E questa la sapevi?!

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  1. la sirenetta
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    bimbo con giornale
    Ci sono informazioni, fatti e situazioni particolari che qualche volta ci sfuggono, ma che possono essere interessanti o farci riflettere e spesso anche sorridere.
    Così qui in questo topic possiamo inserire qualcosa che ci ha colpito, di vario genere.
    Purchè siano informazioni o fatti che non siano da catalogare nel profilo della cronaca, gossip, sport, news, salute, sexi, letteratura eccc.

    Cose particolari, ma di interesse comune anche se anomale.

    Inizio con questa...

    Troppo ricco per trovare moglie?
    In Cina adesso ti aiuta un club


    Magnati cinesi e super ricchi, completamenti assorbiti da affari e carriere, non hanno tempo per trovare l'anima gemella. Che fare? Rassegnarsi a una vita lussuosa e solitaria? Neanche per sogno, arriva in loro aiuto il Cecs (China Entrepreneurs Club for Singles) creato a Guangzhou, la ex Canton, per aiutarli a trovare moglie.

    Appena nata, questa "agenzia per cuori solitari" ha già visto l'iscrizione di oltre 2.700 giovani ragazze, secondo quanto riporta la stampa locale, speranzose di travare presto un ricco marito o quanto meno avere la possibiltà di accedere all'intervista iniziale.

    Funziona così. La società che ha creato il club chiede a chiunque voglia trovare moglie di pagare una retta annuale di 200.000 yuan (oltre 25.000 euro). Requisiti di base sono l'essere single, avere più di 30 anni e un patrimonio in beni personali di almeno 100milioni di yuan. Mentre per le aspiranti mogli la brochure promozionale dell'evento richiede dolcezza, semplicità e innocenza; le ragazze devono inoltre avere poche esigenze materiali e «minimi rapporti precedenti». Sembra infatti che molti tra i ricconi aspiranti mariti abbiano richiesto espressamente di trovare una donna vergine.

    «Questi uomini sono alla ricerca di buone mogli - ha detto Wendy Dai, consulente del Cecs - non cercano solo belle facce, vogliono seriamente sposarsi». Un magnate di 32 anni iscritto al club ha infatti rivelato di avere avuto molte belle donne ma di non aver intenzione di sposare nessuna di queste in quanto come sua moglie e madre dei suoi figli è alla ricerca solo di una «brava donna».

    Edited by Tauré - 4/5/2015, 19:40
     
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  2. *Sjiofn*
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    casalingo01g

    Niente divorzio se lui fa le pulizie

    Se volete salvare un matrimonio ed evitare il divorzio convincete il marito a svolgere almeno una parte dei lavori domestici. Il consiglio viene da una imponente indagine condotta da Wendy Sigle-Rushton, una ricercatrice del «Department of Social Policy» della London School of Economics.

    Lo studio ha analizzato i comportamenti di oltre 12 mila famiglie inglesi con figli e le ha catalogate in base ad alcune variabili tra le quali il fatto che la moglie svolga un lavoro remunerato all'esterno della famiglia e che il marito dia il proprio contributo ai lavori domestici. L'indagine ha studiato i comportamenti del campione di famiglie per oltre dieci anni. E si è così ricostruita la propensione al divorzio di ciascun modello di famiglia. Gli studiosi inglesi hanno ritenuto necessario precisare che cosa si intenda per aiuto domestico da parte del marito e hanno descritto quattro compiti considerati rilevanti: 1) la collaborazione alla pulizia della casa o alla spesa; 2) l'aiuto nella cura dei figli mentre la madre è impegnata; 3) la cura dei figli la sera; 4) il fatto di mettere i figli a letto la sera. Le famiglie sono state quindi catalogate in base al numero di compiti domestici svolti dal marito durante il giorno. Un rilievo particolare è stato dato all'attività del padre che si occupa dei figli mentre la madre è al lavoro. Si tratta dunque di attività che nel modello tradizionale di famiglia venivano sempre compiute dalla madre. Sono rilevanti lavori come preparare la tavola per il pranzo, passare l'aspirapolvere, rifare i letti, oltre a tutto ciò che riguarda la cura dei figli. Non vengono invece presi in considerazione altri compiti domestici, che invece frequentemente sono svolti dai mariti, come i lavori straordinari di manutenzione della casa, la riparazione di oggetti o l'acquisto di beni particolari di uso non quotidiano.

    I risultati di questo lavoro sono sorprendenti. Fino agli anni ‘80 del secolo appena concluso si affermava infatti che solo la «specializzazione di genere» fosse un fattore di «stabilizzazione del matrimonio». È un modo per dire che maggiore è l'impegno delle donne in un lavoro remunerato all'esterno della famiglia, maggiore è il rischio di divorzio. Questa opinione trova effettivamente conferma nell'indagine inglese, ma è emerso che coesiste anche un fattore che opera in una direzione opposta: le probabilità di divorzio diminuiscono sensibilmente nelle famiglie in cui vi è una forte propensione del marito a svolgere più di uno dei quattro compiti domestici considerati. La propensione al divorzio subisce un'ulteriore drastica diminuzione se il marito si occupa dei figli mentre la moglie è impegnata nel suo lavoro remunerato all'esterno della famiglia. Ciò significa che, se i coniugi sono intercambiabili nello svolgere i compiti domestici, la famiglia è più solida.

    Insomma, secondo gli inglesi, se il matrimonio va a rotoli la colpa è spesso del marito che non aiuta. Il lavoro e i numeri della ricerca inglese trovano conferma anche nell'esperienza quotidiana dei nostri tribunali. Il tradimento non sembra essere più la prevalente causa delle separazioni. Il matrimonio finisce senza che accada un fatto eclatante, ma semplicemente perché la vita assieme è troppo difficile e complicata. Se la moglie lavora, non sopporta di non essere aiutata a casa proprio in quelle attività tradizionalmente considerate femminili. Nei ricorsi per separazione presentati dalle signore (che sempre più spesso assumono l'iniziativa di rivolgersi al giudice) sono frequenti i racconti di mariti che la sera, invece di riordinare la cucina e mettere a letto i figli, escono con gli amici. Una signora, nel corridoio di un tribunale, ha detto al suo avvocato: «Per mio marito la partita di calcetto è sacra e la palestra è una priorità» e ha aggiunto, più rassegnata che addolorata, «faccia un po' quello che vuole!».

    Le statistiche inglesi però non dicono una cosa. I pessimi mariti, dopo la separazione, talvolta diventano ottimi padri. Combattono per avere i figli durante la settimana e non solo per il week-end, per averli più tempo possibile durante le vacanze. Sono disposti a perdere una serie infinita di partite di calcetto pur di stare qualche ora con i loro bambini ed escono persino prima dal lavoro per andarli a prendere a scuola un pomeriggio alla settimana. Della serie: meglio tardi che mai.

     
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  3. la sirenetta
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    Zitti, zitti: ascoltate il silenzio

    tumblr_lrimxbMi561qbp4lq

    La moda americana delle feste a zero decibel (silent party e mutus party) arriva anche in Italia, dove è nata l'Accademia del Silenzio.
    Il progetto è di Duccio Demetrio (professore di Filosofia dell'educazione e di Teorie e pratiche della scrittura all'Università di Milano-Bicocca) e Nicoletta Polla-Mattiot giornalista.
    Una scelta di vita contro l'inquinamento acustico, contro l'inquinamento esistenziale. «Silenzio è non farsi distrarre dai rumori, riconciliarsi con i sensi, è parlare e pensare senza che la voce sia indispensabile - spiega Duccio Demetrio -.

    Se crederò di aver trovato finalmente il silenzio avrò saputo ascoltare la neve». Potrebbe sembrare, ma non è una cosa da snob. Raniero Maggini, vicepresidente del Wwf Italia organizza passeggiate con i bambini per rieducarli ai suoni della natura, cancellati dal frenetico sovrapporsi delle voci, delle auto arrabbiate, delle musichette spesso assurde dei cellulari. «Portiamo la gente a sentire il canto degli uccelli notturni e ogni volta vedo la meraviglia. Ma attenti, il silenzio non è il punto di partenza, è il punto d'arrivo. E' una conquista, è lo strumento che ci permette di ascoltare. Io lo cerco lungo i fiumi: la voce dell'acqua mi aiuta a riflettere e mi regala momenti di felicità». No, niente intellettualismi.

    «Non penso al silenzio come a una vacanza, un lusso per pochi, un'eccezione, un privilegio, ma come un'esperienza possibile nel tempo nel quotidiano - dice allegra Nicoletta Polla-Mattiot - . La soluzione non è ritirarsi a meditare lontano, fuggire, ma creare oasi di quiete nei nostri uffici, nelle nostre vite». Ma perché uno si iscrive all'Accademia del Silenzio? Ecco le risposte del common people: «Per cambiare ritmo», «perché amo la conversazione tenue», «perché mi piace più l'incontro dello scontro», «per comunicare davvero», «perché le parole sono pietre e il loro assedio può diventare prigione», «perché è il silenzio è la soglia dei sogni». E poi: «Perché sono stanco di ascoltare discorsi imbecilli…».Vale la pena di pensarci su. In silenzio, naturalmente.

     
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  4. la sirenetta
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    Adhou , il vento del deserto

    arrakis

    Adhou , il vento, è il primo compagno del nomade. Porta nelle mani invisibili le nubi e l’acqua che cade, sottile, sottile. La sua vita disperata e raminga ha come sola compagna la sua voce. Tutti i tuareg fin da piccoli imparano a conoscerlo e a chiamarlo con molti nomi; e il vento risponde e questo è il loro primo gioco. È bello impararne il linguaggio e imitarne il sibilo soffiando nelle mani tenute a conchiglia. Il vento; e la sabbia, la prima cosa che il tuareg tocca, su cui impara a scrivere perché nessun tuareg è analfabeta. La madre e la nonna gli insegnano a scrivere i caratteri tifinar , simili a quelli scolpiti nel lontano Nord nei tofet cartaginesi. E il vento li cancella e la loro lavagna immensa è pronta per ricominciare.

    La sabbia impalpabile tra le pietre nere, un tempo globi incandescenti di lava, volteggiava come piccoli pianeti persi nello spazio. Quello era il vento del mattino: ne basta un soffio leggero per creare tra i sassi cascate di sabbia e dissolvere in un turbine le creste delle dune. Restavano piccole onde simmetriche: la firma del vento del mattino. Più tardi, il sole già alto, lievi folate a zig-zag creavano invece lunghe file ondulate. A sera tra le falesie diventa impetuosa corrente, piega le rocce come alberi.
    Il vento del deserto è forte, capace di inghiottire eserciti interi: quello di Cambise, il re dei re persiano in marcia verso l’oasi del dio Amon; e quello di Rommel con i carri di ferro e gli aerei, accecato come gli antichi guerrieri e i loro cavalli.

    Giuseppe Berto con il reparto in camicia nera parte da Misurata in Libia, fra canti e grida di evviva il 18 novembre 1942: sognano vittorie e avanzate, e il nastro azzurro del Nilo. Due giorni di ghibli cancellano ogni entusiasmo, annunciano ritirate e sconfitte. È così forte da modellare le pietre splendenti di cristalli. Raccontano anche loro storie meravigliose e se le getti in un pozzo mille voci escono dalla profondità della terra, dove partono le piste dirette alle capanne degli dei inferi. Nessuno, neppure i più famosi guerrieri, neppure il grande Kaossen, li ha mai percorsi tornando vivo. È il vento che ti guidava con fragore di tempesta nelle grandi traversate degli erg , incanalandosi nei corridoi di sabbia e dune alte come montagne fino a quando compariva il minareto di Agadez, irto di travi, dove regnava, nel suo palazzo a tre piani, il sultano esattore di gabelle e di decime. E a Ovest ancor più lontano fino a Timbuctù con le sue duecento moschee dove si insegnava la parola del Profeta, tante volte i tuareg l’hanno conquistata e perduta. Ancora oggi raccontano attorno ai fuochi le imprese di Hadj Omssar che nessuno ha mai visto sudare, avere caldo o freddo, e non portava armi perché lo proteggeva lo scudo di Allah. Oggi che Timbuctù è in mano a falsi profeti ci vorrebbe quel gran re che non aveva nemici perché li aveva tutti sterminati per riprendersela.

    Non conosci il deserto fino a quando non hai provato il khamsin : in arabo vuol dire cinquanta. Perché soffia ininterrottamente per cinquanta giorni. Corre e si sbriglia per i mille chilometri di dune del gran Teneré, lo fermano a Nord i picchi azzurri dell’Air, rifugio di briganti e di folli di Allah, gioca con le ossa smisurate di mostri scomparsi che copre e scopre, in un gioco infinito, lungo il corso disseccato dell’Azouak. Toglie il respiro, ha il sapore di fornace il khamsin . L’aria ardente pesa sui volti come una maschera di ferro. L’ha provato il colonnello Lawrence, con i suoi gioiosi guerriglieri, permeato dalla polvere del Nefud, l’immenso deserto sabbioso dell’Arabia settentrionale. «A mezzodì il vento soffiava quasi con la forza di un fortunale così arido da spaccarci le labbra aggrinzite e screpolarci la pelle del volto. Le palpebre divenute granulose sembravano ritirarsi nelle orbite, scoprendoci gli occhi che tentavano di sottrarsi al sole…».

    Il khamsin ti sfida, sembra mettere un impegno cosciente nella lotta contro gli uomini. Il passo del cammello accresce l’irritazione causata dalle ventate aride e non ti resta che trottare tenacemente senza mai alzare gli occhi o formulare un pensiero. Forse è per questo che un tempo dicevano che qui, nel Sahara, finiva il mondo, «l’arido nulla» dove la vita era evaporata in evi primordiali. Il deserto è più crudele dell’oceano che divora le sue vittime e non lascia tracce dei suoi delitti. Nel deserto tutto sopravvive dopo millenni: le asce di pietra, le frecce di selce e i graffiti misteriosi sulle rocce, messaggi lasciati da uomini le cui ossa sono lieve sabbia dispersa dal vento. I portoghesi si stupirono quando, doppiato il capo Bojador , scoprirono grandi foreste profumate e uomini neri. Il mondo dunque non finiva nella sabbia.

    Il deserto piace agli anacoreti, agli atleti di Cristo, ai marabutti: e il vento aiuta a vincere, nella desolata Tebaide dei mistici, la difficile «gioia della solitudine», suggerisce i segreti del sublime. Piacevano a Lamartine «le colline deserte di sabbia senza fine che si tingono d’oro ai raggi del sole la sera, dove il vento solleva nuvole di polvere infuocata… il luogo dei miei sogni e io vi verrei ogni giorno». Piaceva a Loti che il vento lo ascoltò nel deserto di Tih, il deserto degli amaleciti abitato dai più selvaggi e intrattabili tra i beduini: dalle solitudini immense e piatte come il mare, popolato di miraggi.

    A Tamanrasset, nel Sud dell’Algeria, su una montagna c’è ancora l’ultimo rifugio del marabutto bianco che parlava ai tuareg di un dio misterioso, crocifisso e risorto. Raccontano una leggenda che parla degli spiriti che vivono nel vento e di una donna che cercava legna in un greto di Itharentidjarnin e vide nascere un turbine violento, fatto di cerchi quasi perfetti di polvere, sempre più alti e veloci. Si mosse dapprima dolcemente esitando sulla direzione da prendere, poi si diresse verso mezzogiorno sibilando allegramente. La donna, incantata, lanciò sonori you-you di gioia. Il vento le si avvicinò e la ricoprì di polvere d’oro per ringraziarla di essere felice. Perché i kel es souf , gli spiriti del vento, stavano sposandosi tra loro. Ma poco dopo nello stesso luogo il fenomeno si ripetè e la donna di nuovo lanciò grida di gioia sperando nella ricompensa. Ma stavolta il vento la afferrò sollevandola a grande altezza e poi la lasciò cadere sfracellandola. «Era il corteo funebre di un vento, ti puniamo per esserti presa gioco di noi». La donna raccontò la sua sventura e morì.

     
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    sguardi_2

    Identità e relazione: "Chi sono io?"

    È possibile fare un semplice esperimento chiedendo a qualcuno di rispondere alla domanda: «Chi sei?» diverse volte in rapida successione. Ciò che frequentemente si ottiene tramite questo procedimento è una serie di definizioni in alcuni ambiti che di solito seguono una successione procedendo da caratteristiche strettamente personali a quelle sociali. Inoltre, come effetto secondario dell’esperimento, nel soggetto intervistato si assiste ad una maggior presa di coscienza delle proprie caratteristiche individuali e sociali.

    Ad esempio, un giovane dottorando in informatica potrebbe descriversi come «di bell’aspetto, simpatico, intelligente, autonomo, single con molti amici, di famiglia benestante, membro di un gruppo di ricerca in intelligenza artificiale, giocatore in un circolo di scacchi, lettore di fumetti, credente in Dio ma non osservante una particolare pratica religiosa, di idee politiche progressiste, di nazionalità italiana ma disponibile a trasferirsi per motivi di studio e lavoro all’estero».

    Identità personale e identità sociale interagiscono e si integrano tra loro, partecipando insieme a dare significato all’identità: possiamo immaginarci il nostro sé come una struttura, una rappresentazione mentale in cui le informazioni individuali concorrono alla formazione del «cuore» della rappresentazione, ipotizza Stefano Boca, ordinario di Psicologia sociale all’Università di Palermo, mentre le informazioni di carattere sociale e culturale ne costituiscono gli aspetti progressivamente più esterni.

    La risposta alla domanda «Chi sono io?» si costruisce e si modifica in modo dinamico all’interno della cornice relazionale della persona che può essere più o meno estesa e variegata muovendo dall’ambito familiare a quello più propriamente sociale (appartenenza ad una comunità locale, ad un gruppo di lavoro, religioso, politico, sportivo, e così via).

    Le relazioni sono costitutive dell’identità, ma in che modo ciò avviene? Quale ruolo rivestono le forme di riconoscimento sociale nella formazione dell’identità personale dell’individuo? Negli ultimi anni gli studi relazionali stanno assumendo importanza crescente nella sociologia contemporanea, anche italiana. Una panoramica è presentata nel volume “Relational Sociology. A new paradigm for the Social sciences” (Routledge, 2011) di Pierpaolo Donati, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, pioniere in tali ricerche (Introduzione alla Sociologia relazionale, Franco Angeli,1983; Teoria relazionale della società, Franco Angeli,1991). Gli studiosi hanno anche creato un network dedicato “Relational Studies in Sociology”, aperto ai contributi di coloro che sono interessati a queste tematiche, anche da prospettive diverse.

    Il V Seminario di Sociologia relazionale, dal titolo “Identità e relazione. Contributi teorici ed empirici di sociologia relazionale”, promosso dall’Università di Bologna (in programma il 21-22 settembre 2012 presso l’Hotel della Città di Forlì) intende indagare e comprendere in che modo e in che misura le relazioni sociali e culturali entrano nella definizione dell’identità di un soggetto. Particolare attenzione sarà data ai processi di morfostasi e morfogenesi delle identità nel contesto delle relazioni sociali tenendo conto delle diverse modalità con cui la riflessività personale, sociale e sistemica interviene sui processi morfostatici e morfogenetici.

    Verranno esplorate diverse aree tematiche: identità e relazione nella persona umana; identità e relazione nei processi di socializzazione e di educazione; identità e relazione nelle dinamiche familiari; legami di coppia e trasformazioni dell’identità; l’identità nel corso della vita e nel fine-vita; disabilità e identità; identità e relazione nei fenomeni religiosi; identità e relazione nel multiculturalismo e nell’interculturalità; consumo e identità; la costruzione dell’identità professionale tra riflessività e relazionalità; il sé e l’altro nel volontariato; identità e relazione tra umano e non-umano.

     
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    giacomo01g_1

    Mai più piedi nudi sull’erba, si torna in città

    Sembrava impossibile, ma alla fine il 3 di settembre è arrivato. Abbiamo trascorso le poche settimane di vacanze applicando tutti i sistemi psicologici difensivi: lo abbiamo dimenticato, abbiamo negato la sua esistenza, lo abbiamo rimosso, minimizzato e qualcuno si era anche convinto che nell’anno delle Olimpiadi ci fosse il 29 febbraio ma non il 3 settembre e invece, implacabile e puntuale, come tutti gli anni, è arrivato.

    Nella strada del rientro, chi in treno, chi in autostrada, abbiamo sentito la pungente nostalgia dei nostri piedi scalzi che si muovevano liberi e rilassati sulla sabbia o sul pavimento di casa; abbiamo lasciato il pantalone lungo abbandonato nell’armadio e al suo posto abbiamo indossato costumi da bagno a pantaloncino in ogni momento della giornata, anche al ristorante, dove subivamo la reprimenda di nostra moglie. Chi è stato in montagna se ne torna in città con la meravigliosa incredulità che ha provato nello stendersi sull’erba. «Ma è vera?».

     
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    5330922_Valentin-Mosichev_01

    Infedeltà: le donne perdonano più degli uomini

    Donne più tolleranti degli uomini quando si tratta di tradimento? Sì, secondo un sondaggio condotto per conto dell’azienda britannica produttrice di detergenti, "Dr. Beckmann".

    L’indagine ha coinvolto circa 2.000 adulti di ambo i sessi e verteva su, per così dire, come si “lavano” i panni sporchi in famiglia. I panni sporchi sarebbero il tradimento e l’infedeltà.
    Dalle risposte ottenute dai partecipanti si è così scoperto che le donne sono in genere più tolleranti dei maschi su questo genere di argomento.
    Oltre 6 donne su dieci ha infatti dichiarato che avrebbe perdonato il proprio uomo che difettasse in alcuni ambiti della relazione. Tra i vari comportamenti assunti dall’uomo e che possono mettere in crisi un rapporto vi sono l’infedeltà, un atteggiamento civettuolo (con le altre) e una mancanza di romanticismo o attenzione alla partner. Tuttavia, dichiarano le intervistate, soltanto due di questi potrebbero essere perdonati – l’infedeltà era uno di questi – perché se si arriva a disattendere anche il terzo allora…

    Il sondaggio, di cui dà relazione il Daily Mail, mette in evidenza come il 53% delle donne accetterebbe di offrire un’altra opportunità al compagno che si fosse “macchiato” di tradimento, ma soltanto se è stata una scappatella di una volta e se il rapporto con “l’altra” non è durato a lungo.
    A differenza delle donne, gli uomini hanno invece risposto che difficilmente avrebbero perdonato un tradimento, fatta eccezione per un misero 13% che ha dichiarato che sarebbe disposto a offrire un’altra occasione.

    Nonostante i buoni propositi delle donne – e quelli un po’ meno degli uomini – entrambi i sessi (l’89% degli intervistati) sono d’accordo che l’infedeltà è uno dei problemi più difficili da superare in un rapporto di coppia.
    Al secondo posto tra i problemi che possono portare a una rottura della relazione vi è la mancanza di intimità e attenzioni: il partner che passa più tempo con gli amici che con la sua metà è spesso causa di scioglimento del legame.
    Se circa il 38% delle coppie intervistate ha avuto a che fare con una qualche sorta di infedeltà, ha cercato o è riuscita a superare il problema perché, hanno dichiarato gli intervistati, dopo questo avvenimento entrambi i partner hanno deciso e accettato di essere finalmente aperti, onesti, sinceri circa i loro sentimenti.
    Insomma, a volte accade che ci voglia una scossa di terremoto nel rapporto affinché la coppia si risvegli e decida che è ora di fare qualcosa di serio per rafforzarlo o mantenerlo sano e vivo.

     
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  8. la sirenetta
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    Bistecca non ti amo più
    ecco il tiramisù di tofu

    salvini

    Guardi, sono bellissimo proprio perché vegetariano». L’ironico 48enne Massimo Santinelli non è solo il presidente del Festival vegetariano di Gorizia, ma anche imprenditore «bio» che ha scoperto un modo diverso di alimentarsi e di vivere dopo una grave malattia. «A 17 anni mi hanno diagnosticato una patologia cui sono seguite cure molto pesanti. E grazie alla macrobiotica sono ancora qui. Certo, la medicina tradizionale mi ha aiutato, ma, si sa, anche il cibo è medicina...».

    Quanti sono
    In Italia sono sette milioni i vegetariani che non escludono dalla loro dieta latticini e uova, mentre 400 mila sono i vegani che hanno eliminato dalla tavola ogni derivato animale. Secondo l’Eurispes nel 2050 metà degli italiani sarà vegetariano. Ma non sempre la «green way for life» è scelta etica o per l’ambiente: nel 43,2% dei casi si mangia solo verdura e cereali per salute. Nel popolo anti-bistecca ci sono molti vip, cantanti, attori, atleti e scienziati come Margherita Hack e Umberto Veronesi. «Un dato interessante – dice Santinelli - è che il 70% dei vegetariani sono donne che stanno orientando anche la dieta dei loro figli».

    Per i bambini
    Su vegetarianesimo e bambini un capitolo importante lo ha scritto il pediatra torinese Luciano Proietti, già chirurgo infantile al Regina Margherita, padre di tre figli cresciuti senza cibo animale: «I bambini che nei primi anni di vita non mangiano carne sono più sani. Le proteine creano acidosi e quindi infiammazione e malattie». Già negli Anni 80 una ricerca aveva evidenziato come i bambini vegetariani crescessero con minori problemi rispetto a quelli onnivori. «Adesso il discorso si ribalta - continua Proietti -: gli studi evidenziamo perché i piccoli vegetariani sono più sani. Escludendo la carne hanno più massa magra e si ammalano di meno. Però non sono un buon affare per la case farmaceutiche e per l’economia: non si ammalano non vanno dai medici e negli ospedali, e così facendo non fanno “girare” l’economia». La ricetta della baby-salute? «Latte in formula e vegetali: niente di magico: i bimbi passeranno indenni da raffreddori e influenze».

    Una filosofia di vita
    Passare dalla bistecca alla frittata di erbe e al tiramisù di tofu è anche svolta filosofica. Da tempo si discute di consumi e sostenibilità degli allevamenti. «Diventare vegetariani è l’unica salvezza per il pianeta. Un chilo di carne consuma l’acqua delle docce fatte in un anno, e i dati Fao dicono che i cereali basterebbero a sfamare tutto il mondo se non dovessimo allevare mucche e maiali». Gianni Tamino, docente di Biologia e di Diritto ambientale al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, è tra i massimi esperti italiani di consumo di suolo e danni da allevamenti intensivi. «Un italiano consuma in media 90 chili di carne l’anno, negli Usa 130: dieci volte quello che è necessario per vivere bene». Ciò vuol dire che nel 2050 non avremo più risorse, stiamo consumando il pianeta per il mangime degli allevamenti animali. Al forum internazionale sull’acqua a Stoccolma i risultati sono sconfortanti: per mangiare una bistecca si consumano da quattro mila a 40 mila litri d’acqua.

     
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    vista_1

    Donne ed uomini vedono in modo diverso

    Uomini e donne vedono in modo diverso: i maschi hanno una sensibilità maggiore verso i dettagli e verso i soggetti in movimento mentre le donne vedono meglio i colori.

    Uomini e donne, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Biology of Sex Differences della City University of New York, vedono in modo diverso e tutto sarebbe dovuto agli ormoni maschili, in prima file il testosterone.

    Nel cervello, spiegano i ricercatori, vi sono alte concentrazioni di recettori di ormoni maschili, specialmente nell’area della corteccia che è responsabile di processare le immagini. Questi ormoni, e in particolare il testosterone, sono anche responsabili di controllare lo sviluppo dei neuroni nella corteccia durante la formazione dell’embrione, con la conseguenza che i maschi avrebbero il 25% in più di questi neuroni rispetto alle femmine. Per tale ragione, i rispettivi centri visivi del cervello funzionano in modo diverso.

    Per arrivare a tale conclusione, i ricercatori hanno confrontato il sistema visivo di ragazzi e ragazze dell’età di 16 anni e con una vista normale. Ai volontari sono state sottoposte immagini colorate ed è stato chiesto loro di descrivere i colori che vedevano, in tutto lo spettro visivo.

    Inoltre per misurare la sensibilità della vista ai contrasti, i ricercatori hanno mostrato ai volontari immagini con barre chiare e barre scure: quando le barre chiare e scure venivano alternate l’immagine appariva tremolante, come in movimento. È stato evidente che uomini e donne vedono in modo diverso: gli uomini, sottolineano gli autori della ricerca, dovrebbero avere una capacità di vedere lunghezze d’onda leggermente più lunghe per sperimentare la stessa tonalità viste delle donne. Gli uomini invece si sono dimostrati più abili a cogliere i dettagli delle barre in movimento.

    «Come per altri sensi, come udito e olfatto, ci sono marcate differenze nel sistema visivo di uomini e donne - osserva il coordinatore del lavoro Israel Abramov - Gli elementi del sistema visivo che abbiamo misurato - aggiunge - sono determinati da impulsi provenienti da specifici gruppi di neuroni situati nella corteccia visiva. Dal momento che lo sviluppo dei neuroni in questa area è guidato dal testosterone, suggeriamo che quest’ormone maschile possa giocare un ruolo di primo piano nella genesi delle differenze fra i centri visivi di uomini e donne».

     
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    parigi

    Com'è diventata grigia la vie en rose

    Nicolas Sarkozy voleva «la Francia forte», François Hollande «il sogno francese». Invece i cugini tornano dalle vacanze e si scoprono depressi. Per carità: la «grogne», il mugugno, è la caratteristica nazionale di un Paese ciclotimico che alterna sogni di gloria e botte di grandeur a sfiducie nere e malinconie fulminanti, capace di tutto tranne che di rassegnarsi alla normalità. Però questo sembra proprio l’autunno dello scontento. L’economia va male, la soglia dei tre milioni di disoccupati è stata appena superata, l’euro è alla neuro e si annunciano nuove ondate di licenziamenti e delocalizzazioni. Tutti rifiutano di ammetterlo, Hollande in testa, però tutti sanno che lo Stato sociale cui sono affezionati (anche perché in Francia costa come in Italia, ma funziona molto meglio) non è più sostenibile.

    Risultato: crollo di fiducia, 11 punti in un mese solo, per il neoeletto Président. Hollande, per la verità, questa situazione l’ha ereditata, non creata. Ma non sembra avere soluzioni per uscirne. La crisi di idee mette in crisi l’ottimismo. Le sorti nazionali tutto sono meno che magnifiche e progressive: secondo l’ultimo sondaggio, il 68% dei francesi si dice pessimista sull’avvenire.

    In uno dei Paesi che la prendono ancora sul serio, la cultura riflette questo malessere. Prendete la rentrée letteraria, un’altra delle più tipiche eccezioni francesi, l’alluvione di romanzi che si abbatte sugli scaffali delle librerie ai primi di settembre come uno tsunami letterario di quasi 500 titoli nuovi. I due che promettono di più, come vendite e premi prossimi venturi, tutto sono meno che ottimisti. Les Lisières , «I margini», di Olivier Adam ha già venduto 70 mila copie. Protagonista, un alter ego dell’autore che, mollato dalla moglie con cui viveva in Bretagna, torna sui luoghi della sua infanzia in banlieue e scopre che, naturalmente, sono peggiorati. Anzi, è peggiorato tutto: la mamma fuori di testa, il papà ex comunista ora tentato dal Front National (dunque, visto da gauche, fuori di testa anche lui), la periferia piena di classi medie impoverite quindi espulse dalla città mentre quelle medio-basse hanno dovuto sloggiare ancora più in là e, sullo sfondo televisivo, Fukushima e lo tsunami. Allegria.

    Altro bestseller, altri disastri. Per la verità, Une semaine de vacances , «Una settimana di vacanze», di Christine Angot, esce oggi. Ma ieri Libération gli ha dedicato la prima pagina, un editoriale del direttore, una recensione, tre pagine d’intervista e molte lodi: «capolavoro», «libro immenso», eccetera. Il soggetto è l’incesto, anzi la sua «dimensione sessuale». La prima scena si apre con il padrepadrone che «ha posato un trancio di prosciutto sul suo sesso. Egli le propone di mangiarne. Lei si inginocchia». Visto da destra, cioè dal Figaro , è subito ironica stroncatura: «Una certa critica ci vede un capolavoro, un testo fondatore. Il lettore rischia di chiedersi se è lardo o maiale». Proprio il Figaro , forse non troppo obiettivo (da quando ci sono i socialisti al potere, in Francia piove sempre, non si ride mai e anche il camembert non è più così buono), si chiede: «La cultura francese è depressa?». Il critico Charles Dantzig spara sul «populismo letterario» cui si stanno abbandonando gli autori francesi («chiamo populismo letterario una fiction destinata a lusingare dei sentimenti astiosi»), lo scrittore Jean-Marie Rouart constata che «il reale schiaccia l’ideale», il regista Pascal Thomas deplora che «non c’è più spazio per lo spirito francese fatto di charme, di piccante e d’ironia». Certo, fu Michel Houellebecq a fondare quella che Le Figaro littéraire battezzò a suo tempo la corrente «déprimiste» delle patrie lettere, ma Houellebecq ha sempre raccontato la disperazione con ironia. Ma, poiché le scorte di ironia paiono proprio finite, resta solo la disperazione.

    È poco allegro anche il cinema dove, accanto alle solite commediole sentimentali, è tutto un proliferare di malattie, fisiche o sociali: mai visti sul grande schermo tanti disoccupati diventare disperati e/o aggressivi nelle banlieue degradate e violente... Perfino la canzone finisce sotto processo per procurata ansia. «La malinconia è comunista / Tutti ne hanno diritto di tempo in tempo / La malinconia non è capitalista / È anche gratuita per i perdenti», sospira il bretone Miossec (se non lo conoscete, non preoccupatevi: la Francia della canzonetta è autarchica e i suoi eroi ne varcano di rado i confini). Gli risponde l’amatissimo Benjamin Biolay: «Non c’è più cosmo sopra i nostri balconi / Non ci sono che dei fossati, delle lastre di cemento», ma purtroppo in italiano si perde l’assonanza fra «balcons» e «béton».

    La realtà è che la cultura è depressa perché sono depressi i francesi. Tutte le statistiche raccolte in un’inchiesta di Marianne lo confermano. Soddisfatti della vita? Lo sono 67 francesi su 100, contro una media europea del 75 e italiana del 77. Soddisfatti del lavoro? Il 40%, contro una media mondiale del 46. Fiduciosi negli altri? Il 23%, pochino rispetto al 31 degli italiani e al 64 dei norvegesi. Salute mentale? I francesi che hanno vissuto almeno una depressione sono il 21% (nel mondo il 15%, in Italia il 7). E non parliamo della scuola: mette «a disagio» il 55% degli studenti, un’enormità rispetto al 15 degli italiani.

    Piangersi addosso è da sempre uno sport nazionale. Adesso, però, sta diventando una patologia, «l’odio francese di se stessi», secondo lo scrittore Michel Onfray. Che lo spiega così: «I francesi, che furono lungamente dei galletti appollaiati sul loro mucchio di stallatico, sono ormai dei polli di batteria». Il punto è che «in materia di civiltà è come al bordello: ognuno ha il suo turno. Il nostro è passato». Sarà. Però lo straniero è perplesso. La Francia sarà pure depressa. Ma di certo non è deprimente.

     
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  11. la sirenetta
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    Sono i giochi dei bimbi
    a distinguerci dalle scimmie

    giochi

    L’uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono, per intenderci rapidamente, in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Tutta la nostra vita cosciente, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni, pensieri, percezioni, è soggetta alla questione se sia come dovrebbe. C’è una coscienza normativa - tipicamente, un senso di (in)adeguatezza - che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito, «esatto» (da «esigere»). Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla…

    Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di «normalità» umana che è centrato sul potere dell’interrogativo. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia , l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione. La «normalità» socratica è il rinnovamento morale quotidiano, che idealmente presuppone la libertà e la ricerca di verità, per dare alla norma quotidiana verifica, o allora ragionevole e giusta modifica. Husserl nello stesso spirito pensava che «etica» e «rinnovamento» quotidiano siano quasi sinonimi. Il gioco socratico della verifica delle regole è in un certo senso l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi.

    Oggi però sappiamo molto di più di un tempo sulle basi naturali della cultura. Sulla differenza fra noi e le specie più evolute di primati la scienza ha detto molto. La differenza è minima in termini genetici, eppure enorme all’apparenza. Come mai? Michael Tomasello, ugualmente esperto nella psicologia sperimentale dei primati e degli infanti umani, è diventato famoso per aver individuato questa differenza nel fatto che questa pur minima differenza ha fatto di noi degli animali cooperativi. Tomasello ha giocato a lungo coi bambini più piccoli, e ha studiato il loro giocare. Qui, nel loro gioco, ha scoperto quello che ci distingue davvero dai primati. Noi abbiamo delle capacità naturali in cui questa attitudine cooperativa si fonda. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e riprodurle: direi, afferrare la regola che anima un gesto. Mentre le scimmie, quand’anche scimmiottino, sanno solo «emulare»: cioè imitare l’uso di un mezzo per scopi che già hanno indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non imparano le regole di giochi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi. Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il proprio punto di vista sulla realtà, capire ce ne sono anche altri. Non sanno condividere l’attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto. Non sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. Non c’è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale.

    Un equivoco grava su questa scoperta: una sorta di tesi neo-roussoviana, per cui noi saremmo allora «naturalmente» buoni, simpatici. Èl’equivoco della naturalizzazione dell’etica: questa starebbe già nella nostra natura cooperativa - e non soltanto competitiva. Un equivoco, perché non è affatto il carattere cooperativo come tale a rendere un’interazione umana, o addirittura una società umana, giusta. È vero che le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia, tanto è vero che fin dall’inizio delle civiltà si dibatte sull’alternativa fondamentale: la legge si fonda sulla forza o sulla giustizia? Socrate e Trasimaco aprono una disputa che dura fino ai nostri giorni - e se la filosofia tende a dar ragione a Socrate la storia tende a darla a Trasimaco. Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è la tendenza a co-operare conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei all’accordo, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti appartiene. Il modello di «normalità» che sembra oggi dominante in Italia è quella dell’uomo di consorteria. È la soggettività così caratteristica dei nostri giorni: la «normalità» priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo, mera funzione di quella collettiva della consorteria d’appartenenza. È la mentalità dell’esecutore - che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno «mediatore»: il faccendiere, il referente politico per l’attività lobbistica, il funzionario di partito, il giornalista deferente. La sua funzione è quella del topo roditore di normatività. Si parla oggi più correntemente di erosione di legalità, perché di questa abbiamo dati contabili, l’enorme fatturato annuale che comporta. Ma non è che la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è l’erosione di legalità interiore. Ne esiste una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose. Ciò che l’erosione di legalità esterna e interiore produce, è la sostituzione della regola esplicita, che si rivolge alla coscienza personale e alla sua facoltà di dubbio e interrogazione, con il potere normativo della pressione sociale, la cui caratteristica è la delegittimazione del dissenso. Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, quando torna in auge una frase che potevamo sperare sepolta nel cimitero degli orrori politici: «Se dici così fai il gioco dell’avversario».

     
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  12. la sirenetta
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    Dalla spazzatura al museo

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    Quanti giocattoli si trovano nelle discariche di tutto il mondo? Dopo aver fatto felice un bambino, vengono solitamente regalati, abbandonati o buttati nella spazzatura. Ma in Giappone questi giocattoli scartati vivono una seconda vita grazie all'artista Hiroschi Fuji, che li ha resi protagonisti della mostra Central Kearu Station ? Where have all the toys come from, allestita a Tokio.
    Kearu, infatti, in giapponese significa scambio o cambiamento, temi sui quali Fuji lavora da tempo, arrivando a raccogliere ed esporre oltre 100mila giocattoli raccolti in 13 anni di paziente ricerca. Una delle creature nate dalla sua passione per i giocattoli abbandonati è il Toysaurus, un enorme dinosauro composto interamente da vecchi balocchi.
     
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  13. *Sjiofn*
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    adolescenti_1

    La valutazione dei disturbi di personalità in adolescenza

    L’adolescenza, fase decisiva per la costruzione dell’identità adulta, può essere vissuta come una occasione di crescita o rivelarsi luogo mentale di occasioni perdute e di rischio, in quanto le vulnerabilità rivelatisi nell’infanzia possono accentuarsi con l’affacciarsi di più complessi compiti evolutivi che richiedono processi di distacco dalle figure parentali e nuove capacità relazionali. In un ambito ancora relativamente povero di conoscenze scientifiche diventa fondamentale individuare quei fattori biologici, ambientali e relazionali che possono determinare l’insorgenza di disturbi psicopatologici in età evolutiva, allo scopo di mettere a punto modelli condivisi di prevenzione ed intervento e di alleviare il carico di sofferenza che tali disturbi esercitano sulle famiglie coinvolte.

    «L’adolescenza è una fascia di età che, essendo stata considerata di passaggio tra l’età infantile e quella adulta, non ha mai avuto l’attenzione che oggi invece merita, anche solo per il fatto che la condizione adolescenziale si è estesa tantissimo», sottolinea Margherita Spagnuolo Lobb, direttrice dell’Istituto di Gestalt HCC Italy. Negli ultimi anni l’adolescenza ha suscitato un interesse crescente in campo psicologico, psicoanalitico e psicopatologico, in particolare nell’ambito dei Disturbi di Personalità (il funzionamento borderline fa parte di questo gruppo e riveste un’importanza particolare anche ai fini della ricerca, come struttura patologica intermedia tra nevrosi e psicosi).

    Nel DSM IV il disturbo di personalità è «un modello di esperienza interiore che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione». L’orientamento psicodinamico (le ricerche di Kernberg, Clarkin e Fonagy) ha dato un contribuito fondamentale alla comprensione dei disturbi di personalità, mettendo in evidenza l’importanza dell’identità (disturbi dell’identità) e delle relazioni interpersonali. Partendo da tali presupposti sono state elaborate interviste strutturate per la valutazione della personalità anche in adolescenza.

    Il 7 e 8 settembre a Palermo, Massimo Ammaniti, docente di Psicopatologia dello Sviluppo presso l’Università “La Sapienza” di Roma, condurrà il seminario “La valutazione dei disturbi di personalità in Adolescenza e nell’Età giovanile”, rivolto a psicologi, medici, psichiatri, organizzato dall’Istituto di Gestalt HCC Italy, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia.

    Il professore presenterà uno strumento clinico e di ricerca, l’IPOP-A (Interview for Personality Organization Processes During Adolescence). Si tratta di un’intervista da somministrare ad adolescenti tra i 13 e i 21 anni di età. L’IPOP-A esplora vari ambiti della personalità (identità, relazioni d’oggetto, regolazione affettiva) e consente di valutare sia le potenzialità positive che le vulnerabilità dei disturbi di personalità in adolescenza.

    Elaborata originariamente negli Stati Uniti da Otto Kernberg e adattata in Italia dal professore Ammaniti (Ammaniti, Fontana, Kernberg, Clarkin), l’intervista è uno strumento importante per tutti coloro che hanno a che fare con i problemi relazionali degli adolescenti, in quanto copre un vuoto della valutazione psicologica, che più frequentemente si è rivolta agli adulti o ai bambini, ma poco agli adolescenti.

    La pubblicazione del DSM-5, prevista nel maggio del 2013, porterà certamente ad una nuova formulazione dell’approccio alla valutazione e alla diagnosi dei disturbi di personalità; in particolare le valutazioni essenziali di un disturbo di personalità saranno effettuate in base alle compromissioni del funzionamento del dominio del sé (che si riflettono nelle dimensioni dell’identità e dell’auto-direzionalità), del dominio interpersonale (alterazioni della capacità di empatia e di intimità), unitamente alla presenza di tratti patologici.

     
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  14. la sirenetta
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    L’ultimo “lusciatt” nel paese che celebra l’arte di aggiustare ombrelli

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    Ha sperato tante volte che piovesse: dagli ombrelli rotti per qualche folata di vento poteva dipendere l’intera annata. Giuseppe Rossi, 85 anni, di mestiere faceva il «lusciatt», cioè l’ombrellaio. Una delle tante professioni legate a un’Italia rurale in cui bisognava aggiustare ciò che si rompeva, oggi praticamente scomparsa. Nel Vergante e anche a Massino Visconti, paese che celebra ogni anno la proverbiale operosità dei «lusciatt» con la Festa dell’ombrellaio, di artigiani non se ne trova più. E’ rimasto lui, che ogni tanto ne ripara, per diletto e per amicizia, qualcuno che le donne di Massino gli lasciano al cancello della sua abitazione. «Quella dell’ombrellaio è una tradizione di famiglia - racconta Rossi -: lo era mio nonno, lo è stato mio padre e da loro ho imparato il mestiere ed ereditato tutti gli attrezzi, ancora oggi lucidi e pronti all’uso». Un mestiere, ma anche un’arte: «L’ombrellaio deve essere un po’ sarto, lattoniere e anche falegname» spiega.

    Per tantissimi anni Giuseppe in sella alla sua bici con tanto di «barsella», la borsa degli attrezzi, ha macinato chilometri nella vicina Lombardia in cerca di clienti: «In primavera partivo per non meno di 3 mesi, in autunno stavo fuori fino a Natale. Di paese in paese, ogni giorno cercavo ombrelli da riparare. Arrivato in piazza, lasciavo nel solito cantone la bicicletta e andavo alla ricerca di lavoro. Poi, al pomeriggio, mi mettevo all’opera. A sera, il conto del guadagno: a volte misero, a volte sufficiente perché mi scappasse un sorriso».

    Una passione di famiglia
    Giuseppe è stato più fortunato di suo padre e della generazione precedente: «Gli anziani si spostavano con il carro e il cavallo e dormivano dove capitava, spesso nei fienili. La loro lontananza da casa durava molti più mesi e non sempre andava bene». La fatica, però, era compensata dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo abilità ma anche creatività. In qualche caso, l’ombrello si faceva da capo a piedi: «Avevamo le sagome per tagliare le stoffe. I signori sceglievano la seta, per gli altri bastava il cotone».

    Chi aveva fortuna nel suo girovagare, anche in terra straniera, si fermava e apriva un negozio e magari diventava un piccolo imprenditore. I più tornavano a casa dove le donne avevano tirato avanti la baracca, lavorato la terra, accudito il bestiame. L’identità dei «lusciatt» del Vergante era così marcata, che avevano inventato una lingua propria, il «tarusc»: nata per impedire agli estranei di capire i loro discorsi, mescolava termini dialettali a parole derivanti dal francese, dal tedesco e dallo spagnolo, che si erano portati dietro, come retaggio del loro girovagare, riparando ombrelli. Pochi oggi la comprenderebbero ma a Massino Visconti, dove l’Amministrazione comunale lavora da anni perché tradizioni e cultura locale vengano mantenute, si trova anche un dizionario, che traduce in italiano l’idioma degli ombrellai massinesi e dell’intero Vergante. A Gignese, sopra Stresa, c’è addirittura un museo dedicato ad un accessorio, come l’ombrello, che vanta una storia millenaria.

    Nella sua personalissima collezione, invece, Giuseppe Rossi conserva un ombrello molto particolare: «Sicuramente di fine ‘800, è appartenuto a un milord. L’ombrello è nascosto e sembra piuttosto un bastone da passeggio». Mentre mostra la perfezione del meccanismo, la raffinatezza della stoffa, un po’ di nostalgia l’ultimo «lusciatt» di Massino Visconti ce l’ha: «C’era una grande libertà nel nostro mestiere. E’ un peccato che nessuno voglia più imparare quanto sia bello dare nuova vita ad un oggetto rotto».

    La festa in paese
    A Massino Visconti si guarda con orgoglio agli ombrellai di ieri e di oggi. Sono stati ultimati in questi giorni due murales che il Comune ha commissionato al pittore Maurizio Fantini per celebrare l’operosità dei «lusciatt». A loro l’intero paese dedica la Festa dell’ombrellaio (che quest’anno sarà il 16 settembre dalle 15,30) e la Pro loco assegna il premio «Ombrellino d’oro» a chi si è distinto per intraprendenza e impegno. Il riconoscimento numero 17 andrà alla Fondazione Mike Bongiorno per la sua attività di promozione e sostegno nel sociale, nella ricerca e in ambito culturale. Per di più la famiglia Bongiorno ha un forte legame con il Vergante. Nel corso della cerimonia saranno anche consegnati i due ombrellini d’argento, riservati a operatori del settore: uno andrà all’ombrellificio Maffei di Borgomanero, l’altro alla memoria del massinese Giovanni Bertoli, proveniente da vecchia famiglia di ombrellai e a sua volta attivissimo fabbricante a Milano.

     
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  15. la sirenetta
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    Duecento anni di colazioni da Tiffany

    tiffany

    Il 15 febbraio del 1812 nasceva a Killingly, Connecticut, Charles Lewis Tiffany co-fondatore della più famosa società di gioiellieri al mondo la Tiffany&Co. Tutto cominciò quando Tiffany si trasferì a New York. La città era in espansione, nuovi uffici aprivano ogni giorno, carte, inchiostri e matite sembravano non bastare mai. Se qui si aprisse un deposito di cancelleria, pensa il giovane Tiffany, si farebbero dollari a palate. L’idea piace al suo amico John Young, i due si mettono in società e nel 1837 apre la Tiffany&Co.Charles ha visto giusto, gli affari vanno a gonfie vele, si comincia a vendere all’ingrosso, poi si apre al pubblico infine si arricchisce l’offerta con la novità degli articoli regalo : argenti, bigiotteria, gioielli. E’ la svolta.



    Nel 1848 Tiffany chiude con carte e inchiostri e i gioielli comincia a farseli da se. E poco dopo apre una filiale a Parigi. La favola della maison Tiffany è cominciata. Il figlio di Charles, Louis Comfort, ha il pallino per gli affari come il padre ma è anche un formidabile artista. Dipinge, crea elementi di arredo, disegna linee di gioielli. A New York è allievo di George Inness e Samuel Coleman. A Parigi va a bottega da Léon Bailly. Ma sono le fabbricazioni del vetro a sedurlo. E nel vetro, Louis, darà vita a una rivoluzione copernicana. La moda di allora privilegiava il vetro trasparente, lui impone quella del vetro opalescente che realizza con un processo di sua invenzione. Nel 1893 introduce una nuova tecnica, chiamata Favrile, con cui ottiene, per soffiatura a mano, vasi e coppe. L’art noveau gli ispirerà splendide vetrate a mosaico. Nel 1900 gli verrà conferita la Legion d’Onore e oggi, le sue creazioni sono esposte nei più prestigiosi musei del mondo, a cominciare dal Metropolitan di New York.



    Eppure se adesso tutti noi sussultiamo alla parola Tiffany il merito non è dei gioielli favolosi che la Tiffany continua a creare e nemmeno per l’art nouveau al vetro di Louis o per le geniali intuizioni di suo padre. Chi consegna Tiffany alla leggenda sarà uno scrittore, Truman Capote, un essere – come lo definì il suo amico Goffredo Parise – grottesco ma bellissimo, una strana apparizione di fata-uomo. Quando Truman inizia a scrivere ‘Colazione da Tiffany’ è già famoso; il suo romanzo d’esordio Altre voci, altre stanze è stato un clamoroso caso letterario che il giovane Capote ha saputo gestire con straordinaria scaltrezza.



    E’ il beniamino della jet-society, è amico e confidente della Monroe, ospite di Marella e Gianni Agnelli sul loro panfilo, adorato da Gloria Vanderbilt e dagli armatori greci. I suoi fotografi sono Beaton e Cartier-Bresson, e quando decide di andare in Russia ci va coi coniugi Gershwin e con la compagnia di ‘Porgy and Bess’ e quando lo tenta il Giappone si aggrega alla troupe di ‘Sayonara’ restando per mesi alle costole di Marlon Brando al quale estorcerà l’intervista più intima e piccante della sua carriera. Quando ‘Colazione da Tiffany’ esce nelle librerie, Capote è in Grecia. Al suo ritorno troverà l’America ai suoi piedi. Persino il suo acerrimo nemico Norman Mailer gli rende omaggio. " E’ acido come una vecchia zitella – scrive Mailer – ma a modo suo è un ragazzino con le palle, ed è lo scrittore più perfetto della mia generazione, scrive le frasi migliori parola per parola, ritmo su ritmo. Non cambierei nemmeno due parole di Colazione, chè diventerà un piccolo classico". Aveva ragione. Nel nome della protagonista, Holly Golightly, che in origine avrebbe voluto chiamare Connie Gustafson (?) c’è tutto il Capote-pensiero : una donna che della vita fa una festa (holiday) attraverso la quale cammina (go) spensieratamente (lightly). Con la pubblicazione del libro ebbe luogo quello che Truman chiamò il Gran Premio Lotteria Holly Golightly: metà delle donne che conosceva, e anche qualcuna che non conosceva, affermò di essere il modello di quel personaggio stravagante. Carol Marcus, Oona Chaplin, Phoebe Pierce, Gloria Vanderbilt, Doris Lily. Una certa Bonnie Golightly citò Capote per violazione della privacy e diffamazione da risarcire con almeno ottocentomila dollari. La causa si arenò presto, e poi questa Golightly era grassa, seducente come un cactus messicano e quasi in menopausa. " Perbacco – chiosò Capote – è come se Joan Crawford dicesse di essere Lolita!". Il titolo del libro veniva dai taccuini di Capote, da un aneddoto sentito e archiviato molti anni prima. Durante la seconda guerra mondiale un uomo di mezza età ha una relazione con un marine. Vorrebbe regalargli qualcosa di speciale per dimostrargli la propria gratitudine, ma è domenica, tutti i negozi sono chiusi, può solo offrirgli una colazione. " Dove ti piacerebbe andare ? Scegli il posto più lussuoso e più caro della città " . Il marine, che non è di New York, ha sentito parlare di un unico posto di lusso e costoso, e risponde: " Facciamo colazione da Tiffany".



    Nel 1961, dopo il romanzo è la volta del film. Diventerà un film di culto nonostante a girarlo siano quasi tutte seconde scelte. Per Holly, Capote voleva la sua amica Marylin Monroe. Nessuno poteva vincere meglio di lei le paturnie, salendo su un taxi e andando da Tiffany, perché in mezzo a quel piacevole odore di argento e portafogli di coccodrillo non può succedere niente di male. La scelta della produzione cadde invece su Audrey Hepburn che chiese uno dei suoi registi di fiducia : Cukor o Wyler. Le diedero invece l’emergente Blake Edwards che portò in dote il compositore Mancini e lo sceneggiatore Axelrod. Quest’ultimo aveva esperienza da vendere e un talento speciale per la commedia , aveva scritto con Wylder ‘Quando la moglie è in vacanza’ e aveva all’attivo film come ‘Fermata d’autobus’ . Si inventò un finale diverso dal libro, tre o quattro personaggi, come quello del signor Yunioshi o di Liz, l’amante che mantiene Paul, lo consegnò a Edwards che girò un film in stato di grazia e a Mancini che lo musicò in maniera indimenticabile, regalando alla storia del cinema il leit-motiv di Moon River.



    Hubert de Givenchy vestì Audrey Golightly, la Tiffany aprì di domenica, per la prima volta nella sua storia, per permettere le riprese del film, e con la frase di Holly: ‘Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany… comprerei i mobili e darei al gatto un nome‘ Tiffany si garantì la più clamorosa tra le pubblicità possibili. Scrive ancora Parise : " Nel ’51 Capote beveva solo latte bollito dell’Harris Bar, nel ’61 già erano iniziate altre bevande molto più micidiali di qualunque bevanda, oggi una sua fotografia mi è impossibile guardarla. Ma restano sempre intatte le sue voices, le sue rooms, le sue costruzioni stilistiche del colore della rosa o una sola parola – Tiffany – a ricordare non il gioielliere ma lui.

     
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202 replies since 31/8/2012, 23:45   4278 views
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