loro volta raccolte in numerose tribù. A capo delle tribù l'assemblea del popolo in armi eleggeva un re (rix in gallico, usato come suffisso), mentre i rapporti tra le tribù erano tenuti principalmente dai druidi.
    La "plebe"
    La base della piramide sociale era costituita da persone provviste di diritti, almeno formalmente e inizialmente, ma che a causa del frequente indebitamento si riducevano presto a una condizione servile, che Cesare definisce "plebea". Passati sotto servizio del ceto dominante, perdevano ogni voce in capitolo nelle decisioni politiche, ridotti al rango di schiavi.

    I guerrieri
    Il potere politico e - soprattutto - militare era appannaggio della classe dei guerrieri, che mobilitava in massa nelle frequenti scaramucce che opponevano tribù a tribù. Unica virtù riconosciuta da questo ceto è quella militare. I Galli, pur essendo dei guerrieri coraggiosi, mancavano delle qualità essenziali perché l'esercito potesse prevalere sulle armate romane: la disciplina, l'organizzazione e l'unità di comando. In quest'ultimo caso è raro il caso di Vercingetorige a cui fu affidato il comando supremo nel corso dello scontro con i Romani durante la conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare. Gli eserciti galli, di norma, non erano omogenei. Al contrario ognuna delle tribù che li componevano, si battevano prima di tutto per i propri interessi. Erano, infatti, individualisti ed indisciplinati, anche se dotati di un coraggio non comune, tanto da essere riusciti in più occasioni a battere gli stessi Romani. La cavalleria era considerata il reparto d'élite ed i suoi componenti portavano una cotta di maglia di ferro o un'armatura in cuoio, oltre ad uno scudo di dimensioni inferiori rispetto a quello della fanteria, che al contrario era molto grandi e composti di assicelle di legno, vimini intrecciati e ricoperti di cuoio. Erano inoltre armati, come la fanteria, di una lunga spada ed una lancia. I cavalli erano dotati, inoltre, di ferri o di zoccoli mobili di metallo, fissati con stringhe di cuoio. Alcuni fanti indossavano sul petto piastre di ferro, mentre altri combattevano nudi. Le lunghe spade che portavano erano ancorate a catene di ferro o bronzo, che pendevano lungo il loro fianco destro, e le loro lance avevano delle punte di ferro della lunghezza di un cubito e di poco meno di due palmi di larghezza, ed i loro dardi avevano punte più lunghe delle spade degli altri popoli.

    I druidi

    I sacerdoti, o drudi, erano incaricati delle funzioni religiose, dei sacrifici - sia pubblici sia privati - e dell'interpretazione delle norme religiose, secondo la dottrina elaborata in Britannia e appresa dai drudi attraverso appositi viaggi di istruzione. Ricoprivano inoltre il ruolo di insegnanti e di giudici ed erano fortemente legati tra loro, indipendentemente dall'appartenenza alle varie tribù. Tali rapporti erano cementati dagli annuali convegni druidici, ospitati dalla Foresta dei Carnuti, ritenuta il centro della Gallia.
    Esentati dai tributi e dal servizio militare, i druidi erano i depositari della cultura tradizionale dei Galli, tramandata oralmente in forma poetica, e dello studio degli astri e dei segni naturali.

    Aspetto fisico

    Descritti dalla fonti classiche come di costituzione fisica alta e robusta, spesso con occhi, pelle e capelli chiari, i Galli indossavano tuniche dai colori sgargianti e maniche e brache

    Religione

    I Galli erano politeisti, e adoravano un vasto pantheon di divinità legate alla natura e alle virtù guerriere. Sacerdoti erano i druidi; essi non si limitavano a essere il collegamento tra gli uomini e gli dei, ma erano anche responsabili del calendario e guardiani del "sacro ordine naturale", oltre che filosofi, scienziati, maestri, giudici e consiglieri del re. La fede nella trasmigrazione delle anime si traduceva in un'attenuazione della paura della morte, che a sua volta rafforzava il valore militare dei guerrieri.
    La forte religiosità dei Galli, testimoniata da Cesare, si manifestava anche di fronte alle malattie e nelle guerre, quando i guerrieri facevano voto della propria vita e si affidavano, per l'esecuzione del sacrificio, ai druidi. A monte di questo atteggiamento era la credenza che soltanto un sacrificio umano potesse placare l'ira degli dei. L'esecuzione del sacrificio prevedeva, presso alcune tribù, la realizzazione di grandi pupazzi di vimini, al cui interno venivano poste le vittime e quindi incendiati; le persone ritenute più adatte a tale scopo erano i rei di furto, rapina o altri crimini, ma in caso di necessità si ricorreva a innocenti.
    Nel pantheon gallico, Cesare testimonia il particolare culto attribuito al dio che assimila al romano Mercurio, forse il dio celtico Lúg. Era l'inventore della arti, la guida nei viaggi e la divinità dei commerci. Altre figure di rilievo tra gli dei gallici erano "Apollo" (Belanu, il guaritore), "Marte" (Toutatis, il signore della guerra), "Giove" (Taranis, il signore del tuono) e "Minerva" (Belisama, l'iniziatrice delle arti).

    Diritto

    Il diritto matrimoniale gallico prevedeva un patrimonio comune tra gli sposi, determinato dalla somma della dote della moglie e di un equivalente esatto in denaro portato dal marito. Il patrimonio veniva amministrato congiuntamente; in caso di vedovanza, l'intero ammontare, incluse le rendite maturate, spettava al coniuge superstite.
    La giustizia veniva amministrata dai druidi, che avevano piena discrezionalità sulla segretezza delle sentenze.

    Economia

    Accanto alla tradizionale attività venatoria, resa possibile dalle estese foreste delle regioni cha abitavano, i Galli praticavano sia l'allevamento che l'agricoltura. Le attestate presenze greche e fenicie sulle coste del Golfo del Leone e quelle etrusche, italiche e latine nella Pianura Padana confermano inoltre l'esistenza di una rete di scambi commerciali tra i Galli e altri popoli mediterranei. Tra le attività manifatturiere, sono pervenute testimonianze di una raffinata oreficeria.

    Lingua

    I Galli parlavano una lingua celtica continentale, il gallico, frazionata in vari dialetti (tra i quali il Leponzio, parlato in Gallia cisalpina, l'odierna Italia settentrionale). La lingua è nota grazie ad alcune centinaia di iscrizioni su pietra e su vasi di ceramica e altri manufatti; le più antiche sono in alfabeto greco (costa meridionale dell'odierna Francia) e in alfabeto italico (Gallia cisalpina), mentre a partire dal II secolo a.C. inizia a prendere il sopravvento l'alfabeto latino.

    Cultura

    Letteratura
    I Galli possedevano una peculiare tradizione poetica, affidata alla memoria dei drudi. Ritenendo infatti illecita la trascrizione di questa sapienza, e volendone preservare la segretezza, la tramandavano esclusivamente per via orale, dedicando a questo compito molti anni di studio e l'impiego di mnemotecniche. L'uso della scrittura - in alfabeto greco fino a Cesare, in quello latino dopo la conquista romana - era riservato alle funzioni pratiche.
    Arte
    Architettura

    Gli insediamenti abitativi sorgevano generalmente sopra sommità di facile difesa. In gallico erano chiamati dunon. Si trattava di fortezze di collina, secondo uno schema tipicamente indoeuropeo, che Cesare chiamava oppidum; le mura erano costruite con la tecnica del murus gallicus.

    L'arte orafa gallica raggiunse elevati livelli qualitativi, come testimoniano per esempio i pregiati collari o bracciali propiziatori (i torque).

    avendo popolate il nord italia mi sa che sono un galletto anch'io :lol:
    torino si chiama così perchè qui c'erano i galli taurini

     
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    ETRUSCHI

    Le origini

    Il fondatore della questione etrusca è Dionisio D’Alicarnasso, storico greco di età augustea, che dedica cinque capitoli (26 -30) del primo libro delle sue Antichità romane all’esame di questo argomento, confutando – con i mezzi critici a sua disposizione – le teorie che identificavano gli Etruschi con i Pelasgi o i Lidi e dichiarandosi favorevole all’ipotesi che fossero un popolo «non venuto di fuori ma autoctono», il cui nome indigeno sarebbe stato Rasenna. Scrive lo storico: Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la regione, le loro città furono occupate dai popoli che vivevano nelle immediate vicinanze, ma principalmente dai tirreni, che si impadronirono della maggior parte di esse, e delle migliori.Sono convinto che i pelasgi fossero un popolo diverso dai tirreni.
    E non credo nemmeno che i tirreni fossero coloni lidii, poiché non parlano la lingua dei primi..Perciò sono probabilmente più vicini al vero coloro che affermano che la nazione etrusca non proviene da nessun luogo, ma che è invece originaria del paese.(Dionisio di Alicarnasso (Antichità Romane) I sec. a.C.).

    Prima di lui le opinioni sulle origini etrusche non avevano avuto, a quanto sembra, carattere di meditata discussione; ma, come la maggior parte delle notizie antiche sulle origini di popoli e città del mondo greco ed italico, erano ai confini tra la storia e il mito, giovandosi al più – nel senso di una giustificazione critica – di accostamenti etimologici ed onomastici.

    Come le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani attraverso le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi, si era parlato di una provenienza orientale, dalla Lidia in Asia Minore, attraverso una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di Lidia, nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o di una loro identificazione con il misterioso popolo nomade dei Pelasgi (Ellanico di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di Tirreno con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di Imbro (Anticlide in Strabone, V, 2, 4); si aggiungano minori varianti o rielaborazioni di questi racconti su cui non vale la pena di soffermarci.

    Scrive Erotodo: Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni vissero in questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre più. Allora il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte sarebbe rimasto, l’altro avrebbe cercato fortuna altrove.

    Alla testa dei partenti pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste e aver visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono varie città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un altro, tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso nome si chiamarono tirreni. (Erodoto (Storie I, 94) V sec. a .C.).

    L’origine lidia degli Etruschi entrò senza difficoltà tra i luoghi comuni della letteratura classica: Virgilio dice indifferentemente Lidi per Etruschi. Ne mancava, a detta dello stesso Dionisio d’ Alicarnasso, chi sospettasse una loro origine indigena d’Italia. Ma soltanto Dionisio raccolse le diverse opinioni, le discusse e cercò di dimostrare la propria – cioè quella dell’autoctonia – sulla base dell’estrema antichità del popolo etrusco e del suo isolamento culturale e linguistico tra le varie genti a lui note.

    In epoca moderna il problema è stato ripreso dapprima soltanto sulla base dei testi classici, più tardi anche con il concorso dei dati archeologici e linguistici. La prima fase della discussione fu condotta, tra l’inizio del XVIII e la prima metà del XIX secolo, da N. Freret , B.G. Niebuhr e K.O. Moller, i quali, richiamandosi alla posizione «critica» di Dionisio d’ Alicarnasso, si pronunciarono, sia pure con diversa accentuazione, contro la tradizione erodotea della provenienza degli Etruschi dall’Asia Minore (si arrivò perfino ad accostare il nome Rasenna con quello dei Raeti delle Alpi).

    Di fatto noi riconosciamo l’esistenza di una civiltà etrusca -etnicamente definita dalle iscrizioni in lingua etrusca che cominciano ad apparire nel VII secolo a.C. e durano fino al principio dell’età imperiale romana – diffusa nell’Etruria propria (Lazio settentrionale e Toscana), in Campania e nella parte orientale della valle del Po. La fase più antica di questa civiltà storica (e sicuramente etrusca), caratterizzata da un intenso afflusso di elementi orientali e detta perciò orientalezzante, si riattacca immediatamente alla cultura del ferro villanoviana.

    Dal punto di vista del rito funebre si osserva in Etruria un predominio esclusivo dell’inumazione di età preistorica (con le culture eneolitica e del bronzo); poi l’apparire della incinerazione con i sepolcreti «protovillanoviani» ed una sua netta prevalenza nel villanoviano più antico; un riaffermarsi dell’inumazione nell’Etruria meridionale e marittima durante il villanoviano evoluto e l’orientalizzante; infine un uso promiscuo dei due riti – con prevalenza dell’inumazione nel sud, dell’incinerazione nel nord – per tutta la successiva durata della civiltà etrusca.

    Giova ricordare che anche in Roma repubblicana i due riti funebri erano paralleli e legati a tradizioni familiari (ma alla forte prevalenza dell’incinerazione sul finire della repubblica e nel primo secolo dell’Impero succederà il generalizzarsi dell’inumazione a partire dal II secolo d.C., senza che ciò corrisponda a trasformazioni di carattere etnico).

    Sulla base dei dati offerti dalle tradizioni letterarie, dai confronti linguistici e dall’interpretazione dei fatti archeologici sono state formulate, dall’ultimo secolo, varie teorie relative alle origini del popolo etrusco. Esse possono tuttavia riportarsi sostanzialmente a tre sistemi, di cui uno riprende e sviluppa la tesi tradizionale antica della provenienza degli Etruschi dall’oriente, l’altro continua la scuola di Niebuhr e del Moller nel senso di una provenienza da settentrione, il terzo infine -più recente – tenta di aderire in modo meno generico all’opinione di Dionisio d’Alicarnasso sull’autoctonia degli Etruschi, ricercando le loro origini etniche nel substrato antichissimo delle popolazioni preistoriche d’Italia, anteriori alla diffusione delle lingue indoeuropee. Di queste tre tesi la più nota ed universalmente accettata è quella dell’origine orientale.
    Essa è stata particolarmente cara agli archeologi, italiani e stranieri, che in densa schiera hanno dedicato i loro appassionati studi alle antichità dell’Italia protostorica. Ad essi apparve soprattutto perspicua la coincidenza tra le notizie delle fonti e il fenomeno culturale orientalizzante, manifestatosi a partire dalle coste tirreniche tra l’VIII e il VI secolo a.C., come un improvviso avvento di progresso esotico in contrasto con le forme apparentemente arretrate della precedente cultura villanoviana; si sottolineò anche il capovolgimento del rito funebre dall’incinerazione all’inumazione. Edoardo Brizio (nel 1885) fu il primo ad impostare scientificamente questa tesi, identificando gli invasori etruschi con i portatori della civiltà orientalizzante (poi ellenizzante) in Toscana e in Emilia, e identificando gli Umbri della tradizione erodotea – intesi come ltalici indoeuropei – nei preesistenti incineratori villanoviani.

    Dopo di lui sono stati tenaci assertori dello stesso punto di vista, tra gli altri, A. Piganiol, R. Bloch. La tesi orientale ha trovato e trova larghissimo credito non soltanto fra gli etruscologi, ma anche in generale fra i classicisti e studiosi delle civiltà antiche non strettamente specializzati negli studi etruscologici, attratti dall’autorità della tradizione, dalla facile spiegazione di alcune caratteristiche «orientali» della civiltà etrusca, dalle notevoli concordanze onomastiche tra l’etrusco e le lingue dell’ Asia Minore (rilevate da O. Herbigs) e dall’ancor più evidente rapporto linguistico dell’etrusco con l’idioma preellenico di Lemno.
    Tuttavia non sono mancate varianti ed attenuazioni della classica impostazione del Brizio, specialmente in conseguenza di una più approfondita considerazione delle fonti antiche e dei dati archeologici: così vi fu chi suppose un arrivo degli Etruschi dal mare, ma attraverso l’Adriatico e non il Tirreno, sulla scia della tradizione dei Pelasgi (E. Pottier); chi immaginò un’invasione in più ondate, a partire dal 1000 a.C..
    Ancora più di recente, l’origine stessa delle culture del ferro dette «tirreno-arcaiche» sia con inumazione sia con cremazione (praticamente il villanoviano) è stata attribuita ad un’ondata egea, entro la quale si collocherebbe l’avvento degli antenati degli Etruschi storici da Lemno e da Imbro; o addirittura si è fatta risalire l’immigrazione dei Tirreno- Pelasgi in Italia alla tarda età del bronzo. Queste connessioni preistoriche e protostoriche con l’oriente sarebbero confermate dalla più volte proposta identificazione dei Tyrsenoi con i Trs. nominati dai geroglifici egiziani: vale a dire con uno dei «popoli del mare» che tentarono l’invasione dell’Egitto sotto i faraoni Merneptah e Ramses III (tra il 1230 e il 1170 a.C.).

    Infine, di fronte all’affermarsi del concetto di una formazione storica degli Etruschi da più elementi (come si dirà più avanti), l’apporto orientale è stato ultimamente riproposto in forma più cauta e limitata, come un fattore di sollecitazione dovuto all’avvento di nuclei di navigatori asiatici od egei, simili ai Normanni del medioevo, ma pur sempre determinante in quanto esso avrebbe imposto la lingua etrusca in Italia. Su questa linea di ipotesi si muovono le idee di H. Hencken circa successive penetrazioni all’inizio del villanoviano e dell’orientalizzante, come l’attuale tendenza a collocare le connessioni orientali in età più remota, cioè nella fase micenea o immediatamente postmicenea secondo la tesi del Berard. La teoria dell’origine da settentrione ebbe però il suo principale fondamento critico nelle scoperte e nelle ipotesi archeologiche del secolo scorso, con particolare riguardo alla ricostruzione pigoriniana, che già conosciamo, sulla discesa degli incineratori delle terremare verso l’Italia peninsulare. Tra questi sarebbero stati non soltanto gli Italici, ma anche gli Etruschi, tanto più che diversi linguisti ritenevano che l’etrusco fosse una lingua indoeuropea e italica. La teoria settentrionale sedusse alcuni archeologi – che però passarono poi alla tesi della provenienza orientale – ma fu soprattutto sostenuta da studiosi di storia antica. Tuttavia, dovendosi riconoscere una profonda differenza etnica e linguistica fra Etruschi ed Italici, O. De Sanctis giunse a rovesciare la teoria pigoriniana identificando gli Etruschi con i crematori discesi dal nord e gl’Italici con le genti eneolitiche già stanziate nella penisola. L. Pareti ha voluto riconoscere una più antica ondata indoeuropea (quella dei «Protolatini») negli eneolitici; un’ondata indoeuropea più recente (quella degli Italici orientali) nei crematori «proto- villanoviani»; e infine il nucleo etnico del popolo etrusco nei possessori della cultura villanoviana, derivata dalle terremare e dalle palafitte dell’Italia settentrionale. Alla teoria della provenienza settentrionale si ricollega, in sede linguistica, la ipotesi di P. Kretschmer sulla pertinenza degli Etruschi ad un gruppo etnico-linguistico «retotirrenico» o «reto-pelasgico» disceso dall’area balcanico-danubiana verso la Grecia e verso l’Italia.

    La terza tesi, o dell’autoctonia fu quindi elaborata nel campo archeologico da U. Antonielli, ma soprattutto sviluppata dalla scuola dei linguisti italiani tra cui O. Devoto, il quale ultimo ne dette una formulazione organica già nella prima edizione del suo libro Gli antichi ltalici (1931).

    Considerati i legami intercorrenti tra l’etrusco e le lingue preindoeuropee del Mediterraneo, il popolo etrusco non sarebbe giunto in Italia dopo gli Indoeuropei, ma rappresenterebbe invece un relitto delle più antiche popolazioni preindoeuropee, una specie di «isola» etnica, così come i Baschi dell’area dei Pirenei rappresentano tuttora l’avanzo di primitive popolazioni ispaniche rispetto alle attuali nazioni neolatine che li circondano.

    La toponomastica sembra dimostrare infatti, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’esistenza nella penisola di uno strato linguistico più antico dei dialetti italici e piuttosto affine all’etrusco stesso e agli idiomi dell’ Egeo pre ellenico e dell’ Asia Minore. Gli Etruschi sarebbero un concentrarsi verso occidente – sotto la spinta degli invasori ltalici – di elementi etnici appartenenti a questo strato: naturalmente con notevoli commistioni ed influssi linguistici indoeuropei.
    Dal punto di vista archeologico, cioè culturale, lo strato etnico più antico sarebbe da riconoscere negli inumatori di età neoeneolitica e dell’età del bronzo ai quali si sarebbero sovrapposti gli Italici o Protoitalici incineratori (rappresentati in Etruria dalla cultura villanoviana), dando luogo alla nazione etrusca storica come un riaffermarsi degli elementi originari della stirpe sotto gl’impulsi culturali provenienti dall’ oriente. Questa tesi, sia pure con formulazione diversa nei particolari, fu cara anche a paletnologi «occidentalisti».

    Analisi della teoria della provenienza orientale
    Le teorie sin qui esposte tentano di spiegare ciascuna a suo modo i dati della tradizione, delle ricerche linguistiche, delle scoperte archeologiche, per ricostruire lo svolgersi degli eventi che hanno portato all’insediamento e allo sviluppo del popolo etrusco.

    Si tratta in realtà di ingegnose combinazioni dei diversi elementi conosciuti; ma esse soddisfano soltanto una parte delle esigenze che derivano da una piena valutazione critica di tali elementi.
    Ciascuno dei tre sistemi e delle loro varianti lascia qualcosa di inesplicato, urta contro fatti assodati: senza tuttavia che questo torni a vantaggio delle altre ricostruzioni. Se ciò non fosse, la discussione sarebbe stata da lungo tempo superata con un accordo di massima tra gli studiosi, e la polemica tradizionale non sarebbe giunta ad un punto morto.

    Consideriamo in primo luogo criticamente la tesi orientale. Essa riposa sopra una presunta concordanza tra dati della tradizione – per quanto essi convergono sulla provenienza degli Etruschi dall’oriente egeo-anatolico, siano stati essi Lidi o Pelasgi o abitanti di Lemno – e dati archeologici, cioè la constatazione di una fase culturale orientalizzante nell’Italia centrale.

    Si aggiungano sul piano linguistico, come già detto, la forti somiglianze tra l’etrusco e il lemnio, nonchè le supposte connessioni dell’etrusco con idiomi dell’Asia Minore e perfino del Caucaso. Ma innanzi tutto quale è il valore effettivo di ciascuno di questi elementi posti a confronto, preso isolatamente? Sulle tradizioni relative a migrazioni e a parentele etniche derivate dai poeti e dai logografi greci la critica moderna è generalmente scettica o almeno estremamente prudente.

    Ciò vale in primo luogo per i Pelasgi, popolo leggendario che i Greci ritenevano originario della Tessaglia ed emigrato in età eroica per via di mare in varie regioni dell’Egeo e perfino dell’ltalia, sulla base di concordanze formali tra nomi di località tessale e località esistenti nei paesi che si ritennero meta delle loro migrazioni.

    Così furono dette pelasgiche tutte le zone nelle quali appariva il nome di città Laris(s)a (dalla Larissa di Tessaglia) e cioè l’Attica, l’Argolide, l’Acaia, Creta, Lesbo, la Troade, l’Eolide, l’Italia meridionale. Lo stesso si dica per i nomi affini a quello della città di Gyrton nella Tessaglia, come Gortyna in Macedonia, in Arcadia e in Creta, Kyrton in Beozia, Crotone nell’ltalia meridionale, Cortona in Etruria.

    Va però tenuto presente che in età storica si consideravano di origine pelasgica popolazioni non greche effettivamente esistenti al margine del mondo greco, quasi avanzi di quella antica emigrazione, come gli abitatori delle isole di Lemno e di 1mbro e dell’Ellesponto nell’Egeo settentrionale; e ciò fu immaginato probabilmente – in direzione opposta, cioè in occidente – anche per gli Etruschi fin dai primi contatti dei navigatori greci con l’Etruria, dato che proprio alcuni centri etruschi costieri più aperti ad una intensa frequentazione ellenica e perciò meglio conosciuti, come Caere (detta dai Greci Agylla, con i porti di Alsio, Pyrgi, ecc.) e sull’Adriatico Spina, si consideravano originarie fondazioni dei Pelasgi.

    È senza dubbio a questo filone di tradizioni che s’ispira l’ipotesi erudita di un’identificazione dei Tirreni d’ltalia, cioè degli Etruschi, con i Pelasgi, attribuita da Dionisio d’Alicarnasso allo storico Ellanico, del tutto indipendente dalla versione di Erodoto sull’origine lidia e palesemente contrastante con le opinioni degli autori antichi posterodotei che parlano sì di un’occupazione pelasgica dell’Etruria, ma anteriore e comunque distinta da quella dei Tirreni.

    Quanto al famoso racconto di Erodoto sull’immigrazione dei Tirreni dalla Lidia (o meglio dei Lidi chiamati poi Tirreni dal loro eponimo Tirreno), prescindendo dalla fortuna che esso ebbe nell’antichità, difficilmente sfuggiremmo oggi – dopo le argomentazioni critiche del Pareti – all’impressione che si tratti, così come è formulato, di un’invenzione dei logografi ionici nella fase di più stretti rapporti commerciali e culturali del mondo greco-orientale con l’Etruria e di probabili presenze di navigatori etruschi nell’Egeo, di cui si dirà più avanti, cioè essenzialmente nel VI secolo.

    È possibile che questa storia abbia avuto spunti ispiratori concreti, oltreche in talune apparenti somiglianze tra l’Etruria e il mondo anatolico, anche in accostamenti onomastici con la città lidia di Tyrrha o con il popolo dei Torebi e nella stessa esistenza di Tirreni nell’Egeo, ricordati dagli scrittori greci a partire dal V secolo, ma spesso confusi con i Pelasgi ( cosicchè non è neppure esclusa l’ipotesi che si tratti di un nome diffuso secondariamente in sede di erudizione etnografica come conseguenza dell’identificazione dei Pelasgi con i Tirreni d’Italia, i quali sarebbero dunque i soli Tirreni conosciuti dalla tradizione greca più antica).

    Ancora ai Pelasgi ci riporta la notizia di Anticlide che, per quanto tarda e contaminata favolisticamente con la versione di Erodoto, presenta un’interessante precisazione geografica in quanto parla di un’immigrazione dalla sfera nord-egea delle isole di Lemno e Imbro conosciuta storicamente dai Greci come «pelasgica» (e alla quale richiamano i rapporti linguistici fra etrusco e lemnio).

    In conclusione i dati delle fonti letterarie classiche, leggendari e contraddittorii, non offrono alcuna prova a favore di una provenienza del «popolo etrusco» dall’oriente; tuttavia non escludono possibili echi di singole più o meno remote connessioni del mondo etrusco con l’area egea.

    Passando a considerare l’aspetto archeologico del problema, va notato subito che il fenomeno del manifestarsi della civiltà orientalizzante in Etruria non è tale da giustificare l’ipotesi di un popolo straniero che approdi recando le sue strutture e le sue forme di vita, come invece è evidentissimo in Sicilia e nell’Italia meridionale all’arrivo dei coloni greci.
    Durante la fase del villanoviano evoluto cominciano ad avvenire trasformazioni notevoli che preludono allo splendore della successiva fase orientalizzante: si diffonde il rito funebre dell’inumazione, appaiono le prime tombe a camera, l’uso del ferro si generalizza, aumentala frequenza degli oggetti di bronzo decorato e dei metalli preziosi (oro, argento), e nello stesso tempo s’incontrano sempre più numerosi oggetti e motivi d’importazione straniera (scarabei e amuleti di tipo egizio, ceramica dipinta d’imitazione greca).

    II passaggio alla civiltà orientalizzante non è dunque radicale ed istantaneo. Molti degli aspetti di questa civiltà, come le stesse grandi tombe architettoniche o di imitazione architettonica, la ceramica d’impasto e di bucchero, arredi, gioielli, ecc., rientrano in pieno nello sviluppo della cultura indigena, sia pure sollecitata da influenze esterne, orientali e greche, e soprattutto eccitata dal rigoglio economico. Singoli oggetti importati e motivi provengono dall’Egitto, dalla Siria, da Cipro, da Rodi e in genere dalla Grecia; altri hanno la loro patria d’origine anche più lontano, in Mesopotamia o in Armenia (Urartu).

    Caratteristico è il genere di decorazione che mescola motivi egiziani, mesopotamici, siriaci, egeo-asianici, talvolta in composizioni ibride, o sviluppa i repertori di fregi con animali reali e fantastici, presenti negli oggetti di lusso di origine fenicio-cipriota, ma rielaborati e diffusi in parte notevole dai Greci stessi soprattutto nel corso del VII secolo a .C..
    In sostanza l’impressione che si prova di fronte alle tombe etrusche orientalizzanti e ai loro sontuosi corredi è che l’ossatura, le forme essenziali della civiltà affondino le loro radici nelle tradizioni locali; mentre lo spirito e le caratteristiche degli elementi decorativi, esterni, acquisiti, si riportino alla «moda» orientale.

    E quando appunto si voglia prescindere da questo carattere composito – indigeno ed esotico – della civiltà orientalizzante di Etruria’ e ci si voglia limitare all’esame dei soli elementi importati; allora appare chiaro che essi non sono presenti soltanto in Etruria, ma appaiono più o meno con gli stessi aspetti in altri paesi mediterranei nello stesso periodo, a cominciare dalla Grecia stessa, là dove certo non si suppone un’immigrazione asianica.

    Allo stile orientalizzante succederà in Etruria un preponderante influsso di elementi culturali ed artistici propriamente greci, dapprima peloponnesiaci e ionici e poi attici, nel corso del VI e del V secolo a.C.
    Ad essi è dovuta una ben più decisiva trasformazione della vecchia cultura indigena in nuove forme di vita, anche nel campo più intimo della religione e delle costumanze: basti pensare alle divinità e ai miti ellenici penetrati in Etruria.

    Nessuno naturalmente oserebbe immaginare l’assurdo storico di una colonizzazione etnica greca dell’Etruria nel VI secolo (anche se abbiamo prove convincenti dell’esistenza di nuclei di commercianti greci nei porti etruschi). Non si comprende dunque la necessità di attribuire la civiltà orientalizzante ad un’invasione di stranieri, piuttosto che a un rinnovamento di civiltà. Anche per quel che concerne il rito funebre non esiste alcun brusco trapasso dalla cremazione del villanoviano all’inumazione dell’orientalizzante.

    Già il villanoviano più antico dell’Etruria meridionale mostra tombe a fossa commiste con tombe a pozzo di cremati. L’affermazione dell’inumazione è progressiva nella fase del villanoviano evoluto. Questo processo è del resto comune nel corso dell’VIII secolo non soltanto in Etruria, ma anche nel Lazio, dove non si suppone nessuna immigrazione.
    Inoltre esso appare limitato all’Etruria del sud, perche l’Etruria interna (per esempio Chiusi) non abbandonerà il costume dell’incinerazione prevalente ne durante l’orientalizzante ne per tutta la successiva durata della civiltà etrusca. Nella stessa Etruria meridionale si avrà una parziale ripresa della cremazione nel VI secolo. Un’incidenza di fatti etnici è inimmaginabile, se si intende come sostituzione di un popolo ad un altro.
    Riconsideriamo ora questi diversi elementi nei loro reciproci rapporti geografici ecronologici per verificare se sia sostenibile la tesi orientalistica nella sua formulazione tradizionale e più diffusa – tuttora sostenuta da alcuni studiosi e ripetuta in sede di pubblicazioni non specialistiche – dell’arrivo degli Etruschi in Italia come portatori della civiltà orientalizzante.

    Ma quale civiltà orientalizzante? Noi sappiamo benissimo che le importazioni orientali e più generalmente il formarsi del gusto orientalizzante in Etruria tra la fine dell’VIII e il principio del VI secolo ci riconducono a centri di produzione e d’ispirazione estremamente diversi e dispersi del Vicino Oriente e del Mediterraneo orientale, con una prevalenza, se mai, dell’area siro-cipriota, e poi greco-orientale. È dunque piuttosto alla navigazione fenicia e greca, interessante con analoghi risultati anche altri territori del bacino mediterraneo, che sarà da attribuire l’apporto culturale orientalizzante.

    Questo quadro appare chiaramente inconciliabile con l’idea della immigrazione o della colonizzazione di un popolo straniero che rechi con se il proprio bagaglio di civiltà partendo da un punto ben definito del mondo orientale, cioè, stando alle fonti, dalla Lidia o dall’Egeo settentrionale: tanto più che proprio per questi territori manca ogni specifica analogia culturale con l’Etruria in corrispondenza dell’età alla quale si è voluta riferire l’immigrazione etrusca.

    Le scoperte di Lemno, delle località costiere della Ionia e dell’Eolide asiatiche, di Sardi, dell’interno dell’ Anatolia non hanno offerto finora alcun elemento, se non piuttosto generico (per esempio tumuli, tombe a camera, facciate rupestri, ecc.), di concordanza con i monumenti e con la civiltà dell’Etruria per quel periodo che in Asia Minore è denominato «frigio» (IX- VII secolo) ed a Lemno, impropriamente, «tirrenico» (meglio dobbiamo dire «pelasgico», sulla base della tradizione storica più antica ed autorevole).

    La ceramica geometrica frigia, quella lidia e la caratteristica ceramica arcaica di Lemno non hanno assolutamente alcun rapporto con la produzione vascolare indigena e greco-geometrica d’Italia. Qualche vaso di tipo lidio si diffonde in occidente soltanto nel VI secolo, insieme con tanti altri tipi greco-orientali.

    Così anche la ceramica grigia asiatica è esportata dai coloni di Focea nel Mediterraneo occidentale, ma è rara in Italia, dove non sembra aver alcun rapporto con l’origine del bucchero etrusco. La fibula asianica, presente con estrema dovizia in tutta l’Anatolia, ha una caratteristica forma con arco semicircolare rigido e ingrossamenti a perle o in forma di elettrocalamita; sembrerebbe impossibile che essa non avesse dovuto accompagnare le migrazioni di un popolo asianico.

    Ma è un fatto che essa non ha avuto diffusione verso occidente neanche per via commerciale: finora nell’Italia centrale se ne è trovato un solo esemplare sui Colli Albani, e altri due provengono dalla necropoli di Pitecusa, cioè in ogni caso fuori del territorio dell’Etruria!

    La recente scoperta di una tomba reale a Gordion, capitale della Frigia, con grandi lebeti di bronzo con figure applicate simili a quelle delle tombe orientalizzanti dell’Etruria edi Palestrina, offre un’altra testimonianza della larga diffusione dell’arte bronzistica dell’Urartu sulle vie della Grecia e dell’Italia, ma non è una prova di un rapporto diretto tra la Frigia e l’Etruria.

    Viceversa le connessioni dei centri occidentali dell’Asia Minore con l’Italia sono sempre più intense ed immediate nel VI secolo, a causa delle navigazioni ioniche verso occidente e forse anche di presenze etrusche nell’Egeo, culminando con le preponderanti influenze greco-orientali sull’arte dell’Etruria arcaica. Ma questo fenomeno non ha ovviamente nulla a che vedere con la questione delle origini.

    L’identificazione della civiltà orientalizzante con la supposta immigrazione etrusca secondo le fonti antiche appare insostenibile anche per elementari ragioni di carattere cronologico e storico. L’inizio della civiltà orientalizzante etrusca non è anteriore alla fine dell’VIII secolo, cioè ad un momento in cui i coloni greci erano già più o meno saldamente stanziati sulle coste della Sicilia e dell’Italia meridionale.

    Il racconto di Erodoto sull’immigrazione dalla Lidia non può essere invece arbitrariamente distratto dal suo sistema cronologico, che riporta i fatti al regno di Ati sulla Lidia: cioè, secondo la cronologia tradizionale, poco dopo la guerra di Troia, tra il XIII e il XII secolo a.C. Lo stesso discorso vale anche per le migrazioni pelasgiche. Un avvenimento così notevole agli albori dei tempi storici – ed in parallelismo e in concorrenza con la colonizzazione greca – non sarebbe sfuggito ad altre fonti storiche e soprattutto non sarebbe stato trasfigurato, come in Erodoto, in un episodio leggendario di mezzo millennio più antico.

    Si consideri anzi che una fonte così autorevole come lo storico greco Eforo (in Strabone, VI, 2, 2), parlando della fondazione di Nasso, la più antica colonia calcidese della Sicilia, nell’VIII secolo, afferma che prima di allora i Greci non si avventuravano nei mari occidentali per timore dei Tirreni: ammette cioè implicitamente un’antica presenza e potenza degli Etruschi in Italia prima dell’inizio della colonizzazione greca storica.

    Proprio se si vuol dare giusto valore ai dati della tradizione quali possibili echi di una lontana realtà storica occorrerà ricollocarli nel loro proprio contesto cronologico che è quello dell’ età eroica, cioè riportarli in ogni caso ad avvenimenti corrispondenti alla tarda età del bronzo, che è quanto dire alle fasi tardo-micenee e postmicenee degli ultimi secoli del II millennio a.C.: si tratterebbe in ultima analisi di accogliere l’impostazione critica del Berard, la sola metodologicamente accettabile.

    Ma anche volendo supporre che i racconti di fonte classica contengano qualche reminiscenza di presenze e di apporti orientali sulle coste tirreniche nella tarda età del bronzo, dovremmo comunque sfrondarne le coloriture più ingenue e semplicistiche troppo palesemente ispirate ai modelli delle colonizzazioni storiche, e respingere l’idea di trasferimenti di popolazioni in massa.

    Dovremmo anche, più sottilmente, distinguere l’impostazione aneddoticamente caratterizzata, e perciò fittizia, del racconto di Erodoto sulla provenienza dei Tirreni dalla Lidia – oltre tutto basata sull’ambiguità del concetto e del nome di Tirreni – dai più vaghi ma più diffusi, e presumibilmente più antichi, richiami alle navigazioni dei Pelasgi.

    In questo senso potrebbe anche ammettersi una certa corrispondenza fra dati della tradizione e dati linguistici, sia nella prospettiva geografica ( pelasgità di Lemno, provenienza degli Etruschi da Lemno secondo Anticlide, affinità fra illemnio e l’etrusco), sia nella prospettiva cronologica (antichità del rapporto così nel quadro delle tradizioni come nell’evidenza linguistica).

    Manca invece una qualsiasi spia archeologica, anche se la possibilità che navigazioni egee abbiano raggiunto il Tirreno nel tardo bronzo ci è suggerita da più o meno sporadici trovamenti di ceramica di tipo miceneo, come già sappiamo.

    Analisi della teoria della provenienza settentrionale e dell’autoctonia
    Passiamo ora all’esame delle tesi «occidentalistiche», a cominciare da quella della provenienza degli Etruschi da settentrione. Il vecchio raffronto tra il nome dei Rasenna e quello dei Reti è puerile: le iscrizioni rinvenute nel Trentino e nell’ Alto Adige sono assai tarde (posteriori al V secolo a.C.) e, se anche mostrano antichissimi legami o recenti rapporti con l’etrusco, nulla provano ai fini di una supposta originaria immigrazione degli Etruschi, come popolo già formato, dalla regione alpina.

    Dal punto di vista archeologico la critica già fatta ai punti di vista del Pigorini e dello Helbig in firma sostanzialmente l’ipotesi di una discesa di popoli dal settentrione dell’ltalia verso il centro della penisola.

    L’etruschicità della pianura padana è una ben definita conquista dal sud, come dicono anche le fonti storiche: in questo si può andare d’accordo con il Brizio e con il Ducati, pur facendo ogni riserva sulla cronologia ed escludendo che gli abitatori di Bologna villanoviana siano da identificare con quegli Umbri italici la cui apparizione sul versante orientale dell’Appennino è ancora più recente.

    La linguistica ha ormai da tempo superato la vecchia concezione delle affinità genetiche tra etrusco e lingueitaliche: cosicche anche da questo punto di vista la tesi pigoriniana di, una discesa unica di Etruschi edi ltalici ha perduto ogni consistenza. Di qui la teoria del De Sanctis tendente a riconoscere gli Etruschi nei crematori e gl’ltalici negli inumatori del vecchio ceppo eneolitico (meglio noi diremmo ora, nelle genti di tradizione appenninica).

    Sul piano di una grossolana identificazione dei fatti archeologici con quelli etnico-linguistici queste equazioni sarebbero le sole idonee a spiegare la già constatata corrispondenza delle aree dell’inumazione e della cremazione rispettivamente con le aree indoeuropea e non indoeuropea d’ltalia. Ma è evidente, specialmente oggi alla luce delle più recenti scoperte, che non si può parlare in blocco di «crematori» come rappresentanti di un’unica e precostituita realtà etnico-linguistica; che il villanoviano non è una cultura introdotta già formata da qualche area esterna a quella del suo sviluppo, ne presenta forme più antiche a nord dell’ Appennino, ma anzi ha i suoi precedenti immediati piuttosto nel «protovillanoviano» peninsulare, e tra l’altro proprio nell’Etruria tirrenica (dai Monti della Tolfa al Grossetano); che fasi arcaiche di culture di crematori affini al « protovillanoviano», come il «protolaziale» e il «protoveneto», appaiono all’inizio delle culture del ferro del Lazio e del Veneto, spettanti a popoli storici di lingua indoeuropea ma di origine diversa, cioè rispettivamente ai Latini e ai Veneti. Con ciò cade anche – o si riduce nella sfera delle congetture indimostrabili – l’opinione del Pareti che i « protovillanoviani» rappresentino originariamente una sola stirpe, quella degli ltalici orientali (ipotesi tanto più inverosimile in quanto in età storica gl’Italici orientali sono principalmente inumatori), e che una successiva ipotetica ondata di «villanoviani» rappresenti la discesa degli Etruschi. Si tratta, come si vede, di giuochi di pazienza senza alcun fondamento di verosimiglianza critica. In nessun modo l’archeologia può dimostrare un «arrivo» degli Etruschi dal nord.

    Altro argomento a svantaggio della tesi settentrionale è proprio il rapporto della lingua etrusca con la lingua preellenica di Lemno. Per spiegarlo occorrerebbe accettare la tesi del Kretschmer di un’immigrazione parallela dal bacino danubiano, per via continentale, nell’Egeo settentrionale e in Italia; ma resterebbero pur sempre da spiegare gli elementi affini all’etrusco nella toponomastica «tirrenica» dell’Italia peninsulare, che sono profondi e diffusi.

    Ciò non esclude tuttavia la presenza in etrusco di elementi linguistici continentali, ricollegabili a linguaggi nordico-occidentali del substrato preindoeuropeo (come il «ligure» o il «retico») o addirittura a lingue indoeuropee. Ma questo prova, se mai, una larga coincidenza e mescolanza locale di fattori di diversa origine, attraverso una complessa sovrapposizione di aree linguistiche.

    Anche la tesi dell’autoctonia, intesa in un senso assoluto e schematico, presenta il fianco a fondate critiche. Il punto di vista dei linguisti (Trombetti, Ribezzo, Devoto, ecc.), che riconosce nel fondo dell’etrusco il relitto di una più vasta unità linguistica preindoeuropea, è teoricamente ineccepibile, in quanto tiene conto delle affinità mediterranee della lingua etrusca e della presenza del substrato «tirrenico», rivelato soprattutto dalla toponomastica, in gran parte del territorio italiano. Viceversa la ricostruzione specifica dei fatti in base ai dati archeologici, tentata dall’Antonielli e dal Devoto, si dibatte contro gravi difficoltà. Essa presuppone una netta contrapposizione etnica tra indigeni inumatori dell’eneolitico e dell’età del bronzo, e «villanoviani» crematori discesi da settentrione, identificando i primi con lo strato primitivo « tirrenico», i secondi con gli invasori italici indoeuropei.

    Ancora una volta la constatazione della corrispondenza pressoche esatta delle aree d’incinerazione e di inumazione rispettivamente con l’area non indoeuropea e con quella indoeuropea si oppone alla ricostruzione astratta degli autoctonisti. Proprio l’Etruria, dove è tipica e densissima l’occupazione degli incineratori, sarebbe il solo cantone dell’Italia in cui la lingua primitiva avrebbe conservato i suoi caratteri sino alla pienezza dei tempi storici; mentre invece le lingue italiche avrebbero trionfato nella parte orientale della penisola, dove non si hanno tracce se non sporadiche ed insignificanti del passaggio dei supposti incineratori italici!

    È chiaro che l’autoctonismo linguistico non può essere costretto entro l’assurdità di questi schemi archeologici, nei quali appare ancora così evidente l’impronta del vecchio preconcetto pigoriniano. Invano Devoto tentò di ricondurre l’equazione incineratori = Italici al concetto di una corrente «protoitalica» di cui però nulla chiaramente risulta nei fatti positivi dell’etnografia storica italiana.

    In ogni caso un puro autoctonismo si presenta a priori come una teoria antistorica: ed in concreto urta contro l’evidenza di vicende culturali che denunciano influenze europee ed orientali e contro i dati linguistici che dimostrano rapporti tra l’Etruria e l’Egeo oltre che una profonda penetrazione di elementi indoeuropei nella lingua etrusca.

    
     
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  11. la sirenetta
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    La piramide di Yonaguni


    Posti al largo del Mar della Cina, nello stretto che collega il Giappone a Formosa e sommersi a 25 metri sotto il livello del mare, rappresentano per gli scopritori la testimonianza di una civiltà vissuta oltre 10.000 anni fa.
    Le costruzioni, di enormi dimensioni, hanno suscitato eccitazione e sgomento nella comunità archeologica internazionale. Le caratteristiche architettoniche di quella che può essere considerata una colossale struttura, di grandezza paragonabile a quella della piramide di Cheope, sono accostabili alle costruzioni mesopotamiche chiamate Ziggurat, piramidi a gradoni, tipiche dell'area medioorientale. Non possono quindi essere associate a niente che abbia a che fare con le culture nipponica e cinese a noi note. In precedenza nessuno aveva fatto caso alla presenza di queste costruzioni ed il professar Kimura è stato il primo ad aver capito che la struttura non era opera della natura, bensì dell'uomo. Inoltre, nella stessa zona, ritrovamenti di altre costruzioni si sono aggiunti alla scoperta principale, a conferma che, sommerso a poche decine di metri sotto la superficie marina, un intero complesso architettonico era in attesa di essere scoperto e fornire una nuova chiave di lettura alla storia della civiltà orientale e mondiale. Al sito sottomarino si sono interessati anche il geologo Robert Schoch e l'egittologo John Antony West, sostenitori dell'esistenza di Atlantide e consulenti per gli approfonditi studi di Robert Bauval e Graham Hancock, che hanno considerato la struttura opera della natura. Ma Kimura ha replicato a queste affermazioni. "Se i gradoni fossero il risultato dell'erosione causata dalle correnti marine ha dichiarato Kimura lo stesso fenomeno sarebbe leggibile anche sulle rocce circostanti. La scoperta di ciò che sembra essere una strada che cinge l'intero complesso, conferma che è solo opera dell’uomo". Dopo che le immagini del luogo sono state divulgate, Schoch e West hanno dovuto ammettere il loro errore.


    Una piramide di 10.000 anni fa


    Una certa agitazione regna fra gli studiosi giapponesi, in quanto le analisi e gli studi sembrano confermare che il complesso sottomarino di Ryukyu ha strette relazioni con le rovine precolombiane ed egiziane.
    Forse si trattava di un sito religioso e cerimoniale che non ha corrispondenze con nessun'altra architettura sacra dell'estremo Oriente e che si lega invece a siti archeologici presenti in altre parti del mondo. In particolare, l'intero complesso sottomarino come progetto architettonico è sorprendentemente simile alla città Inca di Pachacamac in Perù. Il professar Kimura si dichiara convinto che il tutto è opera di un popolo molto intelligente "con un alto grado di conoscenza tecnologica e di cui finora non avevamo nessuna traccia". Anche l'età stimata del complesso lascia perplessi; Teruaku Ishi, docente di geologia all'Università di Tokio, sostiene che la Piramide sommersa potrebbe risalire almeno all'ottomila a.C.. Altri studiosi la retrodatano addirittura al 12.000 a.C.; come dire, più antica delle piramidi d'Egitto. La corrispondenza architettonica tra le strutture sommerse di Okinawa e i templi egiziani, mesopotamici e mesoamericani pone sul tavolo le argomentazioni che gli studiosi di paleoastronautica hanno sino ad oggi avanzato e che molti archeologi solo ora iniziano a prendere in considerazione: vale a dire la presenza di una civiltà planetaria molto evoluta, antecedente il diluvio, Atlantide o la leggendaria Mu, (oppure ciò che i giapponesi chiamano la mitica Onogorojima) della cui cultura prediluviana si trovano tracce nei monumenti megalitici sparsi un po' ovunque nel mondo. Il fatto che la Piramide di Ryukyu sia posta sotto il livello delle acque è un indizio consistente del fatto che la civiltà che la eresse scomparve con il diluvio.


    Ingegneria antidiluviana


    Una civiltà che in un lontano passato dovette esercitare una grossa influenza su tutto il globo terracqueo.
    Non sono altrimenti spiegabili le notevoli analogie tra le costruzioni peruviane e boliviane e quelle giapponesi. Non è noto a molti infatti che anche in Giappone sono state ritrovate piramidi a facce levigate. Il 19 ottobre 1996 una spedizione archeologica ha scoperto nel nord del Giappone, nell'isola di Honsu, in località Hang sul monte Kasagi, una piccola piramide monolitica e simmetrica, versione in miniatura della piramide di Cheope. Formata da un unico blocco granitico, misura 4,70 metri di base per 2,20 di altezza e rappresenta un elemento architettonico del tutto sconosciuto in Giappone; sino ad oggi almeno. La piccola piramide giapponese non è la sola struttura apparentemente inconsistente con la classica architettura del Sol Levante. Molti dei lettori conosceranno le costruzioni peruviane della città di Cuzco con il suo Curichanca, il recinto d'oro, e la vicina Sacsayhuaman ancora caratterizzata da lunghe file murarie. L’ingegneria inca era contraddistinta dalla capacità di saper assemblare blocchi monolitici e giganteschi con una tecnica ad incastro che non ha corrispettivi validi in epoca moderna. Queste costruzioni hanno vinto la sfida del tempo, superando anche forti eventi sismici, pur essendo costruite senza alcun cementificante. Il segno di una tecnica superiore ancora oggi enigmatica. Il sistema ad incastro non è solo prerogativa del centrosud America. Le piramidi e i templi egiziani, la piattaforma del tempio di Baalbek in Libano, le fondamenta del tempio di Gerusalemme, oggi visitabili dalla parte cristiana della città sacra presentano la stesse caratteristiche, da molti ricercatori addebitabili ad una cultura antecedente il diluvio, in un periodo compreso tra il 10.000 e il 15.000 a.C.. Peculiarità incredibilmente presenti nelle mura di cinta del palazzo imperiale di Tokio, anch'esse formate da blocchi monolitici perfettamente incastrati l'uno nell'altro, come per le costruzioni inca e caratterizzate dalla medesima tecnica ingegneristica. Tra i resti del palazzo è stata inoltre trovata una piccola porta, versione in scala ridotta della Porta del Sole di Tiahuanaco in Bolivia, e come quest'ultima sovrastata da un idolo il cui originale è stato distrutto dai bulldozer durante gli scavi. È una statua, per stile, assimilabile agli idoli a tutto tondo peruviani. Il sistema con cui è assemblata la porta, caratterizzato da tre blocchi monolitici, sembra collegarla ai Dolmen europei e soprattutto ai Triliti che formano l'intero complesso di Stonehenge.


    I menhir di Nabeyama


    Se, infatti, le recenti scoperte archeologiche hanno rivelato incredibili corrispondenze con monumenti americani, medioorientali ed egiziani, colpisce il fatto che anche l'architettura bretone e celtica, trovi i suoi corrispettivi in Giappone. Nella foresta di Nabeyama sono stati rinvenuti, sempre nel 1996, due Menhir affiancati, elementi del tutto sconosciuti alla cultura giapponese. Si è appurato che i megaliti dell'antica cultura neolitica europea e bretone in particolare avevano lo scopo di segnalare, come un vero calendario, i principali eventi astronomici, dalle eclissi ai solstizi, e su questi le popolazioni scandivano il loro ritmo di vita. Gli studiosi di paleoastronautica sapranno che il tempio megalitico bretone di Stonehenge ha un'origine ancora oscura e la sua data di costruzione viene continuamente anticipata. Anche in Egitto è stata scoperta, proprio quest'anno, una struttura simile, risalente al 7000 a.C., formata da monoliti di 3,6 metri di diametro e oltre 2 metri d'altezza disposti in circolo e perfettamente allineata nordsud, estovest e con il solstizio d'estate. Il fatto che queste costruzioni siano presenti in luoghi così distanti e in tre continenti differenti, Asia, Europa ed Africa, riconduce alle stesse ipotesi formulate per le costruzioni piramidali nipponiche. Una cultura sviluppata ha agito da impronta a livello planetario in un lontano passato, per poi sparire improvvisamente.

    La radice comune

    Se queste costruzioni si trovassero in Perù o in Bretagna, nessuno avrebbe dubbi sulla loro origine. Che significato dare a queste perfette corrispondenze? La risposta deve per forza di cose considerare che America, Asia ed Europa furono in un lontano passato legate da una cultura estremamente evoluta. La presenza in terra giapponese di questo tipo di architettura conferma che Atlantide deve essere realmente esistita e che essa estese il suo dominio anche in Estremo Oriente o quanto meno influenzò con la sua conoscenza le popolazioni vicine. È un dato di fatto che sta emergendo con forza grazie alle nuove scoperte, molto più di quanto ancora gli archeologi siano pronti ad ammettere. Come si spiegherebbe altrimenti l'esistenza in Giappone di elementi estranei alla cultura estremo orientale, ma perfettamente inseribili in contesti culturali così lontani quali quelli precolombiani, medioorientali ed europei? Se il Giappone nella sua storia conosciuta mai venne a contatto con queste popolazioni, dove va cercata la radice comune? Probabilmente in una realtà cancellata dalle acque devastatrici di una catastrofe di 10.000 anni fa, che solo ora sta restituendoci un'antica memoria storica sepolta nel buio dei secoli.

    La Lemuria di Francis Drake

    Che il Giappone facesse parte, migliaia di anni fa, di un antico impero scomparso, era già stato ipotizzato nel 1968 da W. Raymond Drake nel suo libro Spacemen in the Ancient East, in cui il Sol Levante viene inserito all'interno dei continente di Lemuria. Drake scrive che i primi coloni del Giappone erano uomini di razza bianca, custodi della conoscenza lemuriana. La bandiera del Sole nascente, simbolo dei Giappone, rappresenterebbe ancora il sacro simbolo di Lemuria. "Come gli lndù, i Cinesi e gli Egiziani, i Giapponesi hanno avuto ben dodici dinastie di imperatori divini afferma Drake che hanno regnato per 18.000 anni, suggerendo una dominazione di origine cosmica. Gli etnologi concordano sul fatto che i primi antenati dei Giapponesi erano uomini bianchi che soggiogarono gli autoctoni Ainu, oggi quasi dei tutto scomparsi, iniziando così la stirpe Yamato. Analisi linguistiche suggeriscono che la lingua giapponese ha affinità con il babilonese". Ciò conferma che non sono i soli monumenti a fornire le tracce di una radice culturale comune di epoca antidiluviana tra le popolazioni dell'antichità.

     
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  12. la sirenetta
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    Stonehenge

    E' una località dello Wiltshire (Inghilterra) in cui sorge un monumentale complesso megalitico dagli scopi sconosciuti. Tempio di antichi sacerdoti, costruzione magica di mago Merlino, edificio innalzato da extraterrestri: sul famoso monumento megalitico sono state fatte mille ipotesi.

    La più accreditata è che fosse un sofisticato osservatorio astronomico. Viaggiare nel tempo, scoprire i segreti dei popoli antichi, rappresenta da sempre una delle cose che più hanno affascinato, Stonehenge è uno di quei siti che tutti vorrebbero "capire". Attualmente sono varie le ipotesi scientifiche circa la funzione del più importante e famoso monumento megalitico del mondo: era un centro di riti religiosi o funebri? Un osservatorio astronomico? Inoltre chi lo costruì? Come e quando? Si è calcolato che fu iniziato a costruire circa nel 5000 a.c. e la leggenda vuole che siano stati una tribù di giganti dell'Africa provenienti dall'Africa. L'ipotesi religiosa lo vede come un tempio dei Druidi, la classe sacerdotale celtica, e ancora oggi i membri di una setta inglese, vi compiono riti misteriosi la notte del solstizio d'estate.

    Nella realtà, il monumento è stato costruito probabilmente nell'arco di circa mille anni, e su vari livelli concentrici comprendente 30 monoliti alti da 4,5 a 7,5 metri del peso di 45 tonnellate l'uno, più altri massi del peso variabile. La cosa che fa pensare è che parecchi di questi massi provengono da cave distanti anche 320 chilometri da Stonehenge ossia da Prescelly Mountains. Decine di studiosi si sono cimentati, in particolar modo negli ultimi due secoli, di svelare i misteri di Stonehenge senza risultati estremamente rilevanti. Sappiamo chi ha innalzato la struttura e quando, sul perché restano ancora molti misteri.

    Si presume fosse un gigantesco 'computer' di pietra che permetteva complicati calcoli astronomici, e si sia trasformato successivamente in un monumento o in un luogo di culto, quando l'osservazione del cielo non ha più avuto l'utilità pratica delle origini. Gli uomini di Stonehenge riuscivano a prevedere le eclissi.

    Come potevano gli astronomi neolitici all'oscuro della teorica del moto della Luna e del Sole, riuscire a prevedere il verificarsi delle eclissi? Mistero. Una spiegazione potrebbe venire dai suggestivi tramonti a Stonehenge; la particolare disposizione dei monoliti e triliti crea insoliti giochi di ombre sulle rocce e sul terreno circostante. Gli archi che compongono i vari cerchi concentrici, infatti, sono tutti rivolti verso il Sole o le costellazioni, ed è proprio in base alle ombre proiettate dalle pietre che gli antichi riuscivano a prevedere eventi astronomici come le eclissi. Un sistema alquanto sofisticato per l'umanità del 5000 a.c.

     
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  13. la sirenetta
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    I nostri antenati più antichi

    Il Ministro della Cultura etiope ha rivelato che alcuni paleontologi hanno scoperto una mascella e 6 denti di un ominide preistorico chiamato Ardipithecus Kadabba nel nordest del Paese.
    I sei denti primitivi appartenevano a individui differenti e mostrano che l'Ardipithecus kadabba era la prima specie del suo genus e potrebbe rappresentare la prima specie del ramo ominide, nata subito dopo la spaccatura evolutiva formatasi tra le linee genetiche che avrebbero dato vita alle scimmie e agli uomini, ha dichiarato il ministro in un recente comunicato. I denti fossilizzati sono stati rinvenuti nel 2002 dal Middle Awash Paleontological Research Project nella località di Asa Koma (collina rossa in amarico), lungo il margine occidentale del medio Awash, a 289 km da Addis Abeba.
    Nel sito di Asa Koma erano già stati rinvenuti un frammento di osso del braccio e un altro dente della stessa specie nel 2000 dal dottor Yohannes Haile-Selassie del Museo di Storia Naturale di Cleveland.
    I denti scoperti ultimamente, un canino superiore, premolari di entrambi le mascelle e molari superiori, sono stati estratti da depositi di roccia vulcanica datata con il metodo Argo/Argo tra i 5,54 e i 5,77 milioni di anni.
    Stando a quanto è scritto nel comunicato, i denti evidenziano un'evoluzione degli ominidi primitivi e hanno aiutato gli scienziati a differenziare le specie primitive o più tarde del genus Ardiphitecus. La denominazione Ardipithecus kadabba venne data a questa specie nel 2001, classificata come una sottospecie più antica dell'Ardipithecus ramidus. Le sottospecie più giovani avevano già ricevuto un nome scientifico nel 1994 ed erano state datate a 4,4 milioni di anni fa.

     
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  14. la sirenetta
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    Sugli altipiani del nord del Peru', a 4000 metri di altezza, all'estremità sud-est del lago Titicaca, si stendono molti ettari di rovine: quelle di Tiahuanaco .

    Vi sono molte piramidi tronche, enormi monticelli artificiali, una piramide a gradini di 15 metri di altezza, monoliti, vaste piattaforme di pietra, il tutto al di sopra di stanze sotterranee.

    Che popolo abitava l'antica città di Tiahuanaco ?

    Il monumento piu' impressionante di questa antichissima città è la Porta del Sole .

    Alta 3 metri e larga 6, tagliata in un unico blocco di pietra di 100 tonnellate, è decorata da 48 figure divise in tre file che circondano uno strano personaggio che gli Andini chiamano "dio".

    Tutte le rovine di Tiahuanaco sono proporzionate alla Porta del Sole. La sovrapposizione di blocchi di e di 60 tonnellate forma dei quadrilateri, tenuti insieme gli uni con gli altri con cerniere di rame. Le lastre di pavimentazione di 5 metri , tagliate in un solo blocco di pietra, i pilastri di pietra qua e là spezzati e sparpagliati nella pianura mettono in difficoltà gli archeologi: chi ha potuto costruire questi monumenti ?

    Le immense statue trovate sul posto rendono ancora piu' affascinante il mistero di questa città. Infatti, a parte le vaste proporzioni, esse non hanno tra loro alcun punto in comune, anzi presentano una varietà di razze impressionante: una rappresenta un tipo negroide dalle labbra carnose e il naso schiacciato, un'altra un tipo dai tratti europei, le labbra sottili e il naso diritto. Quale razza popolava dunque l'antica città di Tiahuanaco ?

    La città era già in rovina quando arrivarono gli spagnoli, o comunque completamente disabitata e abbandonata. Le testimonianze dei cronisti dell'epoca ci descrivono Tiahuanaco com'era nel XVI secolo.

    La testimonianza dei conquistatori spagnoli.

    Garcilaso de la Vega scrive: "L'opera piu' bella è una collina costruita dagli abitanti della città che hanno voluto copiare la natura. Per impedire alla massa di terra di sfaldarsi, avevano costruito come fondamenta enormi muraglie rinzaffate alla perfezione...da una parte, vediamo due giganti di pietra con copricapo e lunghi mantelli... molte delle mastodontiche porte sono state costruite in un solo blocco ".

    Diego d'Alcobaca : "In mezzo agli edifici di Chuquiyutu ( altro nome di Tiahuanaco) sul bordo del lago, vi è una piazza di metri di lato e su un lato di questa piazza c'è una sala coperta, lunga 14 metri. La piazza e la sala formano un solo insieme e questo straordinario capolavoro è stato scavato nella roccia. Ancora oggi vi si possono vedere delle statue che rappresentano uomini e donne, cosi' perfette da sembrare vive. Alcune figure sono nell'atteggiamento di gente che beve, altre hanno l'aria di essere sul punto di attraversare un ruscello e altre ancora sono donne che porgono il seno ai loro bambini".

    Jimenez de la Espada : "Si puo' ammirare un palazzo che è la vera ottava meraviglia del mondo. Pietre lunghe 37 piedi e larghe 15 sono collocate in modo che si incastrano le une nelle altre senza che si possano vedere i raccordi".

    Cieza de Leon : "In un gigantesco palazzo... vi è una sala lunga piedi e larga 22, con un tetto costruito come quello del tempio del sole di Cusco. Questa sala ha molte porte e finestre. La laguna bagna i gradini che portano nell'atrio. Gli indigeni dicono che si tratta del tempio consacrato a Viracocha, il creatore del mondo".

    Le rovine risalgono a prima dell'arrivo degli Inca.

    Cosa ancora piu' strana, l'abbandono di Tiahuanaco è molto anteriore all'arrivo degli Spagnoli:

    "Sembra pressoché certo ". scrive il professor Poznansky, "che quando gli imperatori inca invasero la Bolivia, trovarono queste rovine nello stato in cui le trovarono a loro volta gli Spagnoli qualche secolo piu' tardi. i nuovi padroni del paese entrarono in una città completamente deserta, in cui le strade meravigliosamente pavimentate, le piazze pubbliche, i magnifici edifici, i templi e i resti degli acquedotti testimoniavano da soli la grandezza passata e lo splendore della civiltà che regnava un tempo sulle rive del lago Titicaca. Tra le rovine, si potevano ancora vedere mucchi di pietre squadrate e già pronte per la costruzione di nuove case. Gli Spagnoli restarono a loro volta meravigliati nel vedere questi enormi blocchi di granito di cui alcuni pesavano da 60 a 200 tonnellate, ma quello che li lascio' ancor piu' sbalorditi fu il vedere, nelle costruzioni ancora in piedi, questi monoliti tenuti insieme da zanche d'argento di dimensioni cosi' considerevoli che alcune pesavano centinaia di chili.

    Le rovine di Tiahuanaco comprendono numerosi edifici preistorici, di cui il piu' interessante è il Tempio del Sole, con il suo maestoso porticato. Il tempio si erge, gigantesca piramide tronca, ad un'altezza di circa 40 metri.

    Non di minore interesse è l'unica statua ancora intatta, chiamata dell' Uomo barbuto ".

    Secondo l'archeologia classica due sono le epoche in cui si puo' suddividere questa civiltà : Tiahuanaco I°, precedente all'età Cristiana; Tiahuanaco II°, che avrebbe conosciuto il suo apogeo tra il 500 e il 1000 dopo Cristo e che avrebbe poi avuto una completa decadenza prima dell'arrivo degli Inca. Ma in cosa consiste questa civiltà ! E' ben difficile dirlo, dal momento che si tratta, nel senso proprio del termine, di una civiltà "preistorica", cioè che non ha lasciato tracce scritte.

    " Terra dei guanaco " ?

    " Città eterna degli uomini-sole " ?

    Il primo problema che si pone riguarda il nome stesso di Tiahuanaco. Che cosa significa? Forse sono stati gli Spagnoli a darle questo nome: tierra huanaco, cioè la "terra dei Guanaco ". O forse sono stati gli Inca, secondo la tradizione riportata da padre Bernabè Cobo: "gli abitanti di Tiahuanaco raccontano che la città si chiama cosi' perché l'Inca vi si trovava quando arrivò un corriere con una rapidità straordinaria. Avendolo saputo, l'inca volendo rendergli onore, lo paragonò a un Guanaco animale della regione che corre molto velocemente... La città conservò il nome di Tiahuanaco".

    Ma esistono ben altre etimologie possibili : Titi Wanako, "la città del Guanaco di stagno", il Guanaco di stagno era l'emblema degli Aymara, " a ricordo del lama bianco, primo animale sfuggito al diluvio"; Tiha-Huana-Cota, "il luogo dove è rimasto in secco il lago"; TiaI-Huanabko, "il paese sotto l'acqua del dio onnipotente", Intiwa-Wan-Hake, "la città eterna degli Uomini-Sole"; Tihuana, "pietra tolta" e Co, "acuqa"; Ti-Wa-Na-Co, " luogo dove si congiungono la terra e l'acqua"; la lista potrebbe continuare all'infinito.

    Ma molto spesso in tutte queste ricerche etimologiche o leggendarie si ritrovano il tema dell'acqua; non bisogna dimenticare infatti che il lago Titicaca è molto vicino. E la sua acqua è salata !

    " In seguito ci si è resi conto che queste rovine risalgono a prima del diluvio "

    Altre testimonianze sorprendenti vengono a complicare ancora questo strano problema acquatico!

    Cosi' un prelato spagnolo del XVII secolo racconta questo aneddoto ( bisogna precisare che le "pietre inca" di cui parla sono quelle di Tiahuanaco ): " All'epoca della costruzione del ponte di San Francisco ", racconta il vescovo Antonio del Castro Y Castillo in visita alla diocesi paceno nel 1650, "quando l'acqua arrivava alle porte del convento e si temeva che avrebbe potuto causare gravi danni i vicini e i religiosi, vedendo che le pietre inca erano cosi' belle, regolari, e ben squadrate, decisero di utilizzarle per la costruzione del ponte. Ma non ce n'erano a sufficienza e i religiosi ne furono molto afflitti. "Frugarono il terreno intorno alle rovine, ma invano. Disperato, uno di loro, mentre diceva la messa il 4 ottobre, supplicò il cielo di lasciargli scoprire le pietre necessarie per terminare un'opera cosi' importante per la regione e la città. Quindi si mise a scavare la terra. A tre metri di profondità, portò alla luce tanti di quei blocchi che ce ne furono abbastanza non solo per finire l'opera ma per farne altre e per costruire una chiesa molto piu' grande".

    E il vescovo conclude: "Se ne deduce che se Tiahuanaco fosse stata opera degli Inca, come si credeva all'inizio, le pietre non avrebbero potuto essere interrate cosi' profondamente... In seguito ci si è resi conto che queste rovine risalgono a prima del diluvio".

    Ora, di questo diluvio le leggende peruviane parlano molto lungamente. Nel 1574 dopo un giro nel paese, un prete, padre Josè de Acosta, raccontava: "In questa provincia non si parla che del diluvio, senza che ci si possa definire se si tratti del diluvio universale di cui narrano le Sacre Scritture o di qualche inondazione particolare della regione abitata dagli Indiani. Per quanto mi riguarda ", nota Acosta, " sono del parere di coloro che pensano che i resti e le tracce di questo diluvio non sono quelli del diluvio di Noè, ma di un altro, come quello di cui parla Platone o ancora quello cantato dai poeti di Deucalione".

    Duemila anni fa esistevano ancora i mastodonti.

    Ma quando sarebbe avvenuto questo diluvio ? per spiegare la costruzione di Tiahuanaco e il trasporto di queste pietre gigantesche, si puo' supporre per esempio che il diluvio abbia coinciso con un innalzamento delle terre, capace di portare a migliaia di metri di altezza una città che era un tempo molto piu' bassa.

    Teoria difficile da sostenere per persone ragionevoli, in quanto i geologi sanno datare con grande precisione questo genere di fenomeni, che risalgono a centinaia di migliaia, e anche a milioni di anni...

    L'ipotesi sarebbe scientificamente da escludere. Tuttavia altri fatti tenderebbero a confermarla: sulla costa peruviana, nel 1920, un professore, Julio tello, ha scoperto dei vasi decorati con figure di lama.

    Questo animale è molto frequente in tutta la regione, niente quindi di apparentemente strano in questo ritrovamento. Ma un esame attento ha rivelato che gli zoccoli di questi lama erano disegnati con cinque dita... mentre i lama attuali hanno lo zoccolo diviso solo in due parti. I paleontologi sanno che nel corso dell'evoluzione, molti secoli fa, sono esistiti dei lama a cinque dita e effettivamente in questa regione sono stati scoperti scheletri di lama a cinque dita.

    Questo non significa per forza che essi risalgono a milioni di anni fa, ma che, a causa di qualche ragione climatica, essi hanno resistito all'evoluzione in questa regione del mondo. Nello stesso modo, è stato quasi provato che fino a solo 2000 anni fa vi erano ancora i mastodonti, cioè elefanti giganteschi come i mammut, nella valle dell'Equatore...

    Dal 1928 al 1937, l'archeologo tedesco Kiss ha pero' studiato una statua stilizzata di Tiahuanaco che rappresenta un toxodonte, animale le cui ossa fossili sono state scoperte nella regione e che ha potuto vivere solo nel terziario.

    All'epoca della creazione del mondo

    Per questo non ci deve meravigliare che alcuni abbiano creduto che Tiahuanaco risalga molto in là nel tempo. Queste ipotesi sono tutte ispirate dal celebre teorico nazista della "terra vuota" Hans Horbiger, il quale riteneva che Tiahuanaco fosse stata fondata e abitata da giganti e che fosse la piu' antica del mondo, già esistente almeno 100.000 anni fa.

    I resti e le leggende Inca, se sollecitate con un po' di immaginazione, possono dare corpo a queste folli teorie. Per esempio, Gonzales de la Rosa commenta cosi' un manoscritto inca, tradotto nel XVI secolo dall'interprete Catari, sull'origine di Tiahuanaco:

    "Il nome originario di Tiahuanaco era Chucara. La città era completamente sotterranea e in superficie non c'era che il cantiere per tagliare le pietre e il villaggio degli operai.

    "La città sotterranea darebbe la chiave di una straordinaria civiltà che risale a tempi lontanissimi".

    Alla città si accedeva attraverso molte entrate, che furono viste dal grande naturalista francese Alcide d'Orbigny e dai viaggiatori Tsogudi, Castelanu, Squier, i quali parlano di gallerie scure e fetide che sboccavano nella cinta di Tiahuanaco.

    Questa città sotterranea era stata costruita per permettere agli abitanti di trovarvi una temperatura piu' clemente, cosa che prova con certezza che l'altitudine non è cambiata.

    Vicino al lago Titicaca si ergeva un palazzo di cui non rimane piu' nessuna traccia, dal momento che la sua costruzione risalirebbe, secondo i testi, all'epoca "della creazione del mondo".

    Il primo signore di Chucara, che significa "Casa del Sole", si chiamava huyustus; egli aveva diviso il globo in molti reami. Gli ultimi abitanti di Chucara non sono stati gli Aymara, ma i Quechua.

    A Tiahuanaco, i morti venivano sepelliti coricati. Nelle isole del lago viveva una razza bianca e barbuta.

    Nell'era dei tapiri giganti vivevano esseri umani palmati...

    Nelle Ande vive un personaggio curioso, Beltran Garcia, discendente del grande scrittore ispano-inca Garcilaso de la Vega e rinnovatore della religione inca del Sole.

    Quest'uomo afferma di possedere molti documenti sulla fondazione di Tiahuanaco, che ha ereditato dal suo antenato.

    ecco il primo di questi testi, commentato da Garcia:

    "Gli scritti pittografici di Tiahuanaco dicono che, nell'era dei tapiri giganti, certi esseri umani molto evoluti, palmati e con sangue differente dal nostro, provenienti da un altro pianeta, trovarono di loro gradimento il lago piu' alto della Terra. Nel corso del loro viaggio interplanetario, i piloti lanciarono i loro escrementi senza atterrare e diedero al lago la forma di un essere umano coricato sul dorso. Essi non dimenticarono l'ombelico, luogo dove si poserà la nostra prima Madre, incaricata dell'inseminazione dell'intelligenza umana.

    Questa leggenda ieri ci avrebbe fatto sorridere.

    Oggi i nostri uomini rana copiano artificialmente le dita palmate dei coloni di Tiahuanaco.

    Gli indigeni andini vivevano ad altitudini nelle quali un bianco non avrebbe potuto acclimatarsi, e questa è la prova che può esistere un altro sangue. Con i loro potenti telescopi, i visitatori siderali cercano quindi un'altitudine e un lago favorevole al loro organismo e alla loro vita anfibia.

    Il significato di "escrementi" potrebbe essere: una cosa spinta fuori dall'aeronave per modificare i contorni del lago: forse la bomba atomica?

    Da notare che per rovinare la tradizione e discreditare il lago nell'animo degli Andini, le carte geografiche, lo raffigurarono fino al 1912, con una forma quasi rotonda. Al nome legittimo di Titi ( lago del mistero del sole) venne aggiunto il suffisso caca che, in molte lingue significa escremento.

     
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  15. la sirenetta
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    ASSIRI

    Popolazione semita del gruppo degli AMORRITI, giunta in MESOPOTAMIA settentrionale intorno al 25° secolo a.c. presero questo nome dalla loro importante città-Stato ASSUR; famosi come spietati guerrieri si imposero, battaglia dopo battaglia su tutta la BABILONIA, sconfiggendo SUMERI, CALDEI e ARAMEI, da cui adottarono le civiltà e ufficializzarono la lingua ARAMAICA come LINGUA DIPLOMATICA nell'IMPERO ASSIRO ( 1115-606 a.c. ), che nella sua massima estensione comprese le coste del MAR NERO, la SIRIA, la MESOPOTAMIA, la MEDIA, la FENICIA, la PALESTINA e l'EGITTO.
    L'ultima Capitale NINIVE cadde nel 612 a.c. con il resto dell'Impero ( ASSUR, KALKHU, KHARRANU, NIMRUD, KHORSABAD ) intorno al 606 a.c. per mano della coalizione CALDEI ( BABILONESI ) + MEDI, che distrussero i principali centri di potere ASSIRI, ma tuttavia sopravvissero le loro culture e le loro divinità, la rigida educazione di questo popolo creerà non pochi problemi ai Regni successori.

    La storia degli ASSIRI si divide in tre periodi:
    ANTICO ASSIRO o PALEO ASSIRO (2500-1115 a.c.) - L'insediamento principale fu ASSUR (ASHSHUR ) la vecchia Capitale e NINIVE la seconda grande città.
    MEDIO ASSIRO (1115-721 a.c.) - Nascita dell'IMPERO ASSIRO, l'espansione e la decadenza.
    NEO ASSIRO (721-606 a.c.) - Periodo di rinascita legato alla dinastia SARGONIDE nella nuova Capitale NINIVE.
    Nel 2500 a.c. circa, gli ASSIRI fondano le loro roccaforti ASSUR e NINIVE, espandendo il dominio nelle terre confinanti per due secoli, poi gli ACCADI guidati da Re SARGON sconfissero gli eserciti ASSIRI e presero il controllo del territorio fino al 2100 a.c., seguirà un secolo di dominazione SUMERA tra il 2100-2000 a.c. interrotta dalla rivolta guidata dal Re ASSIRO PUZUR-ASSUR 1°, che darà vita alla propria dinastia fino al 1813 a.c. seguita dal regno di Re SHAMSHI-ADAD ( 1813-1781 a.c.).
    La pressione NEOBABILONESE di Re HAMMURABI prende il sopravvento nel 1764 a.c. mentre i MITANNI ( tribù HURRITE, filoegiziane ) influenzeranno l'intera area dal 1605 al 1365 a.c.
    Il feroce Re ASSURUBALLIT 1° ( 1365-1330 a.c. ) rilancerà l'offensiva ASSIRA, creando il nuovo modello di guerriero sanguinario senza pietà, autore di stragi e deportazioni di massa, terribili soluzioni che cambiarono il modo di fare la guerra e consolideranno le nuove ideologie sulla razza pura, il paradosso degli ASSIRI fu che oltre a sviluppare un'incredibile strategia militare, curarono opere intellettuali comprese la matematica, l'astronomia, la scienza, la letteratura e i testi sacri, senza scordare una variante personale dei modelli architettonici SUMERI, questo popolo volle elevarsi a casta prioritaria, toccando gli estremi tra l'intelletto divino e la bestialità del soldato perfetto.
    Questi spietati guerrieri si spinsero a sud verso BABILONIA, con i vittoriosi Re ADAD-NINARI 1° (1307-1275 a.c.), SALMANASSAR ( 1274-1245 a.c. ), TUKULTI-NINURTA ( 1244-1208 a.c. ) conquistò BABILONIA e TIGLAT-PILESER 1° ( 1115-1074 a.c. ) venne definito come il primo IMPERATORE ASSIRO che regnò su tutta la MESOPOTAMIA e la SIRIA fino le coste del MAR NERO. Alla sua morte, il Regno cominciò una lenta decadenza fino al periodo NEO ASSIRO, interrotta per poco da Re ASSURNASIRPAL 2° ( 884-858 a.c. conquista e consolidamento ), SALMANASSAR 3° ( 859-824 a.c. ) soffocò le rivolte in PALESTINA e in FENICIA, ADAD-NIRARI 3° ( 810-782 a.c. ) prese DAMASCO e continuò l'assedio delle città FENICIE, TIGLATPILESER 3° ( 744-727 a.c. ) riconquistò parte dei territori perduti, riprendendo tutta la SIRIA e la PALESTINA.
    Nel periodo NEO ASSIRO, Re SARGON 2° ( 721-705 a.c. ) inaugura una nuova fortunata dinastia detta SARGONIDE, il cui figlio SENNACHERIB ( 680-669 a.c. ) si dedicò a spegnere le continue rivolte in PALESTINA e nell'ELAM, spostando a NINIVE la Capitale dell'Impero.
    Re ASARHADDON (680-669 a.c.) si spinse in EGITTO, ma fu il successore ASSURBANIPAL (668-627 a.c.) a completare l'opera, inoltre egli sconfisse anche il rivale fratello di BABILONIA, concludendo l'ascesa del Regno, che alla sua morte, ricominciò a decadere fino allo scontro definitivo con la coalizione CALDEI (BABILONESI) + MEDI.
    Le loro grandi città monumentali, riprendevano l'architettura BABILONESE in chiave personale, e notevoli sono i loro i giganteschi rilievi decorativi con le scene di caccia al leone e di guerra, le loro opere riportano una cura maniacale dei particolari esaltando gli eroi ASSIRI.
    L'amministrazione e l'economia ASSIRA, si reggevano sul commercio (favorendo lo sviluppo dell'artigianato e del materiale bellico) e sul saccheggio delle popolazioni sconfitte. Le città possedevano un centro amministrativo-commerciale che dipendeva direttamente dal palazzo del Re nella Capitale dell'Impero, le merci più scambiate furono il piombo, stagno, rame , stoffe, pietre preziose, mentre i pagamenti avvenivano in barrette d'oro o d'argento oppure con relativo valore in rame o stagno.
    La divinità più diffusa fu il Dio ASSUR protettore degli ASSIRI, poi nei secoli con le molte influenze culturali, arrivarono le divinità BABILONESI come la Dea ISHTAR patrona dell'amore e della guerra (corrispondente ad un' incrocio fra ATENA e AFRODITE), ANU il Dio del cielo, ADAD il Dio dei fenomeni metereologici, NABU il patrono dei scribi, SHAMASH il Dio della giustizia, SIN la Dea della luna.
     
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