GIOVANNI PASCOLI

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    GIOVANNI PASCOLI
    Giovanni Agostino Placido Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta e accademico italiano e una figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento.
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    Pascoli, nonostante la sua formazione eminentemente positivistica, è, insieme a Gabriele D'Annunzio, il maggior poeta decadente italiano. Dal Fanciullino, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D'altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del "fanciullino" presente in ognuno: quest'idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di "poeta vate", e di ribadire allo stesso tempo l'utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia.

    « Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro Giosuè Carducci, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra [...] »
    (G. Pascoli - da Il fanciullino)



    Biografia



    Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli in suo onore), in una famiglia agiata, quarto dei dieci figli - due dei quali morti molto piccoli - di Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta La Torre della famiglia dei principi Torlonia, e di Caterina Vincenzi Alloccatelli. I suoi familiari lo chiamavano affettuosamente "Zvanì".

    Il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva quasi dodici anni, il padre Ruggero venne assassinato con una fucilata mentre sul proprio calesse tornava a casa da Cesena. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse dovute a contrasti di lavoro, non furono mai chiarite e i responsabili rimasero per sempre oscuri, nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull'identità dell'assassino, come traspare evidentemente nella poesia La cavalla storna: il probabile mandante fu infatti il malavitoso Pietro Cacciaguerra (al quale Pascoli fa riferimento, senza nominarlo, nella lirica Tra San Mauro e Savignano), possidente ed esperto fattore da bestiame, che divenne successivamente agente per conto del principe, coadiuvando l'amministratore Achille Petri, quest'ultimo subentrato a Ruggero Pascoli poco dopo il delitto. Quanto ai due sicari, i cui nomi correvano di bocca in bocca in paese, questi furono Luigi Pagliarani detto Bigéca (fervente repubblicano), insieme a Michele Dellarocca, entrambi probabilmente fomentati dal presunto mandante. Sulla intricatissima vicenda del delitto di Ruggero Pascoli, è stato pubblicato il volume di Rosita Boschetti "Omicidio Pascoli. Il complotto", (Mimesis 2014) che è frutto di recenti ricerche negli archivi locali e che, oltre a pubblicare documentazione inedita, formula l'ipotesi di un complotto perpetrato ai danni dell'amministratore Pascoli. Il trauma lasciò segni profondi nella vita del poeta.

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    Giovanni Pascoli da bambino (ultimo a destra), con il padre Ruggero e i fratelli Giacomo e Luigi


    La famiglia cominciò dapprima a perdere gradualmente il proprio stato economico e successivamente a subire una serie impressionante di lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre, per un attacco cardiaco e la sorella Margherita, di tifo, nel 1871 il fratello Luigi, colpito da meningite, e, successivamente, nel 1876, il fratello maggiore Giacomo, secondo le cronache di tifo. Da recenti studi anche il fratello maggiore, che aveva tentato inutilmente di ricostituire il nucleo familiare a Rimini, potrebbe invece essere stato avvelenato. Giacomo infatti nell'anno in cui morì ricopriva la carica di assessore comunale e pare conoscesse personalmente coloro che avevano partecipato al complotto per uccidere il padre, oltre al fatto che i giovani fratelli Pascoli (in particolare Raffaele e Giovanni) si erano avvicinati a tal punto alla verità sul delitto paterno, da essere minacciati di morte. Le due sorelle Ida e Maria andarono a studiare nel collegio del convento delle monache agostiniane, a Sogliano al Rubicone, dove viveva Rita Vincenzi, sorella della madre Caterina e dove rimasero dieci anni: nel 1882, uscite di convento, Ida e Maria chiederanno aiuto al fratello Giovanni, che dopo la laurea insegnava al liceo Duni di Matera, esprimendo il loro desiderio di vivere col fratello, facendo leva sul senso di dovere e di colpa di Giovanni, il quale durante i 9 anni universitari non si era più occupato delle sorelle.

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    Giovanni Pascoli con la sorella Maria


    Nella biografia scritta dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta viene presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell'impegno a terminare il liceo e a cercare i mezzi per proseguire gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l'assassino del padre.
    Nel 1871, all'età di sedici anni e dopo la morte del fratello Luigi avvenuta per meningite il 19 ottobre dello stesso anno, Giovanni Pascoli dovette lasciare il collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino; si trasferì a Rimini, per frequentare il liceo classico Giulio Cesare. Giovanni giunse a Rimini assieme ai suoi cinque fratelli: Giacomo (19 anni), Raffaele , Alessandro Giuseppe, , Ida , Maria (6, chiamata affettuosamente Mariù).

    «L'appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario».

    Pascoli terminò infine gli studi liceali a Cesena dopo aver frequentato il ginnasio ed il liceo al Liceo Ginnasio Dante di Firenze, ed aver fallito l'esame di licenza a causa delle materie scientifiche.

    Grazie ad una borsa di studio di 600 lire (che poi perse per aver partecipato ad una manifestazione studentesca) Pascoli si iscrisse all'Università di Bologna, dove ebbe come docenti il poeta Giosuè Carducci e il latinista Giovanni Battista Gandino, e diventò amico del poeta e critico Severino Ferrari. Conosciuto Andrea Costa ed avvicinatosi al movimento anarco-socialista, cominciò, nel 1877, a tenere comizi a Forlì e a Cesena. Durante una manifestazione socialista a Bologna, dopo l'attentato fallito dell'anarchico lucano Giovanni Passannante ai danni del re Umberto I, il giovane poeta lesse pubblicamente un proprio sonetto dal presunto titolo Ode a Passannante. L'ode venne subito dopo strappata (probabilmente per timore di essere arrestato o forse pentito, pensando all'assassinio del padre) e di essa si conoscono solamente gli ultimi due versi: «colla berretta d'un cuoco, faremo una bandiera».[2] La paternità del componimento fu oggetto di controversie: sia la sorella Maria sia lo studioso Piero Bianconi negarono che egli avesse scritto tale ode (Bianconi la definì «la più celebre e citata delle poesie inesistenti della letteratura italiana»[3]). Benché non vi sia alcuna prova tangibile sull'esistenza dell'opera, Gian Battista Lolli, vecchio segretario della federazione socialista di Bologna e amico del Pascoli, era presente durante la lettura e attribuì al poeta la realizzazione della lirica.[4]

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    Giovanni Pascoli nel 1882




    Pascoli fu arrestato il 7 settembre 1879, per aver partecipato ad una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, i quali erano stati a loro volta imprigionati per i disordini generati dalla condanna di Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!».[5] Dopo poco più di cento giorni, esclusa la maggiore gravità del reato, con sentenza del 18 novembre 1879, la Corte d'Appello rinviò gli imputati - Pascoli e Ugo Corradini - davanti al Tribunale: il processo, in cui Pascoli era difeso dall'avvocato Barbanti, ebbe luogo il 22 dicembre, chiamato a testimone anche il maestro Giosue Carducci che inviò una sua dichiarazione: "Il Pascoli non ha capacità a delinquere in relazione ai fatti denunciati". Per approfondire gli anni giovanili del Poeta e lìimpegno politico vedi: R. Boschetti, "Il giovane Pascoli. Attraverso le ombre della giovinezza", 2007, realizzato in occasione della mostra omonima allestita presso il Museo Casa Pascoli di San Mauro Pascoli. Nonostante le simpatie verso il movimento anarco-socialista in età giovanile, nel 1900, quando Umberto I venne ucciso da un altro anarchico, Gaetano Bresci, Pascoli rimase amareggiato dall'accaduto e compose la poesia Al Re Umberto. Abbandona la militanza politica, mantenendo un socialismo umanitario che incoraggiasse l'impegno verso i deboli e la concordia universale tra gli uomini, argomento di alcune liriche:

    « Pace, fratelli! e fate che le braccia / ch'ora o poi tenderete ai più vicini, / non sappiano la lotta e la minaccia. »
    (I due fanciulli)


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    Dopo la laurea, conseguita nel 1882 con una tesi su Alceo, Pascoli intraprese la carriera di insegnante di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Dopo le vicissitudini e i lutti, il poeta aveva finalmente ritrovato la gioia di vivere e di credere nel futuro. Ecco cosa scrive all'indomani della laurea da Argenta: "Il prossimo ottobre andrò professore, ma non so ancora dove: forse lontano; ma che importa? Tutto il mondo è paese ed io ho risoluto di trovar bella la vita e piacevole il mio destino".

    Su richiesta delle sorelle Ida e Maria, fino al 1882 nel convento di Sogliano, Pascoli riformulò il proprio progetto di vita, sentendosi in colpa per avere abbandonato le sorelle negli anni universitari. Ecco a tale proposito una lettera di Giovanni scritta da Argenta il 3 luglio 1882, il quale, ripreso dalle sorelle per averle abbandonate, così risponde:

    "Povere bambine! Sotto ogni parola di quella vostra lettera così tenera, io leggevo un rimprovero per me, io intravedevo una lagrima!." E ancora da Matera il poeta scrive nell'ottobre del 1882: "Amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate nell'ombra del chiostro [...] Amate voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti di mite contentezza, m'amate almeno come le gentili compagne delle vostre gioie e consolatrici dei vostri dolori?".

    Il 22 settembre 1882 era stato iniziato alla massoneria, presso la loggia "Rizzoli" di Bologna. Il testamento massonico autografo del Pascoli, a forma di triangolo (il triangolo è un simbolo massonico), è stato rinvenuto nel 2002.

    Dal 1887 al 1895 insegnò a Livorno al Ginnasio-Liceo "Guerrazzi e Niccolini", nel cui archivio si trovano ancora lettere e appunti scritti di suo pugno. Intanto iniziò la collaborazione con la rivista Vita nuova, su cui uscirono le prime poesie di Myricae, raccolta che continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900.

    Vinse inoltre per ben tredici volte la medaglia d'oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina.

    Nel 1894 fu chiamato a Roma per collaborare con il Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali (Gog e Magog), ed ebbe modo di conoscere e frequentare Gabriele D'Annunzio, il quale lo stimava, anche se il rapporto tra i due poeti fu sempre complesso.

    Il "nido" di Castelvecchio




    Divenuto professore universitario nel 1895 e costretto dalla sua professione a lavorare in città (Bologna, Messinae Pisa), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una "via di fuga" verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva la sua famiglia.

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    Nel 1895 infatti si trasferì con la sorella Maria nella Media Valle del Serchio nel piccolo borgo di Castelvecchio nel comune di Barga, in una casa che divenne la sua residenza stabile quando poté acquistarla col ricavato della vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi. Dopo il matrimonio della sorella Ida con il romagnolo Salvatore Berti, matrimonio che il poeta aveva contemplato e seguito sin dal 1891, Pascoli vivrà in seguito alcuni mesi di grande sofferenza per l'indifferenza della sorella Ida nei suoi confronti e le continue richieste economiche da parte di lei e del marito, vivendo la cosa come una profonda ferita dopo i dieci anni di sacrifici e dedizione alle sorelle, a causa delle quali il poeta aveva di fatto più volte rinunciato all'amore. A tale proposito, una mostra dedicata agli "Amori di Zvanì" e allestita dal Museo Casa Pascoli nel 2013, getta luce sulle vicende amorose inedite di Pascoli, chiarendo finalmente il suo desiderio più volte manifestato di crearsi una propria famiglia. È attesa la pubblicazione a cura di Rosita Boschetti, responsabile del Museo Casa Pascoli, dal titolo "Affari di cuore. Gli amori di Zvanì" per il 2015. Il fidanzamento con la cugina Imelde Morri di Rimini, all'indomani delle nozze di Ida, organizzato all'insaputa di Mariù, dimostra infatti il reale intento del poeta. Di fronte alla disperazione di Mariù, che non avrebbe mai accettato di sposarsi, né l'ingerenza di un'altra donna in casa sua, Pascoli ancora una volta rinuncerà al proposito di vita coniugale.

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    Si può affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l'unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno, peraltro sempre innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di suo padre. Sul tormentato rapporto con le sorelle - il "nido" familiare che ben presto divenne "tutto il mondo" della poesia di Pascoli - ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi:

    « Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Media Valle del Serchio dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura. »
    ([M. Luzi, Giovanni Pascoli])


    In particolare si fecero difficili i rapporti con Giuseppe, che sposò una vedova con figli di un membro della famiglia Pagliarani di San Mauro, che Pascoli riteneva coinvolti nell'omicidio del padre; dopo la fine del matrimonio Giuseppe mise più volte in imbarazzo Giovanni a Bologna, ubriacandosi continuamente in pubblico nelle osterie, mentre il marito di Ida, che poi la avrebbe abbandonata con i figli piccoli, chiedeva continuamente soldi per i suoi debiti, soldi che Pascoli comunque spesso gli concedeva.

    Gli ultimi anni

    Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea, gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati, che lo condussero in una fase di depressione e nel baratro dell'alcolismo: il poeta abusava di vino e cognac, come riferisce anche nelle lettere.[12][13] Le uniche consolazioni sono la poesia, e il suo "nido di Castelvecchio", dopo la perdita della fede trascendente, cercata e avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una sorta di agnosticismo mistico, come testimonia una missiva al cappellano militare padre Giovanni Semeria: «Io penso molto all'oscuro problema che resta... oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse».

    Mentre insegnava latino e greco nelle varie università dove aveva accettato l'incarico, pubblicò anche i volumi di analisi dantesca Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902). Nel 1906 assunse la cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna succedendo a Carducci. Qui ebbe allievi che sarebbero stati poi celebri, tra cui Aldo Garzanti.

    Nel novembre 1911, presenta al concorso indetto dal Comune di Roma per celebrare il cinquantesimo dell'Unità d'Italia, il poema latino Inno a Roma in cui riprendendo un tema già anticipato nell'ode Al corbezzolo esalta Pallante come il primo morto per la causa nazionale e poi deposto su rami di corbezzolo che con i fiori bianchi, le bacche rosse e le foglie verdi, vengono visti come una anticipazione della bandiera tricolore. Scoppiata la guerra italo-turca, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore dell'imperialismo La grande Proletaria si è mossa: egli sostiene infatti che la Libia sia parte dell'Italia irredenta, e l'impresa sia anche a favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che positiva per i contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta, in sostanza, non di nazionalismo vero e proprio, ma di un'evoluzione delle sue utopie socialiste e patriottiche. Il 31 dicembre 1911 compie 56 anni. Sarà il suo ultimo compleanno: poco tempo dopo le sue condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia di lasciare Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata la cirrosi epatica; nelle memorie della sorella viene invece affermato che fosse malato di epatite e tumore al fegato, forse per nascondere l'abuso di alcool. Il certificato di morte riporta come causa un tumore allo stomaco, ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta di Mariù, che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava sconvenienti dall'immagine del fratello, come la dipendenza da alcool, la simpatia giovanile per Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria.La malattia lo porta infatti alla morte il 6 aprile 1912 nella sua casa di Bologna, in via dell'Osservanza n. 4. La probabile vera causa del decesso fu appunto la cirrosi epatica.Pascoli venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l'amata sorella Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento, nonché curatrice delle opere postume
    Il profilo letterario: la sua rivoluzione poetica[modifica | modifica wikitesto]

    L'esperienza poetica pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del decadentismo europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana: essa affonda le radici in una visione pessimistica della vita in cui si riflette la scomparsa della fiducia, propria del Positivismo, e in una conoscenza in grado di spiegare compiutamente la realtà. Il mondo appare all'autore come un insieme misterioso e indecifrabile tanto che il poeta tende a rappresentare la realtà con una pennellata impressionistica che colga solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile per l'autore avere una concreta visione d'insieme.

    Coerentemente con la visione decadente, il poeta si configura come un "veggente", mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile: nel Fanciullino, Pascoli afferma quanto il poeta fanciullino sappia dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa e alogica.

    La formazione letteraria

    La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873-1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi ed i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana. Nel 1875 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione ed i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu una delle poche, brevi parentesi politiche della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta greco Alceo.

    A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario ed anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux Mondes, che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henri Fabre e Maurice Maeterlinck. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.

    Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua. Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I Romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.

    Verso gli anni '80 si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento. Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come il capolavoro di Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo Lord di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887).

    Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del Fanciullino, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.

    La poesia come "nido" che protegge dal mondo

    Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di tutte le cose; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo (che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso), approdando, come si è detto, al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma, appunto, solo apparentemente: in realtà c'è una connessione (a volte anche un po' forzata) tra i concetti ed il poeta spesso e volentieri è costretto a "voli vertiginosi" per mettere "in comunicazione" questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel “nido”, riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del “nido”.

    Il duomo, al cui suono della campana si fa riferimento ne L'ora di Barga
    Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del primo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.

    Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».[18]

    In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana. Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.

    Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera.[senza fonte] La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli - mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva.

    La_grande_proletaria
    Frontespizio di un'edizione del discorso socialista e nazionalista di Pascoli La Grande Proletaria si è mossa, in favore della guerra di Libia.


    Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1906, i Poemi italici del 1911 e i Poemi del Risorgimento postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903), nei quali il poeta trae spunto dall'ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla ("In viaggio"), nonché parte dei Poemetti. Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.

    « Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
    Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali. »

    (Dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)


    Il poeta e il fanciullino

    Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso così bene esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell'inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:
    dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;
    della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.

    Caratteristiche del fanciullino:
    "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
    "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
    Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa - effetto, ma intuisce.
    "Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".
    Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo

    Una rondine. Gli uccelli e la natura, con precisione del lessico zoologico e botanico ma anche con semplicità, sono stati spesso cantati da Giovanni Pascoli
    Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:
    Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
    Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).
    Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
    Percepisce l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

    La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso, tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale: ad esempio la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto raffigura il male del mondo in generale. Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta:
    il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime la proprie sensazioni.
    il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

    La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta.

    Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli".

    Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva ricerca dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell'impresa di far uscire la poesia italiana dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo del Carducci e del Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D'Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo.

    La lingua pascoliana è profondamente innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con brevi frasi, musicali e suggestive.


    OPERE PRINCIPALI
    1891 - Myricae (la fondamentale raccolta di versi esce nella I edizione)
    1897 - Poemetti
    1898 - Minerva oscura (studi danteschi)
    1903 - Canti di Castelvecchio (dedicati alla madre)
    - Myricae (edizione definitiva accresciuta)
    - Miei scritti di varia umanità (di essi fa parte « Il Fanciullino »)
    1904 - Primi poemetti
    - Poemi conviviali
    1906 - Odi e Inni
    1907 - Canti -di Castelvecchio (edizione definitiva)
    - Pensieri e discorsi 1909 - Nuovi poemetti
    - Poemi italici
    1911/12 - Poemi del Risorgimento - La grande proletaria si è mossa.
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    IL PENSIERO DI PASCOLI

    Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento.

    La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del "nido" familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.

    L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto:

    ...tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta che hai rischiato di far fallire l'altra. La felicità tu non l'hai data e non la potevi dare: ebbene, se non hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede...

    Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita.

    Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi.

    La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione, sicchè la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.




    ... io vorrei trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. [...] Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi ala campagna.
    (dalla Prefazione ai Primi poemetti, 1897)




    Myricæ (1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.

    Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del 1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento: "Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane&", scrisse il poeta nella Prefazione del 1894.

    E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi "impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale –avvertito come paura e mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere, Orfano, L'assiuolo).

    Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle 155 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si apre con Il giorno dei morti, il giorno in cui il poeta si reca al camposanto che "oggi ti vedo / tutto sempiterni / e crisantemi. A ogni croce roggia / pende come abbracciata una ghirlanda /donde gocciano lagrime di pioggia." In questa giornata "Sazio ogni morto, di memorie, riposa." Non tutti però. "Non i miei morti."

    Tempora

    Un bubbolìo lontano...

    Rosseggia l'orizzonte,
    come affocato, a mare:
    nero di pece, a monte,
    stracci di nubi chiare:
    tra il nero un casolare:
    un'ala di gabbiano.



    La mia sera


    Il giorno fu pieno di lampi;
    ma ora verranno le stelle,
    le tacite stelle. Nei campi
    c'è un breve gre gre di ranelle.
    Le tremule foglie dei pioppi
    trascorre una gioia leggera.
    Nel giorno, che lampi! che scoppi!
    Che pace, la sera!Si

    devono aprire le stelle
    nel cielo sì tenero e vivo.
    Là, presso le allegre ranelle,
    singhiozza monotono un rivo.
    Di tutto quel cupo tumulto,
    di tutta quell'aspra bufera,
    non resta che un dolce singulto
    nell'umida sera.

    È, quella infinita tempesta,
    finita in un rivo canoro.
    Dei fulmini fragili restano
    cirri di porpora e d'oro.
    O stanco dolore, riposa!
    La nube del giorno più nera
    fu quella che vedo più rosa
    nell'ultima sera.

    Che voli di rondini intorno!
    che gridi nell'aria serena!
    La fame del povero giorno
    prolunga la garrula cena.
    La parte, sì piccola, i nidi
    nel giorno non l'ebbero intera.
    Né io... e che voli, che gridi,
    mia limpida sera!

    Don... Don... E mi dicono, Dormi!
    mi cantano, Dormi! sussurrano,
    Dormi! bisbigliano, Dormi!
    là, voci di tenebra azzurra...
    Mi sembrano canti di culla,
    che fanno ch'io torni com'era...
    sentivo mia madre... poi nulla...
    sul far della sera.


    Poemetti (pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904 e Nuovi poemetti, 1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul modello delle Georgiche virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di Rosa per il cacciatore Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa, La piada, L’accestire).

    Italy affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso riflesso di quello del nido) dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità, spogliato delle sue connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra la vita patriarcale che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della metropoli americana, tutta tesa ai "bisini" ("business" gli affari) e al successo. Il contrasto si risolve sul piano linguistico in un audace sperimentalismo.

    A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo insistito, e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata definita "una poesia astrale", aperta a "voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco" (La vertigine).


    Il libro


    Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
    aperto, il libro. Quella quercia ancora
    esercitata dalla tramontana
    viveva nella sua selva sonora;
    e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
    sembra che ascolti il tarlo che lavora.
    E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
    dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
    delle montagne e il vento del deserto,
    sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
    sfogli – se n'ode il crepitar leggiero –
    le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,
    invisibile, là, come il pensiero...



    ELEMENTI DELLO STILE


    Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.

    Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).

    Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.

    La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.

    Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.

    Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo

    «Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l' uno e l' altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. é, per usare immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
    Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
    Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma é trascinato; non persuade, ma è persuaso.»
    […]
    «Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l' amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi.
    é così?

    ……………………………………………………………………..
    Sì.»
    (G. Pascoli, Il fanciullino, 1897)

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    LA PICCOZZA
    (Testo originale e integrale, novembre 1911)
    (da Limpido Rivo, prose e poesie pubblicate dalla sorella Maria il 5 sett. 1912)

    Ne LA PICCOZZA, iI poeta, con la brevità che s'addice alla poesia lirica, descrive la miseria, il pianto e l'abbandono tra cui comincia la sua via, che poi prosegue con coraggio e con ardore in mezzo alle più grandi difficoltà e ai più gravi pericoli. La via sale. Va per il monte. Solo, senza aiuto e senza guida, solo con la piccozza con la quale si scava man mano il passo nel ghiaccio. Ma non sale per discendere, ossia per avere plausi e onori. Egli vuole poi, se giunge in cima, restare e morire tra le aquile, augurandosi che dietro lui qualcun altro arrivi, e, guidato dalla rilucente piccozza che a lui sarà scivolata di mano, ma che sarà poco lontana, lo trovi tra l'alga rossa. L'alga rossa che si vede talvolta sugli alti monti e che fa parere la neve tutta insanguinata.


    Da me !... Non quando m'avviai trepido
    c'era una madre che nel mio zaino
    ponesse due pani
    per il solitario domani.

    Per me non c'era bacio né lagrima,
    né caro capo chino su l'omero
    a lungo, né voce
    pregante, né segno di croce.

    Non c'eri ! E niuno vide che lacero
    fuggivo gli occhi prossimi, subito,
    o madre, accorato
    che niuno m'avesse guardato.

    Da me, da solo, solo e famelico,
    per l'erta mossi rompendo ai triboli
    i piedi e la mano,
    piangendo, sì, forse, ma piano:

    piangendo quando copriva il turbine
    con il suo pianto grande il mio piccolo,
    e quando il mio lutto
    spariva nell'ombra del Tutto.

    Ascesi senza mano che valida
    mi sorreggesse, nè orme ch' abili
    io nuovo seguissi
    su l'orlo d' esanimi abissi.

    Ascesi il monte senza lo strepito
    delle compagne grida. Silenzio.
    Ne' cupi sconforti
    non voce, che voci di morti.

    Da me, da solo, solo con l'anima,
    con la piccozza d'acciar ceruleo,
    su lento, su anelo,
    su sempre; spezzandoti, o gelo!

    E salgo ancora, da me, facendomi
    da une la scala, tacito, assiduo;
    nel gelo che spezzo,
    scavandomi il fine ed il mezzo.

    Salgo; e non salgo, no, per discendere,
    per udir crosci di mani, simili
    a ghiaia che frangano,
    io, io, che sentii la valanga;

    ma per restare là dov è ottimo restar,
    sul puro limpido culmine,
    o uomini; in alto,
    pur umile: è il monte ch'è alto;

    ma per restare solo con l' aquile,
    ma per morire dove me placido
    immerso nell'alga
    vermiglia ritrovi chi salga:

    e a me lo guidi, con baglior subito,
    la mia piccozza d'acciar ceruleo,
    che, al suolo a me scorsa,
    riflette le stelle dell'Orsa.

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    Ricordi di un vecchio scolaro

    (Testo integrale e letterale tratto da Limpido Rivo, prose e poesie pubblicate dalla sorella Maria il 5 sett. 1912)


    Nota riportata dalla sorella Maria nello stesso volume:

    "Questo scrittarello fu stampato nel giornale bolognese " Il Resto del Carlino, la domenica 9 febbraio 1896, nel qual giorno si celebrava in Bologna solennemente il trigesimo quinto anniversario dell'insegnamento di Giosué Carducci in quell' Univérsità. Il maestro vedendo quella mattina il vecchio scolaro, dopo la festa ineffabilmente soave e grande, gli disse: "Ho letto il tuo scritto: m'ha fatto piangere: tutto vero! tutto vero!".

    Lo "scrittarello": RICORDI DI UN VECCHIO SCOLARO

    " Il vecchio scolaro era allora un povero ragazzo smilzo e scialbo. Veniva dalla Romagna, da una casuccia dove una famiglia di ragazzi; di ragazzi e bambine soli soli, fatti orfani da un delitto tuttora impunito, e poi abbandonati e lasciati soffrire soli soli (era indifferenza della gente? era viltà?); una famiglia che aveva per capo il ragazzo più grande, sedicenne appena quando ebbe tutta la nidiata da imboccare; faceva economia.
    Il ragazzo più grande (ora non vede e non sente più nulla, di là dove da un pezzo dimora, tra Savignano e San Mauro, a mezza strada, (Nota del Pascoli: A mezza strada tra San Mauro di Romagna é Savignano è il camposanto comune delle due terre. Quel fratello maggiore, di grande ingegno, di grandissimo cuore e di nessuna fortuna, si chiamava Giacomo é morì il 12 maggio del 1876. Infelice! Lasciò due bimbi ché morirono anche loro).

    Non c'è più di lui ché la benedetta memoria! il ragazzo che faceva da babbo, credeva di scorgere in uno dei suoi figliuoli fratelli una certa disposizione alle lettere. Poi, in quell'anno, era bandito per la prima volta il concorso a sei sussidi per chi studiasse lettere nell'università di Bologna. Era una liberalità di questo Comune, di questa nobile città, liberalità vera e larga in quanto ammetteva al concorso tutti gli italiani, non i bolognesi soli: sicchè anche dall'umile villaggio della Romagna, dove era quella casuccia nella quale faceva economia quella famigliuola tutta di ragazzi e di bambine, il ragazzo più grande udì il buon invito fornì il suo minore (il vecchio scolaro: oh! dolcezza amara di ricordi !) di poche lire, troppe per chi le dava, un po' pochine per chi le riceveva; lo imbarcò solo soletto in una terza classe del treno e gli disse: Tuo babbo ti aiuti! Era il giorno avanti il primo esame. La mattina dopo, il povero ragazzo smilzo e scialbo si trovava tra una ventina d'altri ragazzi, venuti da tutte le parti d'Italia, o sorridenti o rumorosi, aspettando... Aspettando chi? Carducci. Egli doveva venire a dettare il tema d'italiano. Proprio Carducci? Carducci in persona.

    Oh ! il povero ragazzo aspettava con forse il maggior palpito. Egli non aveva nel suo ingegno e nei suoi studi la fede che aveva il suo fratello maggiore; egli prevedeva, ahimè ! di doversene tornare a casa, di lì a pochi giorni, come era venuto... cioè non come era venuto, ma senza quelle lire, o troppe o troppo poche; e trovare più freddo il freddo focolare quando si fosse spenta quell'ultima speranza. Ma non per questo palpitava, allora, il ragazzo, egli palpitava per l'aspettazione di colui che doveva apparire tra pochi minuti.

    Nel collegio, donde era uscito anni prima (un ottimo collegio di scolopi), egli aveva sentito parlare di Carducci; come, si può immaginare: aveva cantato Satana! (Nota del Pascoli: Satana nell'inno del Carducci rappresenta il progresso, che si avanza sempre vincendo qualche pregiudizio che lo inimica; non il principio del male. Cambiando il nome di quello a cui è diretto, l'inno non avrebbe nulla di satanico).

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    Un bel giorno però uno degli scolopi, il professore d'italiano, ingegno elegante e ardito, anima e fiera e gentile, il Padre Donati (Nota del Pascoli: Padre Donati: era stato ed era tuttavia amico del Carducci, come del Néncioni e del Targioni Tozzetti; insomma di quelli che da sè si chiamavano "amici pedanti". Nei loro conversari era detto "Cecco frate". Era efficacissimo maestro, e puro e nervoso scrittore; un cinquecentista sperso nel secolo nostro) nella sua cella gli mostrò un ritratto : un ritratto di giovane avventuriere, cospiratore, soldato o che so io; una testa pugnace, audace di ribelle indomabile. Il ragazzo pensò forse a un prigione di Aspromonte, a un caduto di Mentana. " Questo ...disse il frate, " è il poeta più classico e più novatore, lo scrittore più antico e più moderno che abbia l'Italia, è il Carducci. Al frate lucevano gli occhi azzurrissimi, e al ragazzo si cominciò a colorir l'anima di non so qual colore nuovo. Ricordò; e lesse poi quel che potè: ben poco; pure assai perchè nel momento che ho detto, egli palpitasse come forse non altri.

    A un tratto un gran fremito, un gran bisbiglio: poi, silenzio. Egli era in mezzo alla sala, passeggiando irrequieto, quasi impaziente. Si volgeva qua e là a scatti, fissando or su questo or su quello, per un attimo, un piccolo raggio ardente de' suoi occhi mobilissimi.
    "L'opera di Alessandro Manzoni" dettò. Poi aggiunse con parole rapide, staccate, punteggiate: "Ordine, chiarezza, semplicità i Non mi facciano un trattato d'estetica". Una pausa di tre secondi; e concluse: "Già non saprebbero fare". Sorrise a questo punto? Chi lo sa? S'indugiò ancora un poco e uscì.

    Oh ! il povero ragazzo stette più d' un' ora senza nemmeno provarsi a intingere la penna! Il suo vicino, un bel fanciullone piemontese, con una sua grossa e buona testa dondolante, gli domandò con gentile atto di pietà Non scrive? L'altro si svegliò dal suo torpore e cominciò a scrivucchiare. Che cosa, Dio mio? O piccolo padre lontano ! o dolci bambine preganti a quell'ora per lui ! È fatta: nella testa non c'è nulla di buono; nel calamaio, qualche paroletta a quando a quando. E questa ragnata tessitura di grame parole l'avrà a leggere lui? Avanti avanti ! come spinto a furia, per le spalle, inertemente !

    E qualche giorno dopo ci fu l'esame orale. E il giovinetto romagnolo entrò avanti il consesso giudicante, come se vi fosse travolto da una ventata; e rivide lui e si sentì interrogare. Ma egli qualche cosa doveva aver letto nel viso smunto e pallido del ragazzo: leggeva forse il pensiero che appariva tra uno sforzo e un altro per rispondere; pensiero d'assenti, pensiero di solo al mondo, pensiero d'un dolore e d'una desolazione che al maestro non potevano essere fatti noti se non dagli occhi del ragazzo, che pregava forse con essi più che non rispondesse con la bocca; dagli occhi di lui soli, perchè nessuno aveva parlato o pregato per lui : certo il Maestro interrogava con non so qual pietà e ascoltava le risposte impacciate con una specie di rassegnazione cortese, accomodandole e spiegandole e giustificandole.

    Passò questo doloroso quarto d'ora; passarono gli altri. Il ragazzo fu richiamato a dare qualche schiarimento sul suo attestato di licenza, sentì o credè sentire che il Carducci, proprio il Carducci, ampliava e chiariva le sue spiegazioni, comunicandole agli altri professori.
    Questo lo sollevò un poco; ma ogni barlume di speranza era spento quando due o tre giorni dopo aspettava nell'università la sentenza che doveva essere Iì per li fatta pubblica dagli esaminatori. Egli si vergognava al pensiero che altri credesse che egli sperasse ancora e fosse lì per un' ultima pertinace illusione. No no: egli era ben certo di non essere de' sei primi: tutto al più sarebbe giudicato degno dell'ammissione (Nota del Pascoli: A quei tempi la legge era così, la licenza liceale non bastava, come basta ora, per entrare nell'università. Ci voleva un altro esame)
    Ma per lui era lo stesso che esserne giudicato indegno: perchè senza il sussidio doveva tornarsene a casa e lasciarsi... vivere o morire? O vivere o morire, era lo stesso per lui. E dei buoni giovani gli facevano coraggio: Sono sei posti... Chi sa? Basta: a uno squillo di campanello tutti entrarono. Gli esaminatori erano tutti lì: la fiera testa del poeta si volgeva da parte, come indifferente.

    Gandino, il severo e sereno Gandino, con quel volto che sembra preso a una medaglia romana, scandendo le parole con la sua voce armoniosa, ammonì: "Leggerò i nomi dei candidati secondo l'ordine di merito: i primi sei s'intende che hanno conseguito il sussidio comunale". Pausa.

    Al ragazzo romagnolo batteva il cuore; ma solo, per così dire, in anticipazione del palpito che lo avrebbe scosso in quel momento che era per separare il quinto nome dal sesto. Sonò il primo nome nel silenzio della sala... Era il suo. In quell'attimo egli, il povero ragazzo, vide lampeggiare un sorriso. Si: la testa del poeta si era illuminata d'un sorriso subito spento.

    Oh ! il povero ragazzo è diventato un vecchio scolaro e potrà divenire un vecchio, senz'altro: si è trovato ad altre traversie, ha provato altre gioie, sebbene rare, ad altre si troverà, altre ne proverà, come vorrà il suo destino; ma non ha dimenticato e non dimenticherà mai quel sorriso! Egli senti poi il Carducci risuscitare e rievocare dalla cattedra le morte età e le anime svanite: lo sentì migliorare (pare e non è esagerazione) con una frase, con una parola, con un gesto i grandi poeti; lo vide, nel suo studio, preparare, con movenze di leone, le saette lucide e mortali per ferire questo e quel nemico, non di lui ma dell'idealità sua; lo vide tra le coppe misurate improvvisare, con giovani amici ammiranti, piccoli stornelli, fiori di grazia; ascoltò dalle sue labbra, nella religiosa ombra della scuola, la prima ode barbara; ascoltò dalle sue labbra, anzi dalla sua anima, di sul manoscritto, il Canto dell'Amore...

    Ella è un'altra Madonna, ella è un'idea
    Fulgente dl giustizia e di pietà.
    Io benedico chi per lei cadea,
    Io benedico chi per lei vivrà:

    lo sentì piangere recitando

    Di cima a'I poggio allor, da 'I cimitero,
    Giù de' cipressi per la verde via,
    Alta, solenne, vestita di nero
    Parvemi riveder nonna Lucia,...

    lo sentì tra cento bandiere, avanti tutto un popolo, cui egli impose di non applaudire e che non potè ubbidirgli sino all'ultimo, parlare di Garibaldi morto, in un modo... con una voce... con una eloquenza... che mai Garibaldi non fu tanto vivo, quando allora, nelle anime nostre: tante cose sentì da lui e di lui vide, belle, nobili, alte, mirabili, gloriose, ora d'una semplicità di fanciullo, ora d'una grandezza di eroe, tante, tante! Ma in questo giorno della sua festa solenne, nella quale il maestro riceve un'attestazione di riverenza e di amore e di gratitudine dalla sua patria e da tutto il mondo civile, il suo vecchio scolaro non ha trovato ricordo più soave da evocare, che questo, di quel sorriso ! di quel sorriso che si compiaceva d'un dolore che egli leniva, d'una vita che egli conservava.

    Poichè il poeta, il maestro, tutti sanno che è grande; ma soli quelli che gli vissero e vivono da presso, soli specialmente i suoi vecchi e giovani scolari, sanno che egli è anche più buono che grande".
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    X AGOSTO


    ( Nota della sorella: X AGOSTO. La notte di San Lorenzo, è la notte delle stelle cadenti. E ognuno può farne esperimento come ne ho fatto io. Guizzano in un attimo e dileguano. Il fatto che proprio nella sera di San Lorenzo alcuni uomini iniqui tolsero la vita, senza nemmeno un'ombra di causa che potesse spiegare tanta crudeltà, al nostro padre che lasciava otto figli, suggerisce al poeta l' immagine che il cielo pianga le sue stelle su questa terra buia e malvagia".

    San Lorenzo, io lo so perchè tanto
    di stelle per l'aria tranquilla
    arde e cade, perchè sì gran pianto
    nel concavo cielo sfavilla.

    Ritornava una rondine al tetto:
    l'uccisero: cadde tra spini
    ella aveva nel becco un insetto:
    la cena de' suoi rondinini.

    Ora è là, come in croce, che tende
    quel verme a quel cielo lontano;
    e il suo nido è nell'ombra, che attende,
    che pigola sempre più piano.

    Anche un uomo tornava al suo nido
    l'uccisero: disse: Perdono;
    e restò negli aperti occhi un grido:
    portava due bambole in dono...

    Ora là, nella casa romita,
    lo aspettano, aspettano invano:
    egli immobile, attonito, addita
    le bambole al cielo lontano.

    E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
    sereni, infinito, immortale,
    oh! d'un pianto di stelle lo inondi
    quest'atomo opaco del Male!

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    La poesia cosmica


    L'ammasso aperto delle Pleiadi (M45), nella costellazione del Toro. Pascoli lo cita col nome dialettale di "Chioccetta" ne Il gelsomino notturno. La visione dello spazio buio e stellato è uno dei temi ricorrenti nella sua poesia
    Fanno parte di questa produzione pascoliana liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine (Nuovi Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: "E la terra sentii nell'Universo. / Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella". Si tratta di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo ( La Vertigine). La Terra è errante nel vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la vera dimora dell'uomo rapito come da un vento cosmico. Scrive il critico Giovanni Getto: " È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire la realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell'emozione fantastica, nonostante la chiara nozione copernicana sul piano intellettuale, del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione eliocentrica o addirittura galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro di sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia".

    La lingua pascoliana

    Pascoli disintegra la forma tradizionale del linguaggio poetico: con lui la poesia italiana perde il suo tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con frasi brevi, musicali e suggestive. Il linguaggio è fonosimbolico con un frequente uso di onomatopee, metafore, sinestesie, allitterazioni, anafore, vocaboli delle lingue speciali (gerghi). La disintegrazione della forma tradizionale comporta "il concepire per immagini isolate (il frammentismo), il periodo di frasi brevi e a sobbalzi (senza indicazione di passaggi intermedi, di modi di sutura), pacatamente musicali e suggestive; la parola circondata di silenzio. "Pascoli ha rotto la frontiera tra grammaticalità e evocatività della lingua. E non solo ha infranto la frontiera tra pregrammaticalità e semanticità, ma ha anche annullato "il confine tra melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti. In una parola egli ha rotto la frontiera fra determinato e indeterminato".

    Pascoli e il mondo degli animali

    In un'epoca storica in cui il mondo degli animali rappresenta un'entità assai ridotta nella vita degli uomini e dei loro sentimenti, quasi esclusivamente relegato agli aspetti di utilizzo pratico e di supporto al lavoro, soprattutto agricolo, Pascoli riconosce la loro dignità e squarcia un'originale apertura sull'esistenza delle specie animali e sul loro originale mondo di relazioni. Come scrive Maria Cristina Solfanelli, "Giovanni Pascoli si avvede assai presto che il suo amore per la natura gli permette di vivere le esperienze più appaganti, se non fondamentali, della sua vita. Lui vede negli animali delle creature perfette da rispettare, da amare e da accudire al pari degli esseri umani; infatti, si relaziona con essi, ci parla di loro e, spesso, prega affinché possano avere un'anima per poterli rivedere un giorno.


    Sulla nota poesia "La cavalla storna",
    Riportiamo un'altra nota (in originale) della sorella Maria, apparsa sempre nel citato "Limpido Rivo"
    pubblicato il 5 settembre 1912, subito dopo la morte del Poeta.

    pascoli2




    http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pascoli
     
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  2. Oceanya
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    LA CAVALLA STORNA QUI
     
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1 replies since 13/10/2014, 02:09   688 views
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